Alla fine, attorno al tavolo in soggiorno, c’erano rimasti soltanto Mattia e Sara, che dopo ore passate a stringere mani e a ringraziare per le condoglianze, serenamente adesso se ne stavano seduti in silenzio a fissare il vuoto nella tovaglia di pizzo bianco che il tavolo apparecchiava: gli unici rumori nella casa erano i tintinnii argentini delle stoviglie che la signora Caterina, la donna di servizio che fino alla fine aveva aiutato la loro madre nelle faccende di casa, rimetteva in ordine nel cassetto della credenza in cucina.
«Ti prego.»
«È il suo modo di soffrire, Mattia, non puoi toglierglielo. Non se ne andrà di qui fino a che non avrà finito di lucidare questa casa.»
«Ti pare il momento di fare della psicologia?»
«Non faccio della psicologia, dico quel che è.»
«Ma è tardi»
«Stai a vedere. Caterina?» chiamò Sara, a voce alta, per farsi sentire «lasci perdere i piatti, ci penserò io. Vada pure a casa, è tardi.»
«Oh, non si preoccupi signora Sara», cassetto che si chiude, cassetto che si apre, cassetto che si chiude «per me è un piacere. Sono rimaste da fare» clangore di bicchieri «giusto due tre cose.»
«Chiaro adesso?» fece Sara al fratello.
«Simpatica.»
Con la testa poggiata alla mano, puntellato il braccio sul tavolo, Sara ripassava con lo sguardo le fotografie nelle cornici assise sulla grande cassettiera sotto lo specchio; Mattia guardava lo schermo nero del vecchio televisore catodico spento.
«Quando riparti? Dobbiamo capire cosa fare con questa casa.»
«Non lo so» disse Sara «ho chiesto qualche giorno».
Squillo di telefono: la signora Caterina andò a rispondere in corridoio; un secondo dopo riattaccò.
«Quindi penso la settimana prossima.»
«E i bambini?»
«Vengono domani con Armando. Staremo a casa dei suoi genitori.»
«Potete stare da me, se volete.»
«Ma no, almeno vedono anche un po’ i nonni.»
Squillo di telefono; di nuovo, la signora Caterina andò ad alzare la cornetta per chiuderla dopo poco.
«Piuttosto, dici che mamma avrà lasciato qualcosa di scritto?»
«Un testamento dici? non lo so. C’era il notaio Notarangelo al funerale, te lo ricordi?»
«Quello che si è occupato pure di papà.»
«Brava, lui. Mi ha detto di chiamarlo domani.»
«Ah, va bene.»
«Comunque credo di sì, che abbia lasciato qualcosa di scritto»
«Figurati» disse sorridendo Sara «figurati se mamma non lasciava tutto in ordine.»
Ancora una volta uno squillo.
«Dio santo, ma che sta facendo con ‘sto telefono?»
Lo stesso trillo del corridoio stivava anche il soggiorno, dove su un piccolo mobiletto nell’angolo appena dietro alla porta torreggiava un elegantissimo telefono a ruota. Caterina, dalla cucina, apprestò i passi verso il telefono in corridoio, quando Mattia «Caterina» disse alzando la voce «rispondo io, non si preoccupi. Stai a vedere che Caterina c’ha l’amante» aggiunse poi rivolto a sua sorella, la quale non poté far altro che scrollare le spalle.
«Va bene signor Mattia! Ma vedrà che questa è l’ultima volta che chiamano.»
Aggrottato Mattia si rivolse a sua sorella «Che “chiamano”; chi?»

«Pronto?»
Sara, seguito con gli occhi suo fratello alzatosi a rispondere – lo vedeva di schiena, la cornetta all’orecchio destro – aveva abbassato poi la testa cominciando a giochicchiare, soprappensiero, con le trame della tovaglia – provando a infilare le unghie e le dita tra le guarnizioni di trina – nello stesso e identico modo in cui lo faceva da bambina, per diporto, quando, seduta a quel tavolo, in quello stesso posto, tormentava la bordatura della tovaglia nei pomeriggi in cui non aveva molta voglia di fare i compiti; dopo qualche secondo tuttavia si avvide del silenzio di suo fratello, che non una parola aveva proferito al telefono, e rialzato lo sguardo per accertarsi che tutto andasse bene si meravigliò: Mattia la stava fissando con gli occhi spalancati.
