Quando ero piccola, anzi, quando ero una bambina e per strada gli altri bambini mi prendevano in giro, mia madre, per rassicurarmi, mi disse che ero come tutti gli altri, sana come un pesce.
Ma non era vero che ero come tutti gli altri. Io giocavo, mangiavo, piangevo, ridevo; ma ero comunque diversa dagli altri. Forse perché da terra il mio cervello dista solo 138 centimetri.
Decido di smettere di misurarmi, cancello tutti i segni e le tacche sul muro, cancello la data di ogni misurazione. Ricorro a un gesto molto teatrale – un colpo di rullo di colore bianco – che però un po’ mi delude, mi aspettavo molto di più. Mi aspettavo un po’ di scena, un applauso, una foto con i parenti.

Decido di capire meglio il mio stato di salute e cerco in internet: pesce salute. Il primo articolo che vedo mi consiglia quale tipo di pesce preferire, il secondo dice che il pesce apporta benefici per la salute di tutto il corpo, il terzo, un po’ allarmante, elenca sette pesci che potrebbero danneggiare la salute. Credo di aver capito una cosa importante: i pesci vengono mangiati. Cerco di non interpretare troppo le parole di mia madre. Forse si riferiva al segno zodiacale? Scopro che i nati sotto il segno dei pesci sono persone generalmente molto timide, di buon carattere, che vengono messe costantemente alla prova dalle circostanze negative. Scopro anche che i pesci hanno abilità numeriche spontanee simili a quelle osservate anche in altri animali come uccelli, ratti e scimmie. Dispongono di un sistema rudimentale di calcolo matematico che permette loro di distinguere quale tra due gruppi presentati sia il più numeroso. Le mie capacità di calcolo fanno pietà, ma forse a questi livelli ci arrivo. Penso alla maestra Catalina e mi dispiace, ora, non averle detto, allora, che non era colpa mia, che per me i numeri sono tutti uguali, è vero, ma non perché io sia scema, come pensava lei, anche se non l’ha mai ammesso, ma perché dispongo di un sistema rudimentale di calcolo matematico. Penso a come sarebbe andata se glielo avessi detto. Esistono i numeri buoni, le spiego, e adesso lei si sente in colpa per aver pensato che fossi scema, e i numeri cattivi, le dico. E poi ci sono i numeri che non mi dicono niente, quelli che confondo, come il diciassette, il diciannove. La maestra Catalina mi guarda stupita e mi dice che non lo sapeva, le dico che i numeri buoni sono il due, il quattro, il sei. Mi dice che allora sono i numeri pari. Ma no, non capisce niente, meglio che non glielo ho detto: non può capire che nel mio sistema rudimentale di calcolo matematico mi manca proprio il concetto di pesce (la macchina mi scrive pesce, volevo scrivere numero) e allora mi viene in mente mia madre, disperata forse più di me, che mi scrive numeri sulle dita, per farmi fare i conti, che riempie la casa di fogli e ci scrive numeri sopra e mi fa saltare, ma per me i numeri non esistono, non li capisco, sono tutti uguali. E anche quei 138 centimetri, per me, non sono che un insieme di suoni e poco più. Mentre tutti attorno a me si agitano e scalciano, scongiurano il peggio e mi guardano con pietà, io faccio il pesce in barile e mi rilasso, mi addormento e mi dimentico di tutto.

Mi sto seriamente convincendo di essere un pesce. Sono sana come un pesce. E vengo mangiata, anche se sono dominante. Sono piccola, sì, leggera. Quando mi siedo, i miei piedi non toccano per terra. Se mi si solleva, sto su un braccio, non occupo molto spazio. Se un uomo mi prende in braccio, mi sembra di volare. Forse sono un uccello? Le capacità di calcolo sono simili, ho appena scoperto. Cerco su internet uccello salute, ma sarebbe stato meglio non farlo. Preferisco il pesce. Mia madre dice che sono sana come un pesce e allora io all’ennesimo appuntamento con il luminare non ci vado. Fanno di tutto per farmi crescere, le hanno provate davvero tutte, ormai.
Una sfilza di medici e specialisti, con occhiali e senza, primari e luminari della scienza, tutti in fila, come alle poste, mi fissano, mi alzano un braccio, lo fanno ricadere pesantemente, tutti con la verità in tasca, ognuno con una verità diversa, e la sfilano, lentamente, dal taschino, insieme a un orologio d’oro. Il primo della fila si gira verso il terzo, il secondo gli stava antipatico, e dice che forse il problema è l’alimentazione. Per due settimane mangio a pranzo e a cena la stessa cosa. Spaghetti al sugo. Austriaci. Per due settimane. Spaghetti al sugo austriaci! Austriaci. L’ultimo della fila ha un’idea geniale, si prende l’incarico lui stesso: appendermi ogni giorno due volte al giorno, sollevata da terra. Almeno smettono di darmi gli spaghetti e sono un po’ sollevata. Dopo un po’, i medici si addormentano, mio padre si stanca di sollevarmi ogni giorno e intanto io mi chiedo che cosa farò da adulta. Sembra che il destino di una come me sia quello di far ridere di sé, di fare il clown o il buffone, mi metto un naso rosso e vado in piazza, mi adeguo, faccio ridere e, forse, anche piangere. Mi sento come un pesce fuor d’acqua e me ne vado a casa, cammino per le vie della città, boccheggiando, alla ricerca della mia acqua.

