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Minerva: Ulisse!

Spettatore: Chiamano Lei, Capitano.

Penelope: Ulisse

Spettatore: Anche di lassù.

Ulisse: Hanno chiamato me?

Penelope: Ulisse

Ulisse: Strano non ho sentito nulla.

A questo punto cala il sipario. Immaginate Ulisse con bastone e bombetta fare spallucce e avviarsi verso l’uscita del teatro.  Così l’aveva immaginato Alberto Savinio e l’uscita di scena del suo Capitano Ulisse attese più di dieci anni prima di essere consegnata agli spettatori. A farsi due conti, se ne capisce il motivo. Non allineato, distonico, un pazzo surrealista che già aveva fatto storcere il naso al pubblico e alla critica quando, nel ’25, terminata l’esecuzione della sua Morte di Niobe, si era rivolto alla platea non per il puro gusto del gesto di sfida, ma con il candore e l’ironia dell’artista: “Tranquilli, signori, dopo tutto non c’è nulla di male”.  Ulisse dunque, il metodo mitico e la rivoluzione copernicana fatta compiere all’eroe omerico, quello della metis di cui qui a Crapula ultimamente spesso si parla. Si tratta della personale lettura di un intellettuale che i Greci li conosceva, perché greco di origine, e che dunque sapeva che il mito è parola e che Omero usava i miti come noi usiamo le parole. E  sapeva anche che surrealismo, come avanguardia,  è un’etichetta e può contenere tutto quello che si vuole e che il suo personale surrealismo, se di questo si trattava, consisteva nel dare forma all’informe e coscienza all’incosciente. Mi ha sempre colpito il tono scanzonato dell’ultima battuta pronunciata da Ulisse. Perché è un’affermazione delle  più terribili e stravolge la fisionomia dell’eroe dell’”ultimo viaggio” – che diventa il penultimo – fissata in saecula saeculorum dall’autorità di Omero (o chi per lui). E mi colpisce ora, a distanza di anni da quella mia prima volta con Savinio, ora che rileggo alcune pagine della Nuova Enciclopedia e ritrovo questo:

La giostra non è se non in piccolo, il modello dell’universo nella sua immensa e perenne rotazione. […] Che giova aver rotto il cerchio dell’universo tolemaico? Che abbiamo trovato di là da quel cerchio, svanita l’illusione di un universo nuovo e un’infinita libertà? Altri cerchi abbiamo trovato, cerchi nel loro eterno giro, cerchi che perpetuamente ritornano al punto di partenza, cerchi che all’infinito si chiudono in loro stessi, cerchi che inesorabilmente ripetono il senso della prigionia; nient’altro abbiamo trovato, nessun nuovo acquisto abbiamo fatto passando dall’universo tolemaico all’universo copernicano, se non di passare da un carcere più piccolo, e che se non altro il pregio aveva di essere misurato alla nostra statura, a un carcere infinito[1].

E questo ancora:

E allora pensai che il destino individuale dell’uomo è rettilineo. Pensai che per seguire il proprio destino l’uomo deve sfuggire alla rotazione, a qualunque rotazione, alla rotazione della giostra, alla rotazione della terra, alla rotazione universale, la quale vuole chiuderlo nel suo giro e implicarlo nel destino comune. Pensai che anche l’ordine morale è rappresentato da una retta che contrasta al cerchio. Pensai che l’uomo nel suo ideale cammino non deve mai tornare indietro e tanto meno sui propri passi, come lo costringe il cerchio. Pensai che nostro dovere è di rinunciare alla seduzione del cerchio, è di salvarci dal cerchio e da qualunque movimento meccanico o ideale, da qualunque movimento fisico o metafisico, e arrivare a poco a poco, puri di movimento, al cuore dell’immoto: alla nostra eternità[2].

Trovo che nella volontà di sottrarsi al cerchio vi sia una chiave dell’improvvisa sordità di Ulisse. Non una reazione psicotica, un non voler sentire o vedere più, una fuga. Ma l’aprirsi di una via, tolta la maschera e deposto l’abito fino allora indossato. Ma quale via? Le perplessità che ancora oggi accompagnano la mia lettura di Savinio non nascono dalle infinite libertà e possibilità dell’ Ulisse che rinuncia all’ultimo viaggio, perché gli è diventato improvvisamente chiaro che gli infiniti mondi possibili non sono bruciati sul rogo insieme al Nolano.  Piuttosto, se non è importante in fin dei conti sapere che fine abbia fatto Ulisse appena spogliatosi dei panni e del mito del Capitano, il sospetto è che noi ora, come Ulisse nel momento in cui lascia la scena, siamo sempre sul punto di afferrare quell’oltre che riusciamo soltanto intravedere. E il sospetto e lo sconcerto è che per Savinio tale oltre non sia dia in motion, ma nell’immobile eterno, cioè che non si dia affatto.


[1] Alberto Savinio, Nuova Enciclopedia s.v. Giostra, Adelphi [1977] 2002, pp. 205-206

[2] Alberto Savinio, Nuova Enciclopedia s.v. Decadenza della giostra, Adelphi [1977] 2002, pp. 209-210