«Mattia?»
Riattaccò.
«Mattia, chi era?»
Sconcertato, quegli seppe soltanto scuotere la testa, per chiamare poi a gran voce la domestica che ancora rassettava la cucina.
«Caterina!» chiamò ancora finché non si presentò in soggiorno.
«Eccomi, signor Mattia. Avete bisogno di qualcosa?»
«Chi ha chiamato prima?»
«Quando?»
«Prima, al telefono.»
«Oh, mi scusi, certo. Ma no, nessuno, signor Mattia. Era soltanto l’antifurto.»
«Antifurto? Di cosa?» intervenne Sara.
«Della casa in campagna» rispose fermo Mattia.
«Esatto.»
«La casa in campagna?» increspò le labbra Sara in un sorriso incredulo «Sono almeno vent’anni che non abbiamo più quella casa.»
«“Attenzione, alcuni sconosciuti si sono introdotti nell’abitazione del signor Gamba situata in via delle Piave, chilometro 6″. La chiamata era l’avviso che aveva fatto registrare papà.»
«Ma dopo tre chiamate non richiamano più, state tranquilli.»
«Mi scusi Caterina, è già successo altre volte?»
«Come, signora Sara» rispose quella «ogni giorno.»
«Ogni giorno? Ma mamma lo sapeva?» chiese Mattia.
«Certo, il più delle volte era lei a rispondere.»
«E perché noi non ne sappiamo niente?»
«Questo non lo so, signor Mattia. Ma ogni volta che arrivava la chiamata la signora diceva “Sarà stato un colpo di vento forte contro la porta”.»
Mattia, allibito, frenò l’impeto di una bestemmia – che sillabò in silenzio fra le labbra: con le mani sulle anche e la bocca semi aperta, appuntava gli occhi su sua sorella, la quale, sbigottita, congetturava in silenzio; Caterina, disorientata, con lo sguardo saltava ora su uno ora sull’altra.
«Che ore sono?» ruppe il silenzio Mattia.
«Quasi le otto e mezza» rispose Sara.
«Bene. Allora Caterina, lei vada pure a casa. Ci sentiamo domani.»
«Va bene, signor Mattia, tanto avevo finito» disse la donna prendendo dall’attaccapanni all’ingresso la giacca e la borsa «e chiamatemi pure a qualunque ora se avete bisogno.»
«Grazie.»
«Buonanotte» disse, prima di uscire dal soggiorno e chiudersi la porta dell’appartamento alle spalle.
Il bombo dell’uscio richiuso riverberò per la casa: Mattia l’ascoltò affievolirsi mentre, assorto, nella sua testa turbinavano i pensieri.
«Ma che storia è questa» domandò quasi a se stessa Sara «Voglio dire… Tu non ne sapevi nulla?»
«Ti pare?»
«Sono passati vent’anni da quando l’abbiamo lasciata.»
«Di più» puntualizzò Mattia «più di vent’anni.»
«Perché non ci ha detto niente?» si chiese Sara con una strana amarezza «Forse è solo un errore.»
«Sì, un errore che si ripete ogni giorno da venticinque anni» commentò sarcastico Mattia.
La sorella sbuffò.
«E adesso? cosa facciamo?» gli chiese poi.
«Cosa facciamo» ripeté Mattia, che continuò a mormorare con quella domanda fra le labbra, camminando incantato avanti e indietro, così per alcuni secondi.
Si fermò, infine. E risoluto concluse «Cosa vuoi che facciamo, Sara? Andiamo a vedere.»

Non fu facile convincerla, ma alla fine i due si misero in auto e Mattia, alla guida, imboccò la strada statale che in un quarto d’ora li avrebbe condotti fino alla casa in campagna: guidò senza parlare, e senza parlare rimase anche Sara, lo sguardo amareggiato che distrattamente coglieva la città scorrere al di là del finestrino; aveva provato a chiamare suo marito, ma il telefono era squillato a vuoto.
