Storia commentata del mio agosto critico, letta (probabilmente misletta)[1] assecondando una vicenda di contemporaneo para-eroismo, divisa in punti per una più facile consultazione

«È una parola.» ho pensato mentre cercavo di capire cosa cazzo mi stesse chiedendo Luca Mignola. «Ma poi sai che noia.» ho pensato mentre chiedevo a Luca cosa cazzo intendesse con «Perché non scrivi un articolo sulla critica?».
Un articolo sulla critica. Dunque.

L’aver dedicato il mese di agosto alla lettura intensiva di un pugno di libri di critica più o meno letteraria, invece di comprarmi un coso per scattare foto subacquee e far ammirare al variegato e attento popolo di Facebook quanto siano meravigliosi i meravigliosi fondali sabbiosi di Agropoli (Sa) o me stesso che nuotavo, di tanto in tanto, tra i meravigliosi suddetti fondali sabbiosi di Agropoli (Sa) o i tramonti, il gelato, il gatto sul balcone, il padre che bacia il bambino, la buccia di banana abbandonata e filtrata col bianco e nero, un altro bambino con le ginocchia sbucciate che piange in Agropoli (Sa), davvero, dicevo, la lettura di questa roba non mi autorizza ad ammorbare la povera gente che ho tra i contatti con uno scritto che la articoli in un percorso tirato per i piedi né a rompermi la testa cercando di tracciarlo. Troppo complicato, troppa fatica, troppo poco tempo. E poi sono troppo preso, da un paio di giorni a questa parte, a osservare gli sviluppi della vicenda di CasaPound a Castano Primo. In sostanza Gianluca Iannone fa chiedere, mediante un anonimo (nel senso di non direttamente associabile a CasaPound) prestanome, l’autorizzazione al sindaco di Castano Primo, nel Milanese, per organizzare un raduno in cui si parli di sport. Viene fuori che, nel raduno, per “sport” si intenderà, più o meno, la caccia all’immigrato e al ricchione e quindi autorizzazione negata. Iannone si impunta e autorizza i suoi ragazzetti a montare comunque baracca e burattini e ora io non sto nella pelle, devo vedere lo scontro, devo vedere Iannone che, novello centauro, si butta nella mischia urlando con tutto il fiato che ha in corpo e fracassando caschi, teste e facce. Sai che bello, Iannone in una mischia? Iannone è ipnotico, ragazzi, poco da fare. Cercatene qualche immagine. Osservatene lo sguardo in quella foto in bianco e nero, mentre guarda dritto nell’obiettivo, senza paura. Iannone potrebbe demolire un centro sociale con tutti i fessi che ci cantano dentro Bella ciao e io nemmeno l’ho mai sentito alzare la voce. E sì che è un fascistone, insomma, nel mio immaginario i fascistoni sono tutti rutti, peti ed errori di prospettiva storica che un linguaggio molto limitato non aiuta a raddrizzare. E invece Iannone sa argomentare le sue convinzioni sbagliate con toni pacati, con un certo eloquio, con voce ferma e gentile e uno sguardo sincero. Che fenomeno, Iannone. Anche il cognome, “Iannone”. Gianluca Iannone. Pronunciatelo ad alta voce. Gianluca Iannone. Nome di una certa importanza, alquanto altisonante, no? Poi una barba da uomo d’altri tempi, Iannone, mica come le barbe dei giovani indie che infestano l’Occidente da qualche anno a questa parte. Non c’è potenza in quelle barbe, non c’è costruzione, solo pigrizia e vanità, un “lasciamola crescere” che si potrebbe applicare ugualmente alla polvere o alla muffa sulla ricotta abbandonata nel frigo ma che poi viene coccolata, resa indice vezzoso di personalità. La barba di Iannone, invece, deve avere la consistenza di setole di ferro e si vede che se l’è fatta crescere con metodo, pazienza, giorno dopo giorno, consapevolmente, filosoficamente. Significa qualcosa, quella barba, detta delle coordinate, omaggia il passato convinta della luminosità del futuro e ora quella barba è pronta a sporcarsi del sangue di chi vorrà impedire a Iannone di esercitare  «l’Articolo 19, l’Articolo 21, l’Articolo 29». Iannone vuole afferrare due fricchettoni e picchiarci un intero blindato della polizia cantando Faccetta nera, gli occhi sinceri e pacati stravolti dalla follia omicida, il sorriso, represso da tutta la vita, stampato sulla faccia spartana. Lo si intuisce, quel ribollire, ascoltando i toni ancora sommessi con cui invita i dissidenti a «partecipare» alla manifestazione «che si farà comunque» e io davvero non sto nella pelle, altro che articolo sulla critica.

