Addenda dell’ultim’ora. Moresco su Baricco, qui.

Il caso non è neppure recente – la sua portata è ciò che conta. Ad inizio maggio del trascorso anno del signore, Antonio Moresco e Massimiliano Parente, due tra i massimi scrittori del nostro evo, si sono fatti protagonisti d’uno scambio polemico, alla cui base c’è un concetto, il muro contro cui l’arte moderna*, da quando ha partorito o è stata partorita la prima volta, non ha potuto fare a meno di sbattere: il realismo.

Antonio Moresco dice, in un’intervista, parlando delle categorie dell’industria editoriale oggi vigenti:

Oggi i nostri critici -sempre pronti ad afferrare per la coda scampoli di vecchie categorizzazioni che già conoscono e che non creano loro problemi svegliandoli dal loro torpore, nella loro beata ignoranza rispetto a ciò che sta avvenendo nelle scienze, nell’antropologia, nella fisica, nell’astrofisica, nella genetica…- parlano tanto di ritorno al realismo da parte degli scrittori italiani e additano anzi questa inclinazione come nuovo (o neo) atteggiamento virtuoso per gli scrittori. Ma quella che abbiamo di fronte oggi è una realtà completamente sfondata. Di che ‘realismo’ stiamo parlando se non cogliamo questo aspetto della cosiddetta ‘realtà’?”

Massimiliano Parente, il cui mantra è la boutade, risponde ed alza la posta in gioco – love it or hate it, è la sua maniera. Nel suo panorama, il realismo diventa simbolo, segno e condensato di ogni meschineria in artibus: l’ipocrisia (“se fossero tutti così realisti in senso empirico ci starei, perché almeno saremmo un popolo ateo, all’avanguardia nel mondo, invece no, sono tutti realisti ma cattolici, guardano in cielo e vedono ancora le stelle, e vedono ancora il cielo, e magari ci finiscono anche dopo morti, lassù, in cielo”); l’equivoco estetico e “morale” frutto dello scambismo tra letteratura e giornalismo di denuncia ed investigazione; la riduzione dell’arte stessa ad una poltiglia, una zuppa ben digeribile e consolatoria.
Proprio in relazione all’ultimo punto si dispiega – si attizza – la polemica. Gratuito come un bimbo, pochi peli e molto pepe al culo, Parente prende l’autore dei Canti del Caos** di petto: la prospettiva di Moresco, secondo Parente, è pur sempre volta alla denuncia dell’occidente e della modernità – il suo realismo, pur aprendo a
ciò che sta avvenendo nelle scienze, nell’antropologia, nella fisica, nell’astrofisica, nella genetica…una realtà completamente sfondata
si rifugia allo stesso, tempo, si consola additando “un potere, un cattivo, un dittatore materiale o immateriale da rovesciare”. Per Parente ciò che dovrebbe interessare uno scrittore è “la condizione umana e il coraggio di guardarvi dentro”, mentre “gli scrittori scrivono come se vivessero prima di Darwin, prima della biologia molecolare, prima dell’Evo-Devo, prima della genetica, prima dell’astrofisica, prima che il Dna confermasse la terribile realtà in cui viviamo e di cui nessuno sa nulla. In summa, una “scrittura biologicamente contro le illusioni”.

La polemica segue – tuttavia il rumore è ciò che meno c’interessa***.

Uno si chiede cosa sia il realismo. Una categoria obsoleta, prima di tutto – un tempo, a tale categoria, corrispondeva un metodo, un registro. Oggi diventa una cosa, un sinonimo chic di verosimiglianza. Il fatto che l’industria editoriale adotti tali categorie non è un buon motivo, per noi, per ripeterne l’omelia.
Dal punto di vista della scrittura la questione del realismo semplicemente non si pone, è un modo, volendo, per glissare o parlare d’altro: da un lato c’è l’inabissamento nel proprio magma, dall’altro la civetteria. Punto.

Quanto invece all’ethos della scrittura la questione si fa decisamente più complessa. Moresco, nel caso citato, parla di stare “nella ferita e nella ribellione”. Come non concordare? Per questo, dico, Parente ha le sue ragioni quando lo taccia di buonismo consolatorio e vittimismo. Tuttavia le norme di ferro – “la scrittura biologicamente contro le illusioni” – che quest’ultimo pone mi fanno allergia. Parente scrive, contrapponendosi a Moresco, che quest’ultimo apre, mentre lui stesso chiude. Ne ho già scritto, qui, ne Il libro degli equivoci, mi ripeto brevemente: non c’è segno al mondo – ed è un mondo di segni – che non apra e chiuda al tempo.

Altra domanda, sicuramente più interessante ed hopefully da trattare su queste pagine , riguarderebbe il come, nella pratica della scrittura, abbattare il muro dei dati reali – scavalcarli. A questa domanda, al di là dei rumori, entrambi gli attori dell’agone potrebbero dare risposte eccellenti.

* chi intendesse discutere di genealogie, cavilli ed etimologie al riguardo, è pregato di commentare sul blog ed attendere. Il nostro filologo torna subito.
** Alonso Quijano tra un po’ ci crapulerà con un testo al riguardo.
*** Costa ammeterlo, crapuli cari, ma tant’è. A meno di assumersi il peso di uno sguardo satiresco o inumano (“lo spettacolo è, indipendentemente dallo spettatore”), la massima sartriana – “l’inferno sono gli altri” – resta perpetua, attuale.