La freccia a sinistra ticchettava quando arrivato a un incrocio Mattia svoltò per lasciare la strada asfaltata e immettersi su una stradina in terra battuta: appena pochi metri dopo giunse dinanzi a un cancello grigio, e lì si fermò, tirando il freno a mano. Gli abbaglianti accesi disegnavano il buio, appena illuminato da un lampione comunale e da un faretto agganciato al cancello stesso e, nell’auto, Mattia e Sara perpetuarono il silenzio: di fronte a loro, negli spazi tra le linee di ferro del cancello un po’ arrugginito, consideravano le note di una loro vita passata.
«Mattia, perché non chiamiamo la polizia?» disse Sara con la voce che, roca, s’era abituata al mutismo.
«E perché non l’ha chiamata mamma?» replicò Mattia.
Sara abbassò gli occhi, e sospirò.
«Facciamo così» prese parola lui «io adesso scendo, e se il cancello non è serrato, e quindi riesco ad aprirlo, entriamo. Altrimenti ce ne torniamo a casa, e chiamiamo la polizia.»
Sara annuì senza troppa convinzione, e Mattia aprì con una mano lo sportello e con l’altra fece per sfilare le chiavi dal blocchetto d’accensione dell’auto.
«No» lo fermò tuttavia la sorella «non spegnere le luci.»
«Va bene.»
Mattia scese, e Sara lo vide, dal parabrezza, sagomato dal cono luce dei fanali mentre in tre passi arrivava all’estremo del cancello e, spingendolo, provava ad aprirlo facendolo scorrere da destra a sinistra; non ci mise poi molto: il cancello, piano, si lasciò andare, fino a spalancarsi del tutto.
Appena rientrato in auto, Mattia interrogò retoricamente sua sorella «Allora andiamo?» la quale annuì; per aggiungere poi, in maniera sommessa: «Tu non hai paura?»
«Se rimaniamo insieme» rispose lui «no» e Sara sorrise.
Guadarono il cancello che Mattia, sceso nuovamente dall’auto, poi richiuse, e lentamente avanzarono: lo sfrigolio delle ruote sul brecciolino, lembi di siepi e di alberi sottili e di fioriere vuote e di terra brulla lumeggiati dagli abbaglianti che flottavano in quel mare nero che era l’esteso giardino prospiciente l’ingresso della casa; dirimpetto a questa era uno spiazzo di mattonelle in cemento, punteggiato, tra i canti, da ciuffi d’erba cresciuta nel tempo selvatica, e lì Mattia parcheggiò l’auto, girò le chiavi e spense il motore, tolse le chiavi e aprì lo sportello, uscì dalla macchina, con lui Sara, e affondò nel buio che, orbo dei fanali, si sfregò dei raggi chiari della luna e della fioca luce che dal lampione comunale e dal faretto giungeva alla porta della casa ormai quasi senza fiato. Sara riempì con la sua mano quella del fratello e così si incamminarono: cinque metri, e arrivarono all’ingresso.
«La porta è chiusa.» disse Mattia
«No, vedi? Sembra appena soltanto appoggiata.»
«Dai, entriamo.»
Sara poggiò la mano sulla maniglia e spinse: la porta si schiuse; ma nello stesso momento spaventata la donna cacciò un urlo, e i due sobbalzarono e arretrarono repentinamente: l’antifurto prese a stridere nell’aria. Neanche tre secondi e tutto tornò a tacere: l’allarme si interruppe bruscamente come se fosse rotto, e Sara e Mattia, uniti dalla stessa tachicardia, accolsero il rinnovato silenzio.
«Volevo proprio fare una telefonata a casa» disse Mattia.
«In un colpo solo ne hai appena fatte tre» rispose la sorella.
Soffiato via lo spavento, si addentrarono infine nel rettangolo scuro, e furono dentro la loro vecchia casa di campagna.