Scopro che per i pesci è fondamentale il linguaggio del corpo, solitamente universale per tutti i pesci, anche se esistono diverse eccezioni: viene usato per stabilire i rapporti gerarchici tra i conspecifici o tra specie diverse che hanno interessi comuni. Decido di essere l’esemplare dominante e dispiego le pinne, con fare minaccioso, contro mia sorella. L’individuo subordinato, cioè mia sorella, che si stava pettinando, abbassa le pinne sul corpo, un comportamento che scopro essere affine al pesce che ha problemi di salute. Adesso mi dispiace per lei. Vorrei abbracciarla, ma sarebbe come ammettere che in realtà non sono io l’esemplare dominante.
Laura va dalla mamma e piange, dice che è tutta colpa mia. La mamma dice solo che non sa più che pesci pigliare. Ora piange anche lei. Potrei nuotare nel mare di lacrime, ma, ovviamente, mi spavento e scappo di casa. Non mi faccio vedere più, mi nascondo, per paura di essere presa.

Su internet scopro anche che c’è tutto uno studio sulla vendita dei prodotti e che questa è strettamente collegata alla posizione che il prodotto occupa sullo scaffale. Il livello degli occhi, a un’altezza compresa tra i 129 e i 170 cm, è quello che promette una vendita pari al 52 %. Numeri. Sembra una cazzata, ma mi obbliga a mangiare pasta Barilla per il resto dei miei giorni e, capirete anche voi, questo fa riaffiorare il trauma degli spaghetti austriaci a pranzo e a cena. Oppure potrei chiedere la pasta di Gragnano al commesso, che mi guarda dall’alto al basso, con quella sua faccia da orso. Ma si sa, l’orso mangia il pesce, e quindi lascio perdere e vado a fare la spesa in quel negozietto in fondo alla strada, dove bisogna chiedere perché tanto in quel bordello di prodotti uno sopra l’altro non si troverebbe comunque nulla.

Poi cresco, non di statura, ma cresco, sono adulta e non è cambiato niente. Stacco etichette dei Pokémon dai vestiti, mentre bevo tè e fumo erba. Ormai sono adulta, mi ripeto, e penso al lavoro che faccio, alla casa in cui vivo. Faccio il clown.
E a Bressanone in pediatria non esco più dalla parte, anche quando cerco di fare un gioco di abilità con i nasi rossi e non mi riesce e la mia collega, spazientita, lo spiega a Emma, la bambina magrissima che non parla. È la quarta volta che siamo con lei e io, da bravo pesce, sto muta e guardo le mani esili esili che si muovono, passaggio per passaggio, senza sbagliare mai. Un po’ ci rimango male quando la mia collega si scusa per me e, uscendo, mi rimprovera. Ma sento gli occhi della bambina sulla mia schiena e mi allontano, senza uscire dalla parte. Quando torniamo da Emma e diciamo che è stata proprio brava l’ultima volta, a imparare quel gioco così velocemente, vediamo che tra le braccia ha una bambola. Emma preme sul braccio della bambola, con forza, fino a farle uscire delle lacrime. Ci provo anche io, con la mia collega, premo con forza, per vedere se funziona, ma no, non succede niente. Emma per la prima volta sorride. La collega mi dice di smetterla, mentre Emma mette la bambola nella sua culla. Piano piano e in punta di piedi, salutando, usciamo dalla stanza. Emma ha otto anni.

Rimango nella parte anche a Silandro, con Marco, il mio collega altissimo che quando mi prende in braccio io smetto di essere pesce e divento farfalla, o forse spero solo di esserlo. Entriamo in una stanza e c’è una mamma con un neonato di pochi giorni. Mi rivolgo a Marco e gli dico: mi raccomando, solo guardare. Poi salutiamo la mamma. Il bambino dorme. Marco rimane sulla soglia della porta e io mi avvicino al bambino, poi corro, senza far rumore, da Marco e gli dico: sai, ho visto le manine, piccole piccole. Marco intona una ninna nanna. Io torno dal bambino e poi da lui e gli dico che ho visto muovere i piedini piccoli piccoli. Marco continua a suonare. La mamma ora si commuove. Io corro di nuovo dal bambino, lo guardo in punta di piedi tutta protesa verso di lui, torno da Marco e gli racconto di aver visto la sua bocca, piccola piccola, e cominciamo tutti e due a cantare sottovoce. La mamma ora piange, ma piange proprio. Mi giro verso Marco e gli dico: ma guarda cosa hai combinato, sei sempre il solito. Non hai davvero cuore, ti pare che devi far commuovere una mamma che fino a poco fa era tutta tranquilla con il suo bimbo? La mamma sorride. Io mi scuso per Marco e dico: sa, lui è come un elefante. Mentre usciamo dico a Marco: ma guarda che figura mi hai fatto fare.

E poi penso a Vipiteno, alla trentenne che parla solo inglese. E penso anche che avrei potuto studiare l’inglese, ma ormai è andata così e intanto canto con la mia collega una canzone e la donna si mette subito a ridere. Poi ci avviciniamo e le chiedo, con il mio inglese zoppicante, come si chiama. Ripetiamo quel nome impossibile come meglio ci riesce e la donna si illumina. Io da una parte, la mia collega dall’altra, ci muoviamo con lei e intoniamo la prima strofa. The lion sleeps tonight. Auuuuuuu Wimoweh. La collega mi rimprovera: ma non sei mica un lupo che ulula. Poi si rivolge alla giovane donna e si scusa: è che lei ama gli animali. Io sussurro alla donna che mi sono persa nella foresta e le svelo il mio segreto: in realtà io sono un pesce. Sono diventata adulta e faccio il clown. Sono un pesce clown che ha deciso di non farsi prendere. Vediamo se mi riesce.