Ma poi questo pezzo sulla critica, insomma, io sono uno studioso di letteratura e ho passato agosto a leggere critica per un motivo preciso: avevo accumulato una serie di libri che per un motivo o per l’altro trovavo interessanti e il primo capitolo della tesi di dottorato, al momento, è fermo nella casella mail della mia tutor e non mi azzardo a scrivere una pagina oltre le 113 che impietosamente ho inviato a fine luglio prima che mi si dica che è tutto a posto. E così ho pensato che non potevo far male a recuperare, finalmente, la lettura di un po’ di testi accumulati nel tempo e mai ancora aperti e rimpolpare la bibliografia della tesi, anche per non annoiarmi a tal punto da dover comprare davvero il coso di cui sopra e scattare fotografie subacquee. Letture tutto sommato, nel loro insieme, senza né capo né coda, se non l’essere vagamente attuali e vagamente riguardanti la letteratura.

Non riesco a togliermi dalla testa l’immagine di Iannone che attende, affilando i suoi fricchettoni, l’arrivo dei blindati e l’inizio della battaglia, eppure non voglio scontentare l’amico Mignola; tenterò quindi di fare un elenco commentato delle mie ultime incursioni nel mondo della speculazione, a partire dal

  • Primo Libro Che Ho Letto Nel Mese Di Agosto:

Guido Mazzoni, I destini generali, Bari, Laterza, 2015.

«Negli ultimi cinquant’anni la vita psichica delle masse occidentali ha subito una metamorfosi senza precedenti; tutti noi ne siamo stati trasformati e travolti» (Mazzoni 2015, p. 9), scrive Mazzoni, e continua: «oggi le società dove vige la forma di vita occidentale, se viste dall’esterno,  con lo sguardo di un osservatore distante o di un nemico, possono sembrare dei blocchi compatti. L’unico avversario globale di questo modello, il fondamentalismo islamico, ce lo ricorda ogni giorno» (Mazzoni 2015, pp. 10-11).

Aspettate un attimo.

Le pupille di Gianluca Iannone si restringono, la serotonina si abbassa, i vasi sanguigni si gonfiano e la testa comincia a pulsare. Lo vede il travolgimento delle masse occidentali, avverte il cambiamento nella vita psichica. Sente attorno a sé il blocco compatto dell’Occidente e attorno all’Occidente i radicali liberi islamici. Sente tutta la massa elettrica della costrizione, lì, nella tensostruttura scomunicata già prima di essere messa in piedi, adibita a punto d’incontro. Continua ad attendere, Iannone. E altro arriva: «la forma di vita contemporanea sacrifica i vincoli al piacere, separa le persone le une dalle altre, le divide al loro interno» (Mazzoni 2015,  p. 16). Gli occhi gli si riempiono di lacrime. Prende uno dei due fricchettoni che gli giacciono ai lati. Ne osserva i rasta, la maglietta con falce e martello. Lo scuote e quello caccia un lamento, una specie di pigolio. Dalla tasca gli cade uno spinello grosso quanto quelle bombolette piccole di spray contro le zanzare. Iannone riprende ad affilarlo.

Il più radicale dei passaggi che segnano l’inizio dell’epoca moderna – secondo Mazzoni – è la crisi delle favole collettive che garantivano una risposta pubblica alle domande «perché?», «a che scopo?», la fine degli apparati mitologici che consolavano gli individui promettendo ricompense, disciplinando la tentazione all’indisciplina e giustificando il dolore, il nulla che rimane. Il primo effetto di questa crisi è la presenza latente della morte nella vita psichica contemporanea. Dopo la crisi degli antichi dèi, la morte dà forma al paesaggio delle giornate occidentali: benché venga di continuo nascosta da altre immagini, di fatto resta sempre là, […] «come un rumore di fondo che si insinua […] man mano che i progetti e i desideri vanno sfumando» (Mazzoni 2015, pp. 44-45).

Mazzoni, en passant, riflette sulla cosiddetta “fine delle metanarrazioni” (cfr. J.-F. Lyotard 2012), concetto chiave dal quale hanno preso il via molte delle istanze su cui il postmoderno ha costruito la sua estetica e che consiste, in soldoni, nel crollo di certezze riguardo a concetti ritenuti fondamentali come “giusto”, “vero”, etc.; ciò porta, per il critico, a un vivere ambivalente e medio, del tutto superficiale, non più soddisfacente qualora gli si chieda di definirsi e definire il mondo:

La vita quotidiana è il regno del politeismo morbido, del buon senso, del progressismo o del conservatorismo medi: poggia sulle stesse contraddizioni che danno luogo a una visione tragica, ma evita sistematicamente di farle esplodere, perché alla fine vivere significa conservare una forma di miopia, di ottusità, ed evitare di interrogarsi fino in fondo sulle cose ultime, quelle che rinviano a domande cui non c’è risposta, o a conflitti insolubili nei quali molti dei litiganti o molti lati del problema hanno una parte di ragione; e anche quando uno di questi lati cede e viene meno, il cedimento non rimanda ad alcuna giustizia superiore, ma al gioco del caso o a una necessità esterna e cieca (Mazzoni 2015, pp. 61-62).