«Chiudi la porta, Sara.»
Erano nel soggiorno, e di fronte a loro una finestra che a un misero bagliore crepuscolare lasciava sfumarelo spazio: un tavolo, i mobili della parete, a destra una stanza comunicante, delle poltrone, e ancora più in là la cucina; a sinistra, un piccolo corridoio su cui affacciavano due stanze.
Ogni cosa, in quell’ambiente, si esponeva in un ordine razionale, e lo stesso nelle altre stanze da lì visibili: il certosino allestimento di una mano posata che in quell’aura serale si glorificava intinto nel blu notte.
Mattia e Sara, mano destra di uno in quella sinistra dell’altra, ristavano fermi, alle loro spalle la porta chiusa.
«Che facciamo?» chiese lei.
«Non lo so. Partiamo dalla camera da letto?»
«Va bene.»
E così mossero verso sinistra, tra le due stanze che rompevano il corridoio la camera da letto era quella più in fondo; non solo era aperta, ma arrivati sulla soglia i due si accorsero che la porta che avrebbe potuto chiuderla mancava del tutto. Entrarono, e l’interno, come in soggiorno, si presentò ben sistemato: il canterano, i comodini, il grande armadio a muro, anche il letto matrimoniale, coperto solo da un lenzuolo bianco, come appena riordinato. Sara lasciò la mano di Mattia e si avvicinò all’armadio, e come l’aprì non ci trovò nulla, se non una gruccia e un bastone prendi-abiti; richiuse tradendo un battito di delusione, subito sopito in un sorriso quando sorprese, sul canterano accanto, un vecchio porta orecchini in foggia d’albero appartenuto a sua madre: lo prese fra le mani e si ricordò di quando a Natale, da bambina, ci appendeva tutti gli orecchini più colorati della mamma e poi lo metteva in bella mostra sulla mensola più alta del soggiorno.
«Cristo!» sbottò poi d’improvviso Mattia.
Sara si voltò nel momento in cui Mattia ricopriva con il lenzuolo un angolo del letto che aveva scoperto.
«Che c’è?» gli chiese rabbrividendo.
Accanto al comodino, suo fratello era immobile e ansante.
«Mattia!»
«Niente. Suggestione.»
Sara lasciò il porta orecchini, andò accanto a suo fratello e alzò il lenzuolo: non c’era nulla.
«Che cosa hai visto?»
Lo sguardo basso, quegli si piegò per afferrare nuovamente l’angolo del lenzuolo, e non rispondeva.
«Ehi…»
«Vermi.»
«Nel letto.»
Mattia annuì.
«E che significa?»
Di nuovo muto, Mattia prese a rifare il letto, con cura, ricoprendo il materasso e stendendo per bene il lenzuolo. Finito, si rialzò e rimase fermo al suo posto, e mentre Sara lo guardava, aspettando che parlasse, lui esitava, alla ricerca di una parola precisa con cui iniziare, forse rigido in un incallito riserbo, e non rispondeva, pur mostrando, benché peritante, di essere sempre sul punto di farlo. E mai lo fece: l’urlo dell’allarme si alzò straziante dalla porta d’ingresso.
Sarà trasalì, si portò le mani alla bocca, tremante si accucciò vicino al fratello, Mattia l’abbracciò, occhi sbarrati, con l’indice sul naso la invitava a non fiatare, entrambi, stretti dall’angoscia, piano si accovacciarono accanto al letto, davanti al comodino, seduti a terra, provando a nascondersi. Dal soggiorno, iniziarono ad avvertire un soffocato tramestio, e poi uno scalpiccio che inesorabile si avvicinava verso di loro, teso alla camera da letto; si fermò, a pochi passi dall’entrata: la porta della stanza accanto si aprì; Sara, la bocca ancora coperta, iniziò a piangere in silenzio, Mattia, in affanno, sentiva il cuore strozzargli la gola; da quella stanza non veniva un rumore, Sara stava unghiata al fratello e fissava la soglia della camera da letto, Mattia aveva le labbra contratte e gli occhi chiusi, lo scalpiccio, uscito dalla stanza, ricalcò di nuovo il corridoio: ancora pochi passi e sarebbe apparso sull’uscio. La donna chiuse gli occhi, Mattia li riaprì: e lo vide, infine, apparire incorniciato nel vano della porta: un cane. Teneva in bocca un bicchiere pieno d’acqua, e quando scrutò i due fratelli per terra cominciò a ringhiare, ancora fermo sull’uscio e le zampe piantate: si liberò del bicchiere poggiandolo perfettamente in piedi sul pavimento, e abbaiò feroce, iniziandoa mettere una zampa dopo l’altra verso i due.
