A un primo, approssimativo sguardo, quell’uomo poteva sembrare una persona quanto mai ordinaria. Ed effettivamente, stando a ciò che è manifesto nell’osservare un individuo, quell’uomo non poteva essere giudicato altrimenti. Aveva sessantaquattro anni, una casa spaziosa, un soggiorno luminoso e una libreria a muro ben fornita, una cucina Scavolini – la cucina più amata dagli italiani –, un tapis roulant a otto velocità, una cyclette a quattro marce, una vasca con idromassaggio, un televisore a cinquantotto pollici allacciato a un decoder satellitare infarcito di ogni singolo pacchetto tematico, un sistema home theater «capace di riprodurre l’emozione del cinema nel vostro salotto» – come segnalava a gran voce il ragazzotto biondo della pubblicità –, una vetrinetta traboccante bottiglie di whisky invecchiato, un cofanetto in legno di Cohiba Espléndidos e una poltrona in pelle nera che riportava il solco sgualcito generato dal continuo riposarsi di quelle soffici natiche sessantaquattrenni sulla morbidezza del cuscino.
Nondimeno, e ciononostante, quell’uomo soffriva. Lentamente, giorno dopo giorno, era come se si stesse ammalando: o meglio, sentiva di essere malato. Malato, ma senza malattia. Sofferente, ma senza diagnosi. Da un punto di vista medico – asettico e dispatico –, quell’uomo era sano. Eppur soffriva, tremendamente. Era come se dai tormenti d’animo – tormenti d’animo che lo spingevano sovente a domandarsi cosa vi fosse oltre quella vita di agi e di abitudini, al di là di quel soggiorno luminoso, di quella libreria rigonfia, di quel tapis roulant, di quella cyclette, di quella dannata vasca a idromassaggio e di quel roboante sistema home theater –, come se dai tormenti d’animo, dicevo, vi fosse un riverbero doloroso, che si insinuava fra i tessuti muscolari e adiposi, fino a graffiargli le ossa. E questo sì, alle volte faceva un gran male. Quasi gli impediva di muoversi, tanto era doloroso. Lo coglieva soprattutto alle spalle, dalla clavicola alle spalle, e poi giù, fino alla punta delle scapole. Quello era l’epicentro del dolore. Un dolore che aumentava e affievoliva, ma permaneva. Alle volte, poi, si allungava lungo la spina dorsale, rotolando penosamente su quella scalinata di vertebre, per poi rovinare all’osso sacro, cloaca di ogni dolore.
Tuttavia, finché i dolori non erano altro che diffusi e indefiniti – solamente un garbuglio di spasimi e fitte sparpagliati qua e là nella distesa interna del corpo – qualsivoglia diagnosi non poteva che risultare imprecisa, finanche fuorviante. E l’uomo, dunque, si limitava a compiangersi, a stringere i denti e a fingere che il dolore non fosse altro che immaginario.
Eppure soffriva.

Passarono due settimane senza che vi fossero evoluzioni di sorta; e poi, d’un tratto, allo scoccare del quattordicesimo giorno, qualcosa si mosse. Precisamente, un piccolo gonfiore non più largo di una moneta scosse la quiete orizzontale del suo ventre, e l’uomo finalmente sorrise: non si era immaginato di soffrire, dunque! Vi era qualcosa di innaturale in quei dolori, come sospettava! Qualcosa di minuscolo, forse, di insignificante – perché no? –, ma pur sempre qualcosa!
Ora, individuato un sintomo visibile e quanto mai corporeo, non restava altro da fare che chiamare un medico, fissare un appuntamento e risolvere il caso, una volta per tutte. Eppure, al contrario di ciò che egli stesso pensava, le sofferenze dell’uomo erano appena iniziate.

