La villa della famiglia Craparo si trovava in contrada San Michele.
Qualche anno prima, infatti, Pietro Craparo e Mario Camarda avevano deciso di addivintari magari vicini di casa. Per questo avevano acquistato due appezzamenti di terreno confinanti, uno dopo l’altro, e uno dopo l’altro si erano messi a costruire la loro nuova casa, non potendo più abitare in Paisi come tutti gli altri.
Il loro nuovo status infatti, per loro imprenditori e soci fondatori della CraCa Costruzioni, doveva passare attraverso il mattone, doveva lasciare un segno, così come era sempre stato in Paisi, appartenendo le più belle case del Corso ai vari notabili, il dottore Marino, il notaio Di Giovanni, l’avvocato Marotta. Al momento del loro progetto al Corso non c’era più posto, fatta eccezione per il terreno dove sorgeva Villa Marcella, colpita dalla bumma, e nessuno dei due, pur per ragioni differenti, ebbe mai nessun dubbio che su quel terreno non voleva costruire, ma mentre per Mario Camarda le motivazioni erano in qualche modo più semplici, in quelle di Pietro Craparo si mescolavano accussì tanti sentimenti e movimenti dell’animo che manco lui li sapeva analizzare tutti.
Mario Camarda scelse per primo San Michele, una contrada molto povera, dove abitavano allora solo i poveracci, come gli jurnatari, fra cui Oreste Grasso. La contrada, guardata da fora, aveva proprio una bella posizione alta, su uno dei piccoli colli che dominavano il Paisi. Mario Camarda desiderava l’aria pulita e la vista aperta, dopo tant’anni passati nella casa del padre, in Contrada Malotempo.
Una casa chiusa al mondo, con l’ingresso che dava verso la montagna e un muretto a secco con i cocci supra a dissuadere gli eventuali visitatori, che comunque non si vedevano mai, data la fama di cattivo carattere di suo padre Luciculi. La loro casa, una serie di stanze che s’addossavano l’una all’altra in forme scomposte, a reggersi l’una all’altra, era proprio in una fossa, un posto dove manco per sbaglio ci poteva arrivare un alito di vento, che fosse di libeccio di maestrale o di fortunale. E per giunta pioveva, e magari assai, e questo, oltre a dare il nome alla contrada, intensificava il puzzo delle bestie che stavano tutto attorno alla fattoria, fino a farne un fetore insopportabile.
Dopo tanti anni, Mario Camarda con la sua nuova famiglia voleva quindi stare in alto, voleva stare esposto al vento e magari ai temporali. Voleva una casa quadrata, semplice, con un grosso ingresso verso il paese, grandi finestre e nessuna cancellata. E non importa se fossero venuti i ladra, avrebbe accattato tutto n’autra vota e n’autra vota ancora, tutto pur di non stare chiuso dentro come si era sentito per tant’anni. Accussì cominciò a costruire, subito dopo che Villa Marcella fu demolita, la sua licenza firmata in quattro e quattr’otto asseme a tutte le altre da un assessore Bianca tanto disponibile da apparire minaccioso, e nel giro di sei mesi ci finì ad abitare.
La costruzione si vedeva bene da tutto il Paisi, e a occhio attento magari dal mare. Con le sue linee dritte ricordava più un mausoleo che una casa dove abitarici da vivi, ma questo era una cosa che accadeva a molti di quelli che non avevano avuto sorda e di colpo se ne trovavano assai, che necessitavano dare al loro nuovo status un senso di immortalità, finendo quindi per imitare, consapevolmente o inconsapevolmente, le cappelle del camposanto. In ogni caso era una bella costruzione, proporzionata nelle sue linee, due piani solamente e nessuna eccentricità a buttare sorda, se si eccettuava il balcone del primo piano. Qui, in corrispondenza della sua camera da letto, Mario Camarda aveva infatti voluto un lungo balcone, accussì profondo che pareva più un trampolino che un semplice affaccio. La cosa fu oggetto di svariate discussioni con l’ingegnere, il quale si sforzava, pur con tutte le cautele che necessitava il fornire una risposta a un cliente accussì importante, peraltro il suo padrone, di far comprendere a Mario Camarda che una cosa del genere non era possibile, ma tanta e tale fu l’ostinazione del suo padrone che alla fine l’uomo si arrese.
