Massimiliano Parente, scrittore e gironalista occasionale – come il turista occasionale, cioè quello che te lo ritrovi dove meno te lo aspetti – suscita molto interesse, qui a Crapula e altrove, tanto che anche dove vive il nostro amico che si fa ancora chiamare The Light Carrier, è arrivata notizia e copia dell’ultimo lavoro del suddetto scrittore e scienziato: L’Inumano.

Criticare vuol dire giudicare, ma se un libro è già un giudizio, una lunga serie di giudizi, cosa aggiungere a quanto dice? Cosa dirne? La letteratura non ha più niente da dire, ovvero, dice, parla e sparla, di ogni cosa. Tutto è metanarrazione, anche la narrazione stessa, ed il protagonista è lo scrittore che scrive dello scrittore che scrive, ed il fatto narrato è la scrittura di un libro da scrivere, che non è altro che il libro che si legge, che, però, nella scrittura risulta –mentre lo si legge – un libro da scrivere, che non verrà mai scritto. Forse. Perché scriverlo, in fondo?

L’inumano viene dopo Contronatura. Un nuovo –ennesimo? –  libro “definitivo” dopo il primo “libro definitivo”. Capolavori in serie insomma, capolavori sull’esigenza del capolavoro e sulla insensatezza dello stesso come d’ogni cosa. Epiteti ed ossimori. E ce n’è per tutti. La storia è differente, ma il linguaggio è lo stesso, la mano è la stessa, i bersagli sono sopravvissuti e persino i personaggi. Parente calca anche la mano nella voglia di irritare il lettore con riferimenti alla struttura di Contronatura spiegando alcuni personaggi del primo nel secondo, la Murnau allude alla Porcella e Madame Medusa sta sempre là. Scompare Scarlett. Peccato (era una gran gnocca).

L’inumano è un uomo senza arti –metafora per metafora, una immagine del compimento del concetto s’è incarnata in una forma, piaccia o non piaccia – ed è un ritorno all’informe, se vogliamo. All’era di Planck, in qualche modo. Dall’informe all’informe passando per la breve parentesi della follia della ragione, un nulla nella lunga storia, definita preistorica dalla ubris dell’uomo, dell’universo. Ai critici meno pigri altre considerazioni artistiche. Io sono solo pigro, e non sono un critico. Non mi interessano questioni stilistiche ulteriori, facili tra l’altro da specificare: la divisione in capitoli, la scansione “geologica” degli stessi –accennavo prima all’era di Plank, primo capitolo del libro (a parte l’introduzione), of course – , il linguaggio, la psicologia del Parente attore della fiction di Parente. Ne parlino altri.

È il nesso scientifico che mi interessa qui. Il nesso che la scienza ha con la letteratura. Sulla letteratura. Sulla funzione della letteratura nell’epoca della scienza. Finita la storia, ridotto il pensiero a epifenomeno, a che pro le lettere –  mi sono chiesto –  se, quanto vale la pena di leggere oggi dichiara la fine in qualche modo della letteratura, ed ha senso sia così. Se un secolo fa Proust per capire sé stesso necessitava di anni di riflessioni, oggi con una risonanza magnetica al cervello si riesce ad ottenere una mappa elettrica, chimica, su fredde lastre stampato un resoconto inanimato di quella che un tempo si chiamava anima. I sentimenti? Reazioni chimiche programmate, sperimentate in milioni di anni tra successi ed aborti, pronte ad ottenere in noi quell’eccesso di efficacia o di effetti collaterali che una volta si chiamava pazzia.

Tutto questo Parente, che si spaccia per un “fu” biologo ne L’inumano, lo sa, lo dice, senza remore, lo spiattella insieme alle imprescindibili defecazioni orali in ogni pagina del volume, senza riguardo per il lettore, amico o fratello perduto, di una razza a cui più non si appartiene. Già. Anche il senso di impresa collettiva della letteratura viene oggi giorno meno, come si evince –forzando una metafora – nell’attribuita insensatezza dei premi letterari. La stessa etologia di un Lorentz che pure dava una qualche missione alla specie, oggi sembra superata, irreversibilmente. La chimica è all’origine della biologia, non si scappa. All’origine dell’organico c’è l’inorganico, il grande nulla che tutto avvolge, l’entropia cosmica che tutto rischiara e tutto condanna, poiché non c’è un oltre, e nient’altro da scrivere. È questo il punto. Il cerchio si chiude davvero.

Heidegger dice che la filosofia ha la sua fine e il suo compimento nella scienza. Rorty (nostalgico paroliere) sostiene al contrario che la filosofia continua con la creazione di nuovi codici linguistici nella letteratura. “Ma”, c’è un ma epistemologico: ovvero, uno di questi linguaggi, quello scientifico, appunto, come già cercarono di dire – con scarsi risultati, prendendo alla lettera il primo Wittgenstein – i viennesi di inizio Novecento è privilegiato rispetto agli altri, heideggerianamente (e qui faccio un salto che molti heideggeriani – brutta gente – non approverebbero), il linguaggio della scienza è quello che più mette l’uomo in ascolto delle cose “prossime” (avrebbe detto Nietzsche ).

Se la letteratura sa, capisce, comprende questo, ha poco da dire: o si rende davvero cerchio autoreferenziale, per cui Tizio scrive per chiosare Caio, e tutto il baraccone si erge come costruzione autonoma che non vuole dire l’uomo, ma vuole ergersi a biblioteca della sua storia – mi viene in mente il Giuoco delle perle di vetro, ad esempio –, testimonianza del suo tempo sulla terra, o solo come specchio contemporaneo del tempo terrestre, ovvero intrattenimento.

Le storie confluite nell’Iliade erano strumento di svago della giovane umanità omerica, ed oggi, la letteratura, strumento un tempo di conoscenza del cuore dell’uomo, incalzata dai “cardiologi”, forse, deve rassegnarsi ad essere quella che è sempre stata: intrattenimento appunto, qualcosa da fare perché il proprio tempo non sembri perso, con la differenza che i pastori greci, credevano davvero ai prodigi di Atena ed Achille, e noi, in modo forse un po’ patetico, ci sforziamo di credere ancora in qualcosa di analogo, o forse ci crediamo ancora e ci sforziamo di non credere. O, semplicemente, prosasticamente, la scrittura è solo un mestiere. Come un altro. Come qualunque altro, con un suo sindacato, appunto, la storia della letteratura, e l’evoluzione della narrazione e dello stile.

Epimenide regna sovrano.

The Light Carrier

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