Il primo dottore fu il più cauto. Lo auscultò, gli misurò la pressione e gli batté il martelletto al declivio del ginocchio. Quindi, rialzandosi – dopo aver sfiorato con le dita il gonfiore sulla pancia – fece un gran sorriso. «Non vi è ragione di preoccuparsi» disse, «è solo una ghiandola lievemente infiammata. Le fa male se premo? Immaginavo. Be’, è un po’ gonfia, sì, ma non è niente di cui preoccuparsi. Stia a riposo per un paio di giorni e vedrà che tutto torna a posto». E con un secondo sorriso lo congedò.
L’indomani e i giorni che seguirono, il mal di pancia non cessò di tormentare l’uomo, e il gonfiore si fece più sporgente.
Il secondo medico fu meno accomodante. «Ullalà, che bernoccolo!» esclamò, nel vedere l’epidermide stirata e rigonfia al di sopra della ghiandola. «Eh no, qui dev’esserci qualcosa, qualcosa di grosso – e mi perdoni l’allarmismo. Le fa male se spingo? Immaginavo». Gli prescrisse una pomata antinfiammatoria da spalmare due volte al giorno ai lati del gonfiore – la mattina appena sveglio e la sera dopo cena – e lo salutò stringendogli la mano e sorridendo: «con questo le dovrebbe passare».
Col passare dei giorni, il mal di pancia si fece più pungente e il gonfiore più pulsante ed esteso – nonostante la pomata – e a questo si aggiunse una fitta intermittente all’altezza delle tempie.
Il terzo dottore, quando il paziente sollevò la maglietta e mostrò l’enfiagione ingobbita e arrotondata che gli curvava l’addome, si lasciò scappare un urletto, si portò le mani alla bocca e spalancò gli occhi: il basso ventre dell’uomo somigliava oramai a un palloncino, la pelle stirata sembrava potesse bucarsi da un momento all’altro – anche solo appoggiandovi l’unghia di un dito – e quel gonfiore elastico si propagava verso le zone limitrofe del corpo: in su verso i pettorali e in giù verso le cosce. Pareva quasi che l’uomo fosse incinto, non fosse stato – giustappunto – per la turgidezza innaturale del pube, delle cosce e del petto, oltre al fatto che l’uomo, per l’appunto, fosse un uomo, inadatto per natura a procreare. Il paziente, non sopportando quel silenzio angoscioso, prese la parola, sfiorandosi il gonfiore: «È così da stamattina» disse «e continua a crescere. Giusto ieri l’altro era grosso la metà. Non so che cosa sia. Un suo collega mi ha consigliato una pomata, ma oramai non basta più neanche un tubetto, me ne servono due per fare tutto. E poi vede? Si sta gonfiando pure il petto, e pure sotto: guardi!». E così dicendo, si abbassò le mutande e lasciò che il medico vedesse il suo piccolo pene – o meglio, la sua piccola cappella – affiorare dal gonfiore dell’inguine come il picciolo da una zucca. I corpi cavernosi rivestiti d’epidermide nemmeno si vedevano, sommersi dall’ingrossamento plastico del pube, e il glande faceva capolino oltre il turgore della carne come la testolina arrossata di un lombrico da un vaso di terriccio.
«Qui c’è qualcosa che non torna» disse il medico, ricomponendosi, e inforcando un paio di occhiali da vista sul pendìo del naso adunco. «Da quanto tempo ha detto che va avanti?»
«Da due settimane fa, ma al principio non sembrava altro che una ghiandola infiammata. Qui, vede? Di fianco all’ombelico, leggermente a destra. E poi ha iniziato a gonfiarsi, sempre di più, e negli ultimi giorni si è come raddoppiato».
«Curioso, davvero curioso. Che pomata le hanno detto di usare?»
«Glandunil. Due volte al giorno: la mattina e la sera».
«Ed è peggiorato da quando ha iniziato a usarla?»
«All’inizio no. Poi sì, ha iniziato a gonfiarsi più di prima».