Anche se si racconta che una sira, esasperato, tiratosi fuori per un attimo dal suo fare pacato e accomodante, sbatté le carte del progetto sul tavolo urlando: Nun teni! Come glielo devo dire che nun teni? Deve capire che non regge, che una simile struttura, aggettante dalla stretta portafinestra per svariati metri, questa almeno era l’intenzione di Mario Camarda, era destinata a crollare al primo scossone, cercava di convincerlo il povero progettista, provocando le risate dell’altro. Terromoti? In sta zona? Ma se non c’è un terremoto da più di vent’anni. E accussì nenti, non ci fu niente da fare, e seppur leggermente accorciato il balcone si fici, così che Mario Camarda, quando durante la notte si senteva che il puzzo delle bestie della fattoria di suo padre Luciculi c’acchianava da dintra a tradimento, poteva susirisi e camminare nel vuoto a occhi chiusi per diversi passi, cullato anziché preoccupato dall’oscillazione che la struttura inevitabilmente subiva. Solo sua moglie in certi momenti se ne lamentava, perché accadeva che in certe giornate di tempesta, specie quando il vento voltava da mare a terra in modo repentino, il balcone si mettesse a oscillare, prima con piccoli movimenti, poi sempre più ampi, a produrre una sorta di sibilo ininterrotto, come se dialogasse con i movimenti dell’aria. In quei momenti la povera signora Domenica avanzava qualche dubbio sulla tenuta del balcone, una cosa lieve a dire il vero, perché in casa, lo sapevano tutti, comandava solo suo marito Mario.
L’affare del balcone fu niente per il povero ingegnere Caccamo, rispetto a quello che ci capitò quando cominciarono i lavori per la villa accanto, la casa di Pietro Craparo. Fin da subito ci furono questioni per capire quante case dovevano essere. Al contrario di Mario Camarda, che aveva voluto e pensato quella casa solo per sé, sua moglie e i suoi figli, Pietro Craparo pretendeva invece che tutta la famiglia si spostasse nella sua nuova costruzione.
Mentre il suo socio era stato ben felice di lasciare suo fratello Cateno e quella spostata di sua moglie Angelica giù in contrada Malotempo a curare le bestie e le loro sorelle, che erano rimaste schitte e non uscivano mai di casa, e allo stesso modo aveva accettato in fondo di buon grado la decisione di suo padre, alla morte della madre, di trasferirsi in uno degli appartamenti dello Scorsone, significando con questo, anzi, che erano case accussì importanti e accussì di lusso che addirittura il padre di uno dei due soci della CraCa Costruzioni ci si andava trasferendo, per Pietro Craparo tutta la questione era molto più anturciuniata, com’era finita per essere la sua casa, subito addiventata, per tutto il Paisi, SciaquaRosa, a ricordare la storia delle due sorelle Rosa e Agnese, che una sciacquava e l’altra beveva, fino a perdere tutti i loro averi.
Il progetto della casa di Pietro Craparo partì addirittura prima di quello di Mario Camarda, ma a guardarlo da fuori, anche da sutta al Paisi, a un occhio esterno che non sapeva tutte le storie che ci stavano darreri, pareva solamente l’incubo di un matto.
La costruzione occupava uno dei più bei capi di tutta la costa, e si sollevava su due piani e una torretta in cima, ma aveva una forma accussì contorta che vista da diversi punti appariva tutta diversa, e questo non solo nelle forme, ma magari nei culura. E accussì se chi stava alla Piazza aggiurava che era una costruzione semplice, di forme eleganti, a un piano solo, di colore chiaro, i piscatori giù al Porto vedevano una lunga torre di colore blu cangiante, come una sirena pronta a spiccare il salto in mare, e dallo Scorsone appariva invece luminosa e abbagliante, con merli sul tetto tutti fatti d’oro e d’argento. Era come se SciaquaRosa vivesse di vita propria, una costruzione immensa e grottesca, nella quale si erano mescolate tutte le ambizioni e i tormenti di Pietro Craparo, a trasformarla in un mostro multitesta che restituiva a chi la guardava mai la sua vera natura, ma un’immagine deforme e compiacente, perfetto specchio, in questo di Pietro Craparo medesimo, che teneva a Palermo da anni una donna senza sposarla e un figlio senza riconoscerlo, solo per paura del giudizio di suo padre, quel Sannula Russa che nella vita era stato capace di fare solo due cose, fabbricare brutte scarpe e strozzare di debiti i poveri cristi, e ciononostante era accussì temuto dal figlio.
