Fissavamo la luce bianca del lampione fuori al cancello dell’ospedale, e io ero rimasta dentro tanto di quel tempo che al primo soffio di vento sono saltata per aria, il freddo mi ha avvolta come un maglione di ghiaccio, e Nicola per togliermelo di dosso è tornato dal bar con un cornetto caldo, al cioccolato, che faceva schifo, e guardandoglielo mangiare il freddo mi si è sciolto sulla schiena, e io mi sono sentita umida e senza niente addosso, e il pomeriggio abbiamo raggiunto mamma e papà in ospedale, e il dottore ha detto Ce l’ha, e dopo che l’ha detto lui, anche l’assistete ha detto ce l’ha, mio padre ha sussurrato a mia madre, qualcosa, non so, e mia madre ha detto Gesù Cristo proteggici tu, tanto che io ho dovuto dire Cerchiamo di non farne una tragedia, tanto per sdrammatizzare, ma a quell’imbranato di Nicola gli è scivolato il pacchetto di Tic Tac dalle mani, e le Tic Tac si sono sparse sul pavimento, e mio padre e Nicola si sono messi a quattro zampe, ma era impossibile acchiapparle tutte, e nessuno li aiutava, e nello studio si sono sentite solo le tic tac che rotolavano in tutte le direzioni, e mia madre ha pianto, e io non ho pianto, ma ho recuperato a casa, dove non riuscivo a smettere di frignare dentro la mia pianta di fagioli preferita, perché pensavo Di tutti i momenti perché proprio questo qui, perché adesso che avevo una stanzetta tutta mia, senza il borsone di Nicola a infestarmi le lenzuola di cloro, e lui ormai andava per i 1.200, e papà passava un miliardo di minuti al telefono con mamma, tanto che lei quando si faceva una certa gli diceva Antò, Guarda che mi si squaglia l’orecchio, una scena che se mi capitava un anno fa c’avrei perso la testa, e ho pensato a quello che sarebbe venuto dopo di me, alle cene e alle feste in famiglia, ai natali con l’albero senza il mio regalo, alla felicità dei miei genitori, che mi offendeva, poi mi sono detta Fai un respiro profondo, non puoi stabilirlo tu quando deve filare come deve, giusto?, c’è qualcuno che le prende per te decisioni così, perciò era in questa maniera che mi sforzavo di vederla, ma mi remava contro questa maledetta fissa di immaginarmi in tutti i posti in cui non ero mai stata, tipo a prendere il sole ai Caraibi, o a passeggiare nel mezzo di New York, e se rimanevo troppo con la testa in questi posti, finiva che mi mancavano l’odore delle palme e lo scalpiccio dei newyorchesi, ma è stata una mattina di queste che mi sono svegliata con la sensazione che ci fosse ancora qualcosa di importante da decidere, e ho pensato Fermi tutti, Ma cos’è che cambia una roba così? Perché se mi concentravo per bene, sapevo di avere ancora una stanzetta tutta mia, e che mamma e papà continuavano a fare le ore piccole al telefono, e Nicola andava sempre per i 1.200, e da lì ho concluso che almeno questo potevo lasciarlo com’era, nessuno mi obbligava a cambiarlo, se non volevo, perciò le piante di fagioli bisognava che le innaffiassi lo stesso, almeno la mia preferita, e dovevo fare in modo che tutto si sbrigasse nella maniera esatta in cui si sbrigava prima, e l’ho detto a Nicola a mamma e a papà, ma loro l’hanno presa come una scenetta imbastita tanto per farmi forza, e hanno detto Brava Giulia, Brava la nostra bambina, e io mi sono incazzata perché volevo che capissero, e ho organizzato un pic-nic ad Afragola e ho mostrato loro che i fili d’erba non cambiavano mica perché io avevo il cancro, e la melanzana arrostita di mamma continuava a sapere inspiegabilmente di uova fritte anche col cancro, e ho spiegato loro che le cose che conoscevamo dovevano rimanere così come le conoscevamo, che poi era vero a metà, perché i fili d’erba erano sempre fili d’erba ma si assomigliavano tra loro solo a grandi linee, come le persone vere, e anche i cibi che mangiavo erano come quelli prima del cancro, ma quelli dolci sapevano tutti di zucchero filato e quelli amari erano come le gocce per la stomatite che prendevo da bambina, erano concentrate, ed era come se dentro di me si fosse sciolto tutto quello che sapevo, era finito in un pozzo profondissimo, e se ci affondavo le mani dentro sentivo di toccare un segreto, e adesso che gli alberi appollaiati sotto la mia nuova finestra hanno le foglie nuove, e le tette che invidio alle infermiere si attaccano alle loro camicette come cera calda, mando giù esclusivamente vaschette di gelatina che sanno di ospedale, Mamma e Papà fanno la spola avanti e indietro da casa, e il dottor Enzo mi prende in giro perché sembro sempre più stanca di lui anche se me ne sto a letto tutto il giorno e mamma se ne va in bagno per non sentirlo altrimenti lo deve uccidere, Nicola invece resta per il turno di notte, e una settimana fa mi regala questa gabbietta, e nella gabbietta c’è un merlo nero, perché dice Siccome metti tristezza a tutti qui dentro ho pensato di farti un regalo a tema, che secondo lui questa è una grande battuta per farmi ridere, e io glielo faccio credere, e rido, perché da piccola piangevo per finta ogni volta che volevo farlo picchiare da papà, e ora vorrei dargli un bacio per ogni volta che le ha prese, e allora mi tengo il merlo, che è piccolo quanto il palmo della mia mano, lo faccio girare libero per la stanza anche se qualche inserviente fa storie, e mamma profetizza che finirà per cavarmi un occhio, tento di ammaestrarlo ogni giorno dandomi un colpetto sulla spalla per farcelo salire sopra, ma quello ha paura e non ci pensa nemmeno a virare nella mia direzione, si mette a girare a vuoto riempiendo la stanza con la brezza del suo volo disarticolato, perché è così che si comportano gli uccelli in gabbia, si preoccupano soltanto di restarne fuori, e non considerano che anche una stanza può essere una gabbia, o anche un albero, o una città intera, se uno è così preso dal volo da non riuscire nemmeno a capire dove si trova, ma stiamo parlando di un cervello da uccellino, chiaro, e questo qui è un po’ tonto proprio come Nicola, ancora non capisce ma capirà, e quando accadrà si dimenticherà di aver avuto paura, e salirà sulla mia spalla per guardare per la prima volta la stanza in cui ha volato, finalmente sposterà il suo corpicino da un punto a un altro, e quando sarà stanco, in segno di gratitudine, sbatterà le sue ali nere proprio accanto al mio viso, liberandolo dalla morsa crudele di questo caldissimo mese d’agosto.