Pubblicato da Alberto Chimal in Revista Penúltima. Ringraziamo l’autore per la gentile concessione. Traduzione di Ylenia D’Alessio.

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In accordo con la moda o ossessione attuale, ci tengo ad avvisare che questo testo contiene alcuni dettagli della trama delle due opere di cui si occupa, entrambe uscite quest’anno: Twin Peaks (terza stagione della serie televisiva dei primi anni novanta, ripresa da David Linch e Mark Frost, i suoi creatori originali) e Blade Runner 2049 (diretta da Denis Villeneuve a partire da una sceneggiatura di Hampton Fancher e Michael Green e “sequel” del film classico del 1982 Blade Runner, di Ridley Scott). In seguito, si indica l’inizio dei commenti propriamente detti.
L’abbondanza di narrazioni di carattere nostalgico nel cinema e nella televisione globali – sequel, omaggi, restituzioni, continui, prequel, reboots, revival – è una reazione al malessere che provocano un presente incerto e il timore di un futuro che, in molte occasioni, sembra francamente apocalittico.
Le società occidentali oggi assistono all’esaurimento dei regimi neoliberali, all’ascesa di estremismi di ogni tipo, alla crescente disuguaglianza e alla retrocessione dei diritti umani in molti paesi, alle alterazioni devastanti e contemporaneamente sottostimate del clima, alla degradazione accelerata dei sistemi politici e anche – in maniera più diffusa ma più facilmente percettibile – quella degli spazi pubblici e del tessuto sociale dei paesi occidentali. Questi si polarizzano e si frammentano man mano che si consolida l’“economia dell’attenzione” propiziata dai social media : è così che diventiamo dipendenti dal relazionarci con il mondo alla ricerca esclusiva del sensazionale, del superficiale/immediato, dell’indignante.
(Avvenimenti diffusi globalmente nell’ultimo paio d’anni – la Brexit, il trionfo elettorale di Donald Trump, fino agli episodi di violenza in Myanmar, Siria o Messico e le allerte del cambio climatico – non “hanno dato inizio a questo momento”: la loro confluenza ha portato all’apparizione di una coscienza più generalizzata del periodo critico che viviamo e delle ansie che già stava causando).
Il malessere e l’angustia provocano il desiderio di fuga o, per lo meno, di distrazione: di mettere da parte la realtà dei problemi attorno a noi. Per alcune persone, questa fuga illusoria si può conseguire ricorrendo a immagini di un passato che si considera più semplice, più piacevole del presente. Questo passato si “trova”, ad esempio, codificato nei prodotti culturali di altre epoche. Si ricorre a questi come fonte di personaggi, argomenti, scenari che ora offrono un simulacro dell’esperienza di trovarsi nel passato: vivere in un tempo migliore, l’unico che è ancora possibile concepire.
Le grandi imprese di comunicazione di massa, in buona misura radicate negli Stati Uniti, sfruttano questa mania retrocessiva dal punto di vista commerciale: rimpacchettano e rivendono la loro “proprietà intellettuale” di altre epoche – serie, film, giochi, musica etc.– e lo fanno cercando di attrarre in particolare il pubblico che più probabilmente potrebbe fare acquisti simili: adulti che ricordino le “versioni originali” di 20, 30, 40 anni fa e che oggi dispongano del potere d’acquisto per comprare riedizioni, luxury box, sequel, nuove stagioni etc.
Niente di tutto ciò ha un proposito altruista: queste imprese semplicemente vogliono fare soldi a spese dell’ansia altrui. Per questo, quasi tutti i rifacimenti lanciati negli ultimi anni si adeguano alla ripetizione. Non provano nemmeno a dare un po’ di più di quello che piacque allora, quando i loro consumatori erano più giovani e avevano ansie che ora sembrano loro poca cosa; più contenuto piacevole per riempire il nostro tempo e i nostri apparati, con meno cambi possibile e silenziando qualsiasi ammissione degli anni trascorsi dall’apparizione del contenuto originale.
Solo poche opere vanno in direzione contraria – nonostante sia a dispetto delle intenzioni degli studi di cinema, dei canali e servizi di televisione, etc.– e utilizzano la presentazione di immagini nostalgiche per riferirsi precisamente alla nostalgia e alle sue implicazioni o meglio per riflettere, anche se in maniera obliqua o velata, sulle difficoltà del nostro tempo. Due di queste fanno entrambe le cose: la terza stagione della serie Twin Peaks (conosciuta anche come Twin Peaks, The Return) e Blade Runner 2049.

[A partire da qui seguono dettagli sulle trame di entrambe, ovvero spoiler.]

Queste due opere erano già considerate speciali perché discendono, rispettivamente, da una serie televisiva e un film che si considerano classici nelle loro rispettive categorie: enormemente influenti e rinnovatrici, così come capaci di creare una proposta inconfondibile mediante un incrocio di “generi” già fortemente codificati. La fantascienza e il noir per Blade Runner, la telenovela statunitense (soap opera), la serie poliziesca e l’horror sovrannaturale per Twin Peaks. Quest’importanza ha dato un’aria di raffinatezza al culto dei fan, nonostante questo fosse concentrato, come ogni culto, sugli aspetti più arcani (o più superficiali) dell’argomento e nell’ambientazione dei mondi narrati da Scott e Lynch, insieme alle loro rispettive squadre di collaboratori.
(Chi pensava alle inquadrature, al tessuto musicale, alla modulazione dei toni e delle atmosfere, all’intertestualità delle opere originali? Le domande comuni dei fan erano del genere “Che è successo a Dale Cooper dopo essere rimasto imprigionato nella Loggia Nera?” o “Sarà Deckard un replicante?”: osservazioni sull’artificio della finzione che omettevano qualsiasi riconoscimento al fatto che tutta la finzione è, in se stessa, artificio).
Tuttavia, una virtù non meno importante di Twin Peaks e Blade Runner è stata, all’epoca, la volontà di esaminare aspetti della realtà a loro contemporanea in maniera obliqua. Lo hanno fatto a volte tramite l’immaginazione fantastica, molto efficace per creare osservazioni astute, apparentemente innocue; altre volte con mezzi diversi. Però il mondo, o parte del mondo, era racchiuso in entrambe le opere.
Blade Runner – basata su un romanzo del grande narratore Philip K. Dick: Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (Fanucci, 2017) – espresse il malessere di un occidente in piena guerra fredda dinanzi a un futuro di caducità e non di splendore, in cui la tecnologia metteva in discussione non solo la possibilità di un’esistenza fisica della specie, dovuto al deterioramento ambientale e all’abuso senza freno di ingenti popolazioni, ma la sua stessa identità: il senso stesso dell’essere, per gli abitanti di una civiltà le cui creazioni sembravano “più umane dell’umano”, più capaci di empatia e sentimenti individuali.
Twin Peaks, apparsa quasi dieci anni più tardi e ambientata nel 1989, si concentrava invece su un ambito preciso del proprio presente: il contesto rurale e in maggioranza bianco degli Stati Uniti. L’idea centrale, anche oltre le insinuazioni fantastiche, era già stata il tema di Velluto blu, il grande film di Lynch del 1986: l’apparenza idilliaca dell’American Way of Life nasconde un mondo di violenze ed eventi sinistri. L’investigazione sulla morte della giovane Laura Palmer (Sheryl Lee) nel suo paesino natale scoperchia intrighi, crimini, corruzione del potere economico e politico…
I fatti e le tendenze reali esplorate in queste due opere sono spesso secondari o marginali, tuttavia la loro presenza è innegabile, e parte dell’attrazione di Blade Runner e Twin Peaks si deve a esse, lungo la storia complessa (e a volte equivoca) della ricezione e del successo del film e della serie.

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I “ritorni” dell’una e dell’altra, in quest’anno dall’atmosfera funesta, includono anch’essi la loro dose di commento – o per lo meno di rappresentazioni, allusioni, metafore – sul presente. Di più: è possibile trovarvi letture relazionate con il presente immediato, nonostante entrambe le opere abbiano periodi di produzione prolungati e non rappresentino reazioni deliberate a avvenimenti dell’ultimo anno.
Il copione di Blade Runner 2049 riprende e amplifica la preoccupazione del suo antecessore per il deterioramento dell’ambiente e delle società umane. “30 anni dopo” il 2019 immaginato nel film di Scott, il clima è peggiorato ed diventato ancora più estremo; la sussistenza della popolazione umana dipende da “coltivazioni di proteina” e animali transgenici; persistono tutte le forme di discriminazione e l’unica persona – letteralmente – che non vive nella schiavitù, o molto vicino ad essa, è un magnate megalomane: Niander Wallace (Jared Leto) che sembra il padrone di tutto, dall’alimentazione alla manodopera, dalla guerra all’intrattenimento; infine, la migrazione nello spazio, che in Blade Runner si offriva come possibilità di fuga, sembra chiusa: abbandonata non solo come il cliché più che invecchiato di questo momento della storia della science fiction, ma anche come possibilità nel mondo narrato del film. Il tema merita solo una piccola menzione: un annuncio ascoltato durante la prima mezz’ora del film vende chiamate telefoniche ad altri mondi, ad altissimi prezzi, per creare un contatto con quei pochi fortunati che sono riusciti a scappare dalla Terra moribonda. Non è difficile ricordare che il tema della colonizzazione dello spazio si è rivelato, nell’ultimo anno, come uno dei preferiti dall’estrema destra negli Stati Uniti per cui gli autori, non poche volte razzisti, scrissero, e scrivono ancora, “epopee” spaziali che prolungano i miti di eccezionalismo americano (e, ovviamente, includono in ruoli di potere solo uomini bianchi, eterosessuali e protestanti: noialtri tutti siamo stati espulsi da questi futuri meravigliosi).
La terza stagione di Twin Peaks, da parte sua, immagina il destino di un paese e dei suoi abitanti 25 anni dopo la morte di Laura Palmer e la sparizione dell’agente Dale Cooper (Kyle MacLachlan) in un presente attraversato da avvenimenti sovrannaturali però perfettamente riconoscibile come un’immagine della seconda decade del secolo XXI. Il copione di Mark Frost e David Lynch trova nella cittadina–e in scene aggiuntive girate in Nevada, New York, Texas e Sud Dakota – molte tracce preoccupanti del deterioramento della vita rurale nei paesi sviluppati, e più concretamente in quella del suo paese, tra cui la decadenza dell‘industrie e dei sistemi educativi locali, l’alto prezzo dei servizi sanitari, la tossicodipendenza, l’alienazione e la violenza come una costante e la mancanza di prospettive chiare per molte persone, in particolare per i più giovani. In un momento di crisi, un uomo cerca di fare soldi vendendo il suo sangue; vignette di violenza contro le donne – slegate dalla trama principale, come molte altre che sfruttano la maggiore estensione che permette il formato della serie televisiva – appaiono quasi in ogni episodio, sottolineando che il caso di Laura non era l’unico né fu l’ultimo. C’è anche un personaggio che, in modo del tutto pertinente, ricorda i comunicatori sensazionalisti che oggi sono tanto importanti nel discorso pubblico negli Stati Uniti e hanno contribuito alla profonda divisione ideologica di quella società: è Lawrence Jacoby (Russ Tamblyn), psicologo nella serie originale che, dopo aver perso la sua abilitazione alla professione, si è “reinventato” come conduttore di un webcast stridente e paranoico, molto alla maniera del (tristemente) celebre Alex Jones e il suo sito Infowars[1].

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L’apparente intenzione di offrire qualcosa in più di un prodotto già conosciuto, oggetto dell’affetto di molti consumatori, si trova in questi revivals attuali, ovviamente, ed è sostenuta da tutto l’apparato pubblicitario al quale possono ricorrere le imprese che li producono. Come in tanti altri casi di riutilizzo e riciclaggio di “opere favorite”, le effusioni sentimentali dei fanatici sono stimolate e rafforzate dalle comunità di consumatori e fans. (“Ho aspettato questa nuova serie per trenta anni” e altre frasi del genere sono comuni, piacevoli alla lettura, accettate e stimolate come una reazione appropriata alla notizia del prossimo debutto, anche se non sempre si può credere che tutti gli entusiasti di un’opera vi abbiano davvero pensato in forma incessante durante decenni.)

Tuttavia, accompagnandosi di con osservazioni nuove e perfino più pungenti sulla vita reale, il “tornare” al passato ha, nelle opere di Lynch e Villeneuve, la possibilità di diventare un confronto amaro. Lo stimolo della memoria, dei ricordi felici di un’altra epoca – ancor più levigati dal tempo trascorso da allora – racchiude una constatazione delle catastrofi da cui provavamo a evadere.
Un’esperienza del genere è scomoda ma non inutile. È possibile che l’ultima volta in cui l’ambiente culturale dei paesi sviluppati occidentali (e, complessivamente, della totalità del mondo) abbia proiettato sentimenti di fatalismo come quelli del presente, sia stato tra gli anni sessanta e ottanta del secolo scorso, durante la cosiddetta guerra fredda tra il blocco capeggiato dagli Stati Uniti e quello dell’Unione Sovietica. La sparizione di questa e la nascita di un “nuovo ordine mondiale” negli anni novanta fece pensare che le preoccupazioni di quegli anni – dalla proliferazione di armi nucleari fino al deteriorarsi catastrofico dell’ambiente: minacce che rappresentano il rischio di un’autentica estinzione della specie umana – fossero “superate”: che fosse possibile metterle da parte. Ora vediamo che non è così e infatti, tanto Lynch come Villeneuve, includono riferimenti chiarissimi alla permanenza di questi problemi “antichi” nelle loro opere attuali. Blade Runner 2049 indica in maniera sottile le conseguenze di una guerra nucleare – come la precipitazione radioattiva – in più di una scena. In maniera meno letterale, in Twin Peaks la prima esplosione nucleare della storia, nel 1945, porta al mondo “Jowday”, l’entità sovrannaturale ed “estremamente negativa” che presiede tutte le terribili azioni commesse nella serie. L’arrivo della bomba atomica è l’apparizione di una forma assoluta del Male.

(Un’osservazione ripetuta durante questo primo anno di presidenza di Trump è che il suo governo corrotto e buffonesco fa paura, soprattutto, perché l’imprenditore e demagogo ha, nonostante i suoi difetti, autorità per usare l’arsenale di armi nucleari più grande al mondo. Questa è la più importante e terrificante differenza tra la Casa Bianca di oggi e tutte le altre cleptocrazie, dittature e stati falliti della Storia. Il potenziale distruttivo di questa tecnologia non è diventato meno allarmante dal 1945).

Credo che la posizione di Blade Runner 2049 all’interno della tradizione in cui si inscrive, sia molto meno rilevante di quella che invece occupa Twin Peaks, The Return nella propria: un’opera artistica molto meno brillante, per varie ragioni.
Quella più importante è che il film non compie un passo che invece opera la serie: oltre a “proseguire” fino a un certo punto l’argomento originale, e precisarlo con riferimenti al presente, la serie di Lynch e Frost tratta direttamente il tema del riciclaggio del passato. È un revival che critica i revivals.

Una difficoltà dei rifacimenti attuali di serie e film di “azione reale” (live action) è che gli attori e attrici invecchiano, come qualsiasi persona. L’intenzione del rifacimento è provare a mantenere, almeno in parte, l’illusione che il tempo non sia passato: che qualcosa che i fan amarono nei prodotti originali continua a essere presente; però questo qualcosa non può essere, in generale, l’aspetto giovanile delle star, che la cultura pregiudizievole di Hollywood tiene come un valore in sé da cento anni. Blade Runner 2049 ricorre a due comuni stratagemmi per provare a risolvere il “problema” dell’età:

  1. Reclutare la stella del passato già invecchiata però metterla da parte durante buona parte del film, in maniera tale che il peso della stessa ricada su qualcuno di più giovane e attraente che ripeterà, con alcune modifiche, le peripezie del suo precursore e può perfino esserne alla ricerca. Nel film succede esattamente così: Ryan Gosling come il detective K si dà il compito di verificare cosa è stato di Rick Deckard (Harrison Ford), nel suo percorso si trova a parlare con un altro personaggio riciclato dal primo Blade Runner (Edward James Olmos nei panni di Gaff, in un breve cameo) e vive le proprie avventure violente e i propri dubbi circa la sua identità e l’affidabilità dei suoi ricordi, come i replicanti dei vecchi tempi.
  2. “Ringiovanire” – digitalmente o grazie a qualche altro tipo di trucco visuale – la stella del passato, come succede con Sean Young che riappare come un clone di se stessa: una replica della replicante Rachael. (Come prova di un altro pregiudizio di Hollywood – il suo sessismo –, la nuova Rachael non ha altra funzione se non quella di essere oggetto del desiderio di un personaggio maschile: una tentazione per Deckard. Quando lui la rifiuta, lei viene immediatamente assassinata.).

Anche Twin Peaks include una breve sequenza con una Laura Palmer ringiovanita, pero oltre a non sessualizzarla, mostra per un tempo maggiore – e nel finale stesso – una Sheryl Lee con età e aspetto odierni: il suo invecchiamento è, infatti, parte importante della trama. E il suo caso non è unico: tutto il cast originale è tornato per le nuove scene, mostra ugualmente il trascorrere del tempo.

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La macchina del cameraman Peter Deming non omette né dissimula nessuna ruga, nessun sovrappeso, nessun pezzo di pelle cascante, nessun capello bianco, nessuna calvizie… inclusa la storia di Catherine Coulson, malata di cancro durante le riprese, morta poco dopo e il cui stato di salute è menzionato – con la sua autorizzazione e collaborazione – come parte della storia del suo personaggio. Il tempo è trascorso, come si può pure leggere nei crediti finali di molti episodi che includono dediche a membri deceduti del cast, come la stessa Coulson. Inoltre, la serie ritorna costantemente su due tipi di avvenimenti:

  1. I “frammenti di vita” di personaggi già conosciuti che li mostrano intenti a ripetere errori del passato, lontani da ogni redenzione (o compimento di un “arco” drammatico), o in situazioni che non derivano dai fatti della serie originale: la morte di Laura Palmer e gli eventi violenti attorno a lei sono un vecchio caso poliziesco di cui già non parla nessuno e non c’è nessuna ricapitolazione di molte delle storie che restarono inconcluse nelle prime stagioni della serie. È trascorso molto tempo. Gli abitanti della cittadina, come quelli di una comunità reale, non solo invecchiano, muoiono, se ne vanno per non tornare – essi dimenticano, volontariamente o no, quanto vissuto molto tempo prima.
  2. Gli indizi apparenti di una soluzione o una continuazione che incitano la curiosità degli spettatori e poi restano, deliberatamente, irrisolti. Questi indizi esistono espressamente per creare frustrazione, per sovvertire l’aspettativa del raccordo felice con “quello che prima ci piaceva”, e l’esempio più noto è la trama – secondaria? slegata? – di Audrey Horne (Sherilyn Fenn), uno dei personaggi più popolari e attraenti della Twin Peaks degli anni novanta. Il cliffhanger non si risolve mai: le sue apparizioni – le quali anch’esse non dissimulano i cambiamenti fisici dell’attrice – accadono in uno spazio totalmente separato dal resto, con personaggi che appaiono o si menzionano quasi esclusivamente per lei; alla fine, l’insinuazione per cui potrebbe essere intrappolata in uno spazio estraneo al mondo naturale (un’allucinazione, uno stato di coma, un’altra dimensione) si realizza affinché il personaggio…sparisca immediatamente e non ritorni. Audrey diventa una domanda che potrebbe non trovare mai una risposta, e una che – come la scena finale della serie, e come tutto il suo svolgimento opaco e avverso alla spiegazione e soddisfazione facili – finisce per segnalare una narrazione che si scompone davanti ai suoi spettatori, che si disgrega in una serie di immagini angosciose interrotte da momenti, bagliori molto brevi, di mistero e bellezza.

David Lynch ha dichiarato che non è impossibile una quarta stagione della sua serie, anche se richiederebbe molto tempo per la preparazione; tuttavia, lui e Frost hanno collocato il loro mondo narrato in una situazione che non sembra invitare a nuovi sequel, a differenza di Blade Runner 2049 che ricorre a due colpi di scena molto conosciuti per fomentare la speculazione sulle nuove consegne: il passaggio di staffetta del protagonista a qualcuno più giovane – in questo caso, la figlia di Deckard e Rachael, Ana Stelline (Carla Juri) – e l’anticipazione di una trama epica di tipo eroico, in cui Stelline sarebbe una “prescelta”, destinata a capeggiare una ribellione dei replicanti contri gli esseri umani. (La dichiarazione di questa possibile Blade Runner III ripete molto dell’aspetto più sfortunato del cinema di avventura di questo secolo, tra cui una truppa di ribelli vestiti con abiti cool e in pose cool alla maniera di Matrix, quella serie sventurata delle sorelle Wachowski.)

Una nota finale: queste storie, nonostante i loro mezzi e fini finiscano per essere così diversi tra loro, non solo sono prodotte in uno stesso contesto culturale, ma provengono anche da uno stesso paese, il quale vari incidenti storici hanno collocato in una posizione di potere enorme – e quasi sempre temibile – e che ha esportato la propria visione del mondo al resto del pianeta durante così tanto tempo da farci credere, molte volte, che questa visione sia l’unica possibile. Però, ovviamente, tanto Blade Runner 2049 quanto Twin Peaks The Return si limitano a contemplare un’esistenza in cui la prospettiva dominante è, come sappiamo, non solo maschile ed eterosessuale ma anche bianca, anglosassone, protestante, americana. Le loro osservazioni sulla condizione umana, in generale, hanno un merito innegabile, , così come i loro risultati estetici, però c’è molto che non vogliono né possono dire, nemmeno quando provano ad affrontare i punti di vista delle porzioni oppresse o rese invisibili della loro nazione. E chi avrà le risorse economiche, l’interesse e, infine, la libertà creativa per realizzare visioni della stessa ambizione in culture estranee e sottomesse a quella?
Se questo è un tempo crepuscolare, come a volte si pensa, di decadenza accelerata di quell’impero, temo che noi stessi – le sue province – affonderemo con esso e non arriveremo ad avere mai l’opportunità di raccontare le nostre storie con questi mezzi, a questa scala, in questi modi così impressionanti.


[1] Nota del Commando Interpolazioni: A noi ricorda invece inequivocabilmente Beppe Grillo.

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