«Via!» berciò Mattia «Via!», ma più alzava la voce, più il cane ringhiava e latrava scoprendo i denti.
«Alziamoci.»
«No, Sara, non ti muovere.»
Il cane continuava ad avvicinarsi e il suo brontolio gutturale spaventava il silenzio: come se volesse lasciare i due tribolare nella tensione, l’animale minacciava l’aggressione che tuttavia indugiavaa portare, e ormai a ridosso di Sara, rintanatasi completamente nella stretta di Mattia, negli occhi di quest’ultimo l’animale riusciva perfettamente a guardare.
«Wald?» sibilò basito Mattia.
Sara alzò appena gli occhi.
«Sara, ma è Wald?»
Quella fece capolino e spiò da sopra il braccio di suo fratello, «È vero, gli somiglia.»
Mattia alzò il braccio e prese a far schioccare fra di loro il dito medio e il pollice, riproducendo il segnale acustico che usava da ragazzino per richiamare il suo cane: l’animale smise di ringhiare, si avvicinò a Sara e Mattia e li annusò a lungo; poi eruppe nuovamente in un abbaio e, cominciando a scodinzolare si lanciò fra i due fratelli facendo loro le feste e leccando la faccia di Sara.
«Ah, Wald, che schifo!» disse Sara ridendo.
«Wald!» esultò Mattia, che subito abbracciò il cane e ci giocherellò facendosi mordere la mano e scuotendogli il muso.
La tensione e lo spavento si sciolsero in un taumaturgico schiamazzo di uomini e cani: Mattia era a terra, si rotolava con Wald, gli grattava la pancia, gli stiracchiava le orecchie e il cane abbaiava e gli mordicchiava le dita.
Tuttavia dal volto di Sara, all’istante, sparì il sorriso.
«Mattia?»
«Eh» rispose quello continuando a ruzzolare il cane.
«Non può essere Wald.»
«Come?»
«Non può essere Wald!»
«Come no? lo è.»
«No, Mattia. Pensa a quanti anni sono passati.»
Mattia si fermò, mentre il cane abbaiava ché ancora voleva giocare.
«Wald dovrebbe essere già morto» continuò Sara «e da anni.»
Si freddò: non gli servirono più di due secondi per realizzare che sua sorella aveva ragione: non esistono cani così longevi; e sì che quello aveva qualche anno già qualche anno fa. Così, pensò Mattia, aveva risposto al richiamo, e aveva la sua stessa taglia, e aveva il suo stesso aspetto, e aveva i suoi stessi occhi, e aveva lo stesso modo di giocare, e aveva lo stesso pelo; quel cane era Wald, e non poteva esserlo.
Finito di abbaiare, senza meno intuìto che il suo padrone non avrebbe ripreso a scherzare con lui, il cane tornò sulla soglia dell’entrata alla camera da letto, e tra i denti, ben in equilibrio nella bocca, rialzò il bicchiere pieno d’acqua che aveva lasciato qualche minuto prima e lo trasportò fino al letto: Mattia e Sara lo guardarono, mentre poggiato nuovamente il bicchiere a terra proprio sul letto saliva, e continuarono a farlo intanto che, con i denti, prese un lembo del lenzuolo che ricadeva sul pavimento e lo alzò per appoggiarlo sul materasso; dunque sceso, con il muso, Wald, spinse adagio il bicchiere pieno d’acqua sotto il letto.