Iannone, ora perso nell’idea di Dio, pensa proprio a questo, con orrore: «Il Dio che muore non è il feticcio cui molti si attaccano quando vedono l’insensatezza di tutto e ne hanno paura (quel feticcio è inciso nel profondo, esisterà sempre); è invece il Dio dei comandamenti, l’istanza che pretendeva di regolare la vita quotidiana con le tavole della propria legge» (Mazzoni 2015, p. 62). Sente il rumore di qualcosa di metallico che cade a terra, poi una bestemmia. I suoi ragazzi non hanno alcuna idea di quello che potrebbe aspettarli.

  • Secondo Libro Che Ho Letto Nel Mese Di Agosto:

Giuseppe Panella, Riccardo Gramantieri, Ipotesi di complotto. Paranoia e delirio narrativo nella letteratura americana del Novecento, Chieti, Solfanelli, 2012.

La superficialità postmoderna comporta, tra l’altro, la perdita dell’idea forte del Nemico. Iannone non ci crede, se non nella misura in cui il nemico è meno scoperto, agisce in maniera più subdola, nascosta. È diventato più infido e astuto, ma c’è, eccome, e trama nell’ombra:

“complotto” non è soltanto da intendersi nel significato corrente (“Organizzazione di una trama delittuosa ai danni di persone o istituzioni, Congiura” […] ), ma anche di un’intenzione sottaciuta. Nel senso più ampio di volontà nascosta che determina un’azione o delinea un progetto. Insomma, una logica cosciente (cfr. C. Bordoni, cit. in Panella, Gramantieri 2012, pp. 5-6).

È chiaro che Iannone è ormai consapevole, sprofondato nella solitudine che è dei grandi condottieri e nello «stile paranoide» di cui ha ampiamente parlato  Richard J. Hofstadter[2], della cospirazione che gli fermenta intorno e sempre più lo isola, uomo barbuto e forte, uomo giusto circondato dal tradimento in un mondo sempre più privo di certezze, sempre più liquido – gli viene in mente un sintagma che non comprende e non ha mai sentito ma che potrebbe rappresentare un nome e un cognome, probabilmente di un comunista, di sicuro di un Nemico. Lo ripete tra sé e sé, come un mantra, come il nome del prossimo uomo che vorrebbe uccidere: «Zygmunt Bauman. Zygmunt Bauman».

L’idea del complotto come sostanza sotterranea della vita sociale e politica è tipica di una cultura paranoica in cui ciò che appare non sembra coincidere mai con quello che si vede avvenire. L’idea di fondo è che siano sempre all’opera delle “entità” mai ben identificabili ma definite di volta in volta a seconda delle situazioni in atto, quelle che poi producono una Realtà il cui volto “vero” probabilmente non si arriverà mai a scoprire (Panella, Gramantieri 2012, p. 14).

Ha prove, l’Aiace Iannone, per dimostrare che gli si sta impedendo di disinformare con malizia e prepotenza? No, non ne ha: «La mancanza assoluta di prove è la garanzia della verità assoluta del complotto» (Panella, Gramantieri 2012, p. 20) ed egli è ormai consapevole «dell’ampiezza e della natura enormemente ramificata della congiura stessa: una tela di ragno diffusa e apparentemente impalpabile quanto inestirpabile» (Panella, Gramantieri 2012, p. 39). Col cazzo che ci crede alla fine delle metanarrazioni. Le metanarrazioni ci sono eccome. Molla un calcio al rastaman accovacciato alla sua destra e quello urla come una gallina, un «co-coo!» strozzato e infantile. Ci sono un sacco di metanarrazioni in giro, pensa Iannone, la loro presunta morte discende da una logica di deriva decostruzionista che siamo qui per contrastare. Questo ci porta al

  • Terzo Libro Che Ho Letto Nel Mese Di Agosto:

Romano Luperini, La fine del postmoderno, Napoli, Guida, 2008.