SciaquaRosa addiventò la rovina di Pietro, che ci viveva con tormento e dolore, senza riuscire a dormire una notte per intero senza essere tormentato dagli incubi, senza riuscire a consumarici un pasto senza sentirsi male. Costruita in otto e passa anni, si era conclusa con la fuga dell’ingegnere Caccamo, che da un giorno all’altro si era reso irreperibile, lasciando il suo studio intatto, con magari la luce sulla scrivania accesa. E c’era chi diceva che si era imbarcato per una terra lontana, pur di non stare più ad ascoltare i vaneggiamenti di Pietro Craparo in capo a come doveva essere quella maledetta casa, altri sostenevano che se n’era scappato con i sorda dell’ultimi lavori da finire, e chi invece sussurrava che era stato proprio Pietro stesso a farlo scomparire, volendo accussì eliminare l’artefice di quello che per lui era addiventato, a dispetto del nome, un incubo e basta. E del resto anche nell’ingiuria i paesani erano stati molto accorti, accostando a un nome di donna, com’era uso per la costruzione delle ville dei nobili del paese, un richiamo basso, alla sciacquatura, all’acqua, alle lavandaie, al lavoro umile dal quale Pietro Craparo proveniva, e che sempre sarebbe stato il suo censo, sorda o non sorda. Del resto, mugugnavano i paisani mentre procedevano i lavori, commentando oggi un’elevazione e il giorno dopo la sua demolizione, quella villa era un poco di tutti, perché con i sorda di tutti era stata costruita, e le lacrime, e le famiglie sfasciate magari dall’attività di strozzino di sa patri.

SciaquaRosa fu così terminata per abbandono del campo, come una cosa che finisce all’improvviso, una sorte di morte che ti trova accussì come sei, con i vestiti impagghiazzati e il tabbuto ancora da ordinare, e come davanti a una morte andarono a viverci Pietro Craparo e sua sorella Piera, e con lei suo marito Pascali Rasura e il figlio Felice, poco prima del Natale dell’anno 1966. E anche se non sarebbe mai riuscito ad ammetterlo, Pietro fu grato alla sorella, che accettò di buon grado il trasferimento su a San Michele, sebbene non le importasse nulla delle dieci stanze, e ancora meno dei tre bagni che il fratello le aveva fatto realizzare al primo piano del palazzo. Lei e Pascali vivevano comodi comodi in un paio di stanzette giù al Porto, in quella che era stata la casa di famiglia dei Rasura prima che Felice si spostasse a la Casa Verde, e in quei pochi metri facevano la loro vita, senza chiedere niente né avere niente, specie negli ultimi anni, quando la morte di Felice Lo Scuru aveva liberato Pascali di un grande peso, anche se lui non lo avrebbe detto mai. Il figlio che lo aveva sempre amato, sempre seguito con una devozione incondizionata e spesso incomprensibile, piano piano riacquistava fiato, si sollevava letteralmente, gli si fecero più dritte le spalle, più lungo lo sguardo e pure i respiri, di giorno e magari di notte.
La disperazione di Pietro però non passò indifferente sulla loro famiglia, avendo i due marito e moglie dalla loro la fortuna di un amore incondizionato, stupido e senza ragione come è a volte l’amore, e forti quindi di riuscire a sopportare, come aveva fatto Pascali per tant’anni con suo padre, il tormento indicibile di quel povero fratello, amareggiato tanto più dal rifiuto secco che ricevette dal padre, Ignazio Craparo che ancora, a settant’anni suonati, continuava a tenere aperta la sala da gioco, sapendo bene che il tavolo da gioco era la maniera più conveniente per fare scivolare una bella somma nelle mani di questo o quello, seguito in questo da Gaspare Lupo che della sala da gioco era ospite fisso, anche se non giocava mai.
Al contrario di Mario Camarda, che al rifiuto del padre fece spallucce, e al disinteresse del fratello Cateno tirò un sospiro di sollievo, Pietro inghiottì la verità che suo padre Ignazio gli sbatté in faccia una sira, stanco di continue pressioni, come un boccone amaro, una polpetta avvelenata di quelle che si fanno talvolta a determinati cani, quando ci siamo stancati di vederceli di torno, e da soli non riescono a capire che è ora di irasinni.

Pietro entrò nella nuova casa senza una gioia, senza una festa, con nell’occhi l’anni passati a fare e disfare, le stanze aggiunte di giorno e demolite di notte, le pareti che non parevano mai abbastanza diritte, abbastanza alte, abbastanza signorili, e una volta finita non ebbe fine il suo tormento, perché la stessa cosa accadde con l’arredi, che si rivelarono agli occhi stupiti di Piera e di Pascali una incomprensibile accozzaglia di generi e materiali, con boiserie di legno rosa e di mogano accostate a decorazioni orientaleggianti a bric brac, tappezzerie di gobelin con cavalieri e dame, collezioni intiere di vasi giapponesi, piatti cinesi, vetri veneziani e candelabri boemi, e poi vasellame, argenteria, dorature di cornici, stipiti delle porte e maniglie, oltre alle decine di statue che circondavano il giardino, i volti spaventosi e deformi che si alternavano a eroi, antichi guerrieri medioevali, santi, ninfe, animali sconosciuti e satiri dal piede caprino.
Ma chi è che ti fici mettere tutti sti cosi in casa?, chiese Piera al fratello con tono cauto, come era suo solito.
Francisco Gallo, u canusci, quello che c’havi il negozio di robe antiche, rispose Pietro già sull’allarme, e subito aggiunse, per niente soddisfatto del lieve cenno del capo della sorella – Pirchì? Non ti piaci?
No no, macché, è tutto molto bello. Da signori, si affrettò a rispondere la poverina, solo che a casa sopra, aggiunse indicando la parte che avrebbe occupato con la sua famiglia, Supra preferisco portarimi i miei mobili, sai, i cosi di mamma, aggiunse, e Pietro non fece alcuna opposizione, felice che la sorella se ne veniva lassù, e non lo lasciava solo con tutto quel maremagno, e accussì accuminciarono la loro convivenza, lui sotto e loro supra.
Pietro a vagare per le stanze, inciampando in tappeti e ritrovando a stento porte, a volte perdendosi fra un ingresso e un’uscita, sempre in testa il cavalier Mistretta e la sua villa Marcella, lo scheletro sbranato dalla pinza della ruspa, la nudità delle stanze oramai vuote, la mobilia in equilibrio precario, come lui si sentiva sempre, con le gambe che lo reggevano a stento, la bocca ardente, e il capo in preda a giramenti e scoppi accussì intensi che la collera gli mordeva la gola, fino a uscire urlando, mentre al piano di sopra sua sorella vegliava su di lui, stretta nelle due uniche stanze che avevano deciso di occupare di tutte le venti e quante erano, a cucinare la zuppa sul paiolo, come sempre era stato.

Pietro era peggiorato, giorno dopo giorno, e dopo manco quattro mesi, al tempo del funerale di Filippo Bentivegna, al tempo in cui Paolo s’arrivò al Paisi e si trattenne per più di qualche ora, versava in uno stato di dolore furente che preoccupava la sorella. Così, quando una matina si era decisa a presentarisi al piano di sotto, e lui l’aveva accolta, l’occhi di sangue e la mente occupata in discussioni sconnesse contro il paese, passando dal sonno alla veglia senza poi arricordarsi nenti, Piera fici l’unica cosa che le passò per la mente. Gli propose un nuovo progetto, qualcosa su cui l’animale che se lo mangiava da dentro poteva per un poco masticare, tenendosi occupato.
E la sera stessa ne parlò a Pascali, sa marito, che l’amava di un amore puro come solo lui era capace di provare, e per questo le disse quasi subito di sì, e tempo due giorni fece in modo di salire a la Casa Verde, per parlarne a sua madre e ai suoi fratelli.
Un nuovo progetto, e non una semplice casa, una villa, e manco una piccionaia per morti di fame come lo Scorsone, a voglia a chiamarilo Condominio BelTempo. Una cosa più grande, che poteva dare lustro al Paisi, e prima di tutto a lui, a Pietro Craparo, non più figlio di Sannula Russa, l’usuraio dai capelli unti e le mani longhe. Un progetto per tutta la comunità, che a inaugurarlo ci dovevano venire da fuori, i pezzi grossi, quelli che contavano, un ministro, un assessore regionale magari addirittura. Una nuova strada per Palermo.

*****

Immagine di copertina: © Rino Sassi.