I due erano ancora seduti sul pavimento e neanche si guardarono: immediatamente si piegarono per spiare. E davanti a loro scoprirono centinaia di bicchieri di plastica trasparente stipati uno accanto all’altro.
Sara allungò una mano a prenderne uno, ma Wald, accanto a lei, iniziò a ringhiare.
«Lascia, Sara, non toccarlo.»
«Che diavolo è?»
«Non lo so. Provo a prenderne uno senza farmi vedere.»
Spostatosi dalla vista del cane, Mattia allungò una mano sotto il letto, prese uno di quei bicchieri. Lo osservò da molto vicino: in quello che aveva fra le mani acqua non ce n’era, ma qualcosa di bianco s’era cristallizzato sulle pareti della plastica: con l’indice ne grattò via un po’ e poi si passò il dito fra le labbra.
«È sale» disse quasi fra sé.
«Come?»
«Sono bicchieri di acqua e sale. In alcuni l’acqua è già evaporata.»
Quando riemerse da sotto il letto, Mattia guardò sua sorella: lei lo fissava di rimando, era sconcertata e scorata.
«Non lo so, Sara, non so cosa dirti.»
«… Andiamo via.»
Wald abbaiò, come per richiamarli. Si girò e uscì dalla camera: vedendo, tuttavia, che i due non gli stavano dietro, abbaiò di nuovo. Mattia distolse lo sguardo da sua sorella e si voltò verso il cane: «Forse vuole che lo seguiamo», e così detto si tirò in piedi e raggiunse Wald. Sara, occhi lucidi, prese un bel respiro e si arrese.
Il cane non fece molta strada: uscito dalla camera da letto, entrò nella stanza accanto: quella che molti anni prima era stata la cameretta dei due fratelli.

Quando arrivarono, trovarono l’auto parcheggiata, e accanto a quella, con la loro, si fermarono.
«Glielo avevo detto, dottore.»
Notarangelo girò le chiavi per spegnere il motore, ma prima di scendere si rivolse al suo fianco:
«Cosa gli diciamo?»
«La verità.»
«Sarebbe?»
La signora Caterina si voltò verso il notaio: lo guardò, ma non rispose.
«Cosa c’è dentro questa casa? croci al contrario? calderoni, stelle disegnate sui muri?»
«No, dottore, niente di tutto questo.»
«E cosa allora?»
«Non faccia domande.».
«È quello che mi diceva anche la signora Gamba.»
«Appunto.»
«Ma lei ci provi.»
«… Come vuole. Allora le chiedo se c’è qualcosa di cui ha paura.»
«Non lo so, penso di sì.»
«Io ne sono certa.»
«Dopotutto è un’emozione come tante altre.»
«Consideri piuttosto la paura come un luogo, dottore. Da cui siamo scappati, e dove non siamo mai più tornati.»
Notarangelo sorrise, forse di scherno, oppure di tensione.
«E la signora Gamba, quindi?» chiese poi «cosa ci faceva qui dentro?»
«Capirà bene che la paura, come ogni luogo, ha bisogno di un custode.»
Ciò detto, la signora Caterina scese dall’auto, e lo stesso il notaio. In fretta arrivarono all’ingresso: Caterina cacciò dalla tasca le chiavi e aprì. Piano, facendo il minor rumore possibile, entrarono, chiudendosi dietro la porta, e davanti a loro trovarono Wald, seduto, che li aspettava; Caterina si piegò e lo accarezzò.
«Dove sono?» chiese al cane.
Wald alzò il sedere, e li guidò lungo il corridoio.

A Mattia ricordò immediatamente il piccolo altare che la loro nonna teneva allestito nel corridoio, appena fuori la porta della camera da letto della sua vecchia casa – un mobiletto, su cui troneggiava la Madonna e ai piedi una bibbia attorniata da lumini rossi, da cui, piccolo, in visita domenicale, rimaneva sempre terrorizzato, giacché il corridoio era sempre buio e soltanto la Madonna riusciva a vedersi, ma giusto in penombra, come un’immagine spettrale: solo che nella camera in cui era appena entrato, preceduto dal cane, l’altare che gli si fece davanti, invece della Madonna, aveva un pulcino imbalsamato, e le candele attorno era spente. Poggiavano su una mensola di legno che prolungava il davanzale dell’unica finestra che c’era nella stanza: la luna sbiancava quel quadro di natura morta.