Iannone avverte il peso di tutta la leggerezza, della mancanza di posizioni nette, di capacità di schierarsi, di coraggio. Seduto in disparte nella struttura che i suoi ragazzi vanno mettendo in piedi, il leader barbuto riconosce la pigra comodità di simili schieramenti antiideologici. Romano Luperini, dal canto suo, scrive:

Ciò che nella realtà sta riproponendosi è quel principio di contraddizione che il postmoderno aveva decretato morto e seppellito. Ed è da qui, dunque, che bisogna ripartire. Dall’insufficienza della logica della giustapposizione, della differenza e del meticciato, e anche della “superficialità” e della leggerezza, che ha caratterizzato il postmoderno, e dalla ricomparsa di logiche “pesanti”, contrastive o contrappuntistiche […] (Luperini 2008, p. 8).

Ora, su particolari come evitare le giustapposizioni e le differenze Iannone sente di non essere d’accordo e anche il “meticciato” gli pare una possibilità per molti versi aberrante, ma come non concordare sulla ripartenza, sul mandare affanculo la leggerezza, sul salutare con gioia l’avvento nuovo di «logiche “pesanti”, contrastive o contrappuntistiche»? Iannone riflette su come, probabilmente, la critica letteraria e sociologica si sia soffermata anche troppo su falsi problemi come collocazione e denominazione e che probabilmente il cosiddetto “postmoderno” è tutt’altro che un periodo “nuovo”, piuttosto un deterioramento della modernità in termini di gioco, di insufficienza caratteriale, di mancanza di polso, di anything goes. Sono necessari nuovi paradigmi che ci facciano superare la tragedia del tramonto di quelli vecchi.

L’altro ci assedia. Anzitutto la letteratura è assediata dall’universo tecnologico e dall’imperialismo della comunicazione televisiva ed elettronica, dall’universo dei linguaggi pubblicitari e utilitaristici. […] Nello stesso tempo, la globalizzazione ci porta a contatto con un mondo multiculturale, con religioni e civiltà diverse dalla nostra, con vere e proprie invasioni di popoli che premono ai nostri confini spinti dalla fame, dalla miseria e dalla guerra o come immigrati già frequentano le nostre scuole portandovi culture ed esigenze estranee al costume e alla mentalità occidentale (Luperini 2008, p. 56).

Dove cazzo mai andremo a finire, pensa Iannone, e la bocca gli si arriccia per il disgusto. Tutto questo non può che radicare il guerriero nelle sue convinzioni e nella sua fatale attesa. La realtà si è smaterializzata in una serie orizzontale di opinioni: niente più gerarchia, nessuna verticalità, nessuna forza individuale. La democrazia è ridotta a una maschera e comunque Iannone non ha le prove che sia la forma di governo migliore per un Paese. Il peso del complotto democratico occidentale lo schiaccia, il peso del capitalismo, unico blocco ancora compatto e apparentemente inespugnabile se non, forse, con la lotta armata di un Popolo nuovo, vuole schiacciarlo. «Ogni educazione presuppone una utopia, la esige (Luperini 2008, p. 63).» L’opinionismo becero del presente ha annullato ogni volontà di resistenza all’ondata del nuovo senza misura, ma gli eventi degli ultimi anni hanno dimostrato come le teorie linguistiche, gli intellettualismi radicali, gente come Italo Calvino, Gilles Deleuze, Felix Guattari, Jean Baudrillard si sbagliavano. Prendete l’11 settembre 2001 e provate a convincere Gianluca Iannone che il mondo è tutto linguaggio e che il virtuale ha preso il sopravvento sul reale. Provate a parlare di “leggerezza” a Khaled al Asaad, il custode di Palmira decapitato e appeso a una colonna dell’antica città. Ciò che si deve recuperare, secondo il guerriero barbuto, è il senso della propria posizione nel mondo, per ripartire da lì, sicuri delle proprie origini, se non altro. Da ciò, il

  • Quarto Libro Che Ho Letto Nel Mese Di Agosto:

Emiliano Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a Ballard, Roma, Meltemi, 2005.

Cosa significa ritrovare la posizione, allora? Non una semplice operazione di rinominazione, non un’altra etichetta, si augura Iannone. Non un altro “post”, men che meno un “iper”[3]; per deformazione calcistica, tutto sommato, a Iannone non dispiacerebbe un “ultra”, ma il guerriero non vuole che la propria soggettività, postmodernamente, infici la ricercata oggettività del progetto e del rinnovamento mondiale portato avanti tra sacrifici e infamie. Non vuol essere lui stesso mortifero esecutore dell’ennesimo colpo basso alla fragile costruzione di un nuovo sistema  di percezione e azione, non vuole sventolare la bandiera di una denominazione inconsistente, velleitaria, arrogante. Quindi, niente “ultra”. Bisogna affilare il proprio bagaglio concettuale e retorico, ripartire dai luoghi di ritrovo, attaccarsi alla tradizione alla