«Potrebbe essere una reazione allergica, allora. Dico potrebbe eh, ma non penso. Lei comunque eviti di usarla, e vediamo se migliora. E per domani le prenoto una risonanza in clinica, va bene? Nel frattempo, non faccia sforzi. Mi raccomando. Anzi, se può stare sdraiato tanto meglio. E magari chiami un taxi per tornare a casa: meno si muove e meglio è».
L’indomani – nonostante il taxi, nonostante la pomata riposasse nel secchio del pattume, nonostante le diciannove ore consecutive trascorse a letto, sdraiato – il gonfiore risultò tutt’altro che attenuato: ora occupava l’interezza dell’addome e del petto – talmente gonfi da sembrare un tutt’uno –, nonché le spalle, la schiena, le natiche e le cosce. Quella mattina, appena sveglio, l’uomo si ritrovò quindi trasformato in una palla: una sfera di carne e pelle stiracchiata, dal diametro approssimato ragionevolmente al metro e ottanta. Esattamente come il pene il giorno prima, poi, braccia, collo e polpacci erano come sprofondati nella morbidezza dilatata del corpo, da cui emergevano solamente due piccoli piedini, due piccole manine e un altrettanto sferica testa dilaniata dal dolore. Al suonare della sveglia, dopo innumerevoli e vani tentativi di allungare il braccio per spegnerla, l’uomo non poté fare altro che rotolare giù dal letto, rimbalzare sul pavimento e caricare a fronte bassa il comodino, finché il congegno non ruzzolò sulle lastre del parquet ammutolendosi di colpo. Per un istante, il mal di testa parve interrompersi, e l’uomo voltolò su se stesso dalla camera da letto al centro del salotto. Quindi, aiutato dalla domestica filippina, incredula e spaventata – «che gl’è successo, segno’?» –, l’uomo aprì l’uscio di casa e prese a rimbalzare giù per le scale, gradino per gradino, fino a raggiungere il portone d’ingresso, dove ad attenderlo vi era un taxi. «Presto, alla clinica Santa Clelia!» gemette l’uomo cerchiomorfo, e il tassista, senza fare domande, si immise nel traffico – non prima di aver assicurato l’uomo sul tetto dell’automobile, come una valigia, stringendogli intorno un paio di corde da campeggio.

Venti minuti più tardi, all’ingresso dell’Istituto Clinico Santa Clelia, le mani fresche e profumate di due giovani infermiere slegarono la palla di carne, di pelle e di ossa e la caricarono su una barella d’emergenza, per poi correre tra i corridoi della clinica. Ad attenderli nella sala d’attesa della risonanza magnetica vi era il medico, elegantemente ammantato nel suo camice candido e fresco. «Cristo di un dio!» esclamò nel vederli accorrere, «cosa diavolo è questa palla informe?». «È il paziente che ha visitato giusto ieri!» cinguettò un’infermiera, tergendosi il sudore dalla fronte. «Ha detto di essersi svegliato così. Gonfio e leggero come un palloncino: così ha detto!»
L’infermiera fece appena in tempo a terminare la frase, e d’improvviso, mentre il medico si avvicinava a passo svelto, l’uomo iniziò a librarsi in aria: su, su, sempre più su, fin quasi a toccare il soffitto, sfiorando con il proprio gonfiore l’aculeo scintillante del lampadario… E puf! D’un tratto l’uomo esplose. Gli organi interni schizzarono fuori dal corpo come proiettili, le ossa tintinnarono sul marmo, le budella ricaddero sul pavimento, seguite dai polmoni, dallo stomaco e dal cuore. Infine, planarono per terra pure i bronchi, il fegato e l’esofago. Mentre il ripieno dell’uomo ruzzolava ai piedi del medico e delle infermiere, insanguinando le piastrelle lucidate, la carcassa svuotata dell’uomo svolazzava nella stanza, come un palloncino stridente, a spernacchiare l’aere di cui un tempo fu saturo.
Ora era ben più leggero.