se non l’enigma, cosa?

Dare per buona solo la propria esperienza, non c’è altro modo. (Aristotele ha scritto il contrario nel prologo ai suoi celebri e dissotterrati meta ta fusikà. E allora?) Allora una recente circostanza, un caso (un’opportunità) mi ha messo davanti agli occhi un’evidenza.

Mi sono trovato, di recente, a scrivere cose (la cui realizzazione ad oggi è solo una scommessa o una speranza) per il cinema ed il teatro. Così, per opposizione, sono riemerse domande sulla letteratura, sul suo luogo più proprio.

Con il compagno Quijano s’è discusso in abbondanza di quale sia, nel mondo 2.0, l’opportunità (lo stimolo e lo sprone) della letteratura: non quella di aderire ancora di più alle cose, ai fatti (una letteratura ultraengagée), ma al contrario di farsi luogo ancora più unico. Lasciare al resto delle comunicazioni globalizzate (il flusso) il ruolo di vettore informativo, di baratto biunivoco di ovvietà e farsi sempre più estremamente luogo a sè stante, autarchico: gioco e labirinto.

In questo senso, avere a che fare con le necessità logistiche del teatro e del cinema (il contesto della fruizione, l’udito e la vista tra le altre cose – non c’è senso più ottuso e abusato della vista) mi ha messo davanti gli occhi un’evidenza, una cosa tanto semplice come lampante: la letteratura gioca con processi molto più complessi.

La parola scritta come nebulosa elettrica – quel gioco dove si sfida il senso stesso ad apparire. Che si installa per definizione nella falla – nel buco – del discorso dimostrativo. Un gioco in cui più ci si perde più si trova.

Suona troppo decostruttivista tutto questo, troppo derridiano? No, nessuno ci obbliga a leggere le cose alla lettera. Viva il metodo mitico.

Viva il metodo mitico. Un amico montenegrino qualche tempo fa mi disse: “gli eccessi di Joyce (Finnegans’ Wake, con ogni probabilità) sono i limiti in cui noi oggi ci muoviamo, i pericoli da cui sappiamo doverci difendere”.
No. Al contrario. Sono i limiti che vogliamo tornare a superare.