Incalza la neve; inonda, da fuori, la sala stampa “Black Mamba”.
L’agone è bloccato. Bloom, canonico e calvo,  intima ai due condottieri la pausa.
“Un tè caldo, un latte macchiato. Un vin brulé, come volete.  Ma così non si può andare avanti, non ci son più le condizioni per il capolavoro.”
Schiller ringrazia con riverenza, s’aggiusta la parrucca leggermente inclinata dopo il vantaggio. – “O lo chiamavano Proschinesi?” così pensa Quijano.
Bloom rimugina il fallo in saccoccia, si passa oscenamente la lingua sulle labbra.
Omero invece non pare in vena di consigli. – “Il capolavoro va e viene, disgraziato! Coglione! Moderno!” Fahridi si  legge nel pensiero. “Moderno! Che tragica ironia usare una parola latina per un usteron proteron.” –
Omero non pensa nemmeno – “neanche questo si può dire, Fahridi; non fare l’Heidegger” – alza la spada, l’abbatte tra collo e orecchio di Bloom. Il rosso del sangue sprizzante dalle arterie schizza la candida neve, la testa rotola ai piedi di Omero. – “Il capolavoro pure va e viene, rotola.” Quijano si intromette nel riflusso trasversale –.
Dylan sbuca da sotto la panchina e improvvisa il primo canto funebre naso ed armonica. Gli uomini in campo attendono impalati, freddi.

Fharidi l’arabo non smette un secondo di ridere. “Per fare l’arbitro ci vogliono gambe e polmoni, mica la testa!”
“Quindi niente becchino?” Quijano esita. “Niente arbitro nuovo?” Si fa le domande e risponde. “E allora brindiamo!”

Il telefono squilla. L’arabo e l’ispanico si guardano, infastiditi, mentre quello continua a trillare.
Fharidi si alza, sbuffa.
“Ah! Sei tu!” sbotta Fharidi. “Allora?” È Eracle, inviato esterno, factotum, figlio illegittimo di dio. “Dove moira sei?
“Sono ancora in Tracia, Fahridi, ho avuto da fare, un fatto di pelo, contro pelo… si, ma non mi chiedere particolari.”
“E i pomi delle Esperidi?”Quijano s’incazza, scalcia. “Non lo sa che sono il premio della partita?
“Per mio padre, Fahridi!” Il tuono della sua voce sfonda la cornetta, conflagra dentro Quijano.  “Come grida l’ispanico. I pomi sono qui con me. Mi metto ora in viaggio, dovrete aspettarmi.  Non tarderò molto…”
“Comunque l’agone è bloccato, si scivola e non si vede. L’arbitro acefalo. Aspettiamo. Ma fai presto, figlio d’un padre!”
“No. La partita deve continuare, non c’è tempo. Così dice mio padre. Se lo dice lui… Voi che siete la voce, intanto, tu e quell’altro che dice di essere italico invece è ispanico – ecco, se proprio nevica, trovate un’altro luogo, spalatela, inventate. Giocate.”

“Giochiamo, Quijano?” Fahridi teso contro la finestra dubita con le mani. “E se poi non viene? Sento odore d’inganno..”
“Giochiamo, Fahridi! Che c’importa? Riprendiamoci la parola.” Quijano sghignazza, il santino di Tiresia sorridente nel taschino della camicia – come un amuleto.
“Così è, Quijano. Andiamo, blanditiae fallunt.”

Nel corridoio degli spogliatoi l’aria si è fatta densa. Nietsche passeggia di fronte alla porta. I suoi baffi dicono – o paiono dire: “Un macello! Io, nella porta? Mi aveva giurato l’impostazione, l’aedo!”.
D’improvviso Qujano e Fahridi sono sull’uscio della porta d’ingresso, la luce da dietro li fa indistinti, una sola poltiglia. Nietzsche spalanca la bocca, gli occhi, le mani – e anche il buco più sacro – e infine di uno furono due, e gli passarono davanti i cronisti.

“Si cambia campo” dice Fharidi, senza lasciar trasparire alcuna emozione.

Nietzsche schizza nello spogliatoio, tutto arrizzato. Dopo pochi istanti un tramestio di tacchetti si diffonde per il corridoio, mentre i due cronisti sono già alla fine – e all’inizio!

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Resume:

Scontro al vertice 1, 2