«So già chi è quel pulcino.»
La voce di Sara si arrampicò sulle spalle di Mattia.
«Sì?»
«Certo» rispose con una certa irritazione «Non mi stupirei se fosse Macchia.»
«Chi è Macchia?»
«Non te lo ricordi? Il pulcino che comprai al mercato e che due giorni dopo sparì nel nulla.»
«Ah. Sì, è vero.»
Mattia pescò dalla tasca l’accendino, lo accese e tenendo in vita la fiammella si avvicinò al pulcino imbalsamato per esaminarlo da vicino.
«C’è una macchiolina vicino all’occhio?» chiese Sara, rimasta appena al di là della soglia.
«Sì.»
«Appunto. Mattia, per piacere, andiamocene di qui e chiamiamo la polizia, o se vuoi non la chiamiamo, ma io qui non voglio più starci.»
Wald, accucciato di fronte all’altare, abbaiò, mentre Mattia, l’accendino ancora acceso, continuò a illuminare quel piccolo piano in legno, e anche sotto.
«Il telefono qui neanche prende, quindi te lo chiedo di nuovo, Mattia, ce ne possiamo andare? Mi stai ad ascoltare una benedetta volta!»
Mattia si accorse che sotto il ripiano di legno, conficcati nel muro c’erano due chiodini cui stavano appesi, tramite due cordicine, due fogli bianchi rettangolari: li toccò ed erano plastificati. Facendosi luce, ne alzò uno e spiò il retro che aderiva alla parete: poi subito mollò il foglio, come se la plastica gli avesse scottato le dita, tolse il dito dal gas e spense l’accendino, «Andiamocene» disse con una subita fretta, tradendo nella voce un’atterrita preoccupazione. Si avviò a uscire, ma sua sorella «Aspetta» lo fermò. «Che cosa hai visto? cosa sono quei fogli?»
«Niente, Sara, non sono niente.»
«Cazzo, Mattia! Basta! Basta con questi niente!… Dammi l’accendino.»
«Sara.»
«Dammi l’accendino.»
Strappatoglielo di mano, Sara andò all’altare; accese la fiamma e illuminò i due fogli plastificati: senza pensarci troppo, girò le cordicine sui chiodi. Ciò che vide furono due fotografie. Ingrandite, ritraevano i suoi due figli.
L’urlo le si tappò in gola: Sara mollò l’accendino e crollò a terra.

«Sono spariti» appurò il notaio.
«Sono scappati» lo corresse la donna «o si sono nascosti. Vada alla porta, dottore, e senza farsi vedere. Mi dica se trova ancora lì l’auto del signor Mattia.»
Rimasta lei intanto nella camera da letto, subito diede uno sguardo sotto al letto per assicurarsi che ancora lì fossero tutti i bicchieri, mentre Wald con il muso le indicava l’ultimo che aveva portato qualche minuto prima: quel bicchiere la donna prese nella mano sinistra, mentre con la destra nella borsa aprì una piccola scatolina di cartone, da cui raccolse, fra due dita, un pizzico di sale grosso che gettò nell’acqua.
Il sale, immediatamente, si addensò sul fondo.
«Bene» sentenziò.
Si tirò su e uscì dalla camera, dal corridoio, dopo aver scorto Notarangelo ancora affacciato alla porta, entrò nella cameretta, diretta all’altare: fra le mani ora aveva un fiammifero, lo sfregò sulla parte ruvida della scatola e lentamente accese gli stoppini delle candele attorno al pulcino imbalsamato.
«L’auto di Mattia è ancora lì.»
Disse il notaio, apparso sulla soglia, alla signora Caterina assorta di fronte a quel lucernario.
«Va bene, dottore. Vuol dire che si sono nascosti. Dovremo rimanere qui fino a che non scapperanno.»
«Perché?»
«Le chiedo perdono se l’ho convinta a venire, ma queste erano le volontà della signora Gamba. Voleva che lei fosse al corrente di tutto.»
«Non dovrei dirglielo ancora, ma nel suo testamento, la signora Gamba ha lasciato a lei questa casa.»
«Lo so. E questo Sara e Mattia non dovranno saperlo mai.»
La donna per rimarcare quanto detto si girò appena, il fiammifero ancora tra le dita, porgendo al notaio dietro di lei il controluce del proprio profilo. Poi, tornò a contemplare l’altare.
«Caterina?»
«Sì?»
«Di cosa hanno paura Mattia e Sara?»
«Oh, bene» disse la signora Caterina soffiando sul fiammifero e lasciando la stanza tremare nel baluginio delle candele «il signor Mattia ha paura di dormire: sono vent’anni ormai che passa le notti sveglio, seduto sul letto; quando riesce ad assopirsi, non fa che sognare di essere sdraiato in mezzo a strati e strati di vermi e larve. Lui pensa che non lo sappia nessuno, ma sua madre invece ne è sempre stata a conoscenza. La signora Sara, invece» continuò prendendo una candela fra le mani e avvicinando la fiamma al pulcino imbalsamato, quasi come volesse scaldarlo «ha paura di sparire nel nulla: fin da bambina la signora Sara ha paura di morire.»
«E lei adesso cosa sta facendo?»
«Io? quello che faceva la signora Gamba.»
«La custode?»
La signora Caterina sorrise «Sì, la custode.»
«Non capisco allora perché dobbiamo aspettare che Sara e Mattia scappino.»
«Non dobbiamo aspettare. Per farli scappare, dobbiamo inseguirli.»
Per la prima volta, di quella donna Notarangelo provò un incerto timore.
«La paura» seguitò Caterina guardando il notaio dritto in faccia «porta con sé un rischio: quello di superarla; e questo non deve accadere mai.»
«Se così fosse, vorrebbe dire che la signora Gamba voleva che i suoi figli continuassero a vivere ognuno con i propri timori.»
«Proprio così.»
«Mi sembra una crudeltà.»
«Esattamente il contrario, dottore» gli rispose Caterina «È il sacrificio d’amore più puro. Trovare qualcuno all’altezza di proteggere le nostre paure: se ci pensa, è tutto quello che chiediamo alla vita.»
La signora Caterina si abbassò su Wald il quale se ne era rimasto accucciato vicino ai suoi piedi: gli posò una mano sul capo e poi si avvicinò all’orecchio sussurrandogli qualcosa; l’animale si rizzò e zampettò fuori dalla camera.
«Andiamo, dottore» disse la donna al notaio, che, lì in piedi, senza mai essersi mosso, era raccolto a rimuginare «abbiamo due bambini da spaventare», e insieme si profondarono nella nebbiosità notturna che intanto aveva soffuso il corridoio, il soggiorno e la casa intera.

Quando la fuga istruisce al cammino, la perdita è la sola possibilità di continuare: a giocare. Fuori dalla camera, come una sola ombra il notaio e Caterina cominciarono a tormentare le stanze, ad allungarsi sui muri in sagome frastagliate, a minacciare ogni rumore con il silenzio, a respirare il respiro che crepitava, a lucidare le maniglie con mani vetrose che rifrangevano in guizzi l’afonia del nero, in visioni la realtà; e l’aria che li lasciava passare si attorceva sulle sedie, e si soffregava sui mobili, e si graffiava sugli scaffali, e si sdruciva sui termosifoni spenti, e gorgogliava in un viluppo dietro di loro, che come una sola ombra solcavano gli occhi di chi non voleva vederli, angustiavano i pensieri di chi li cancellava, lampeggiavano ovunque attorno a quei due che si nascondevano: da loro, che come una sola ombra fingevano l’uomo nero: che di ogni bambino, e così di Mattia e Sara, non è che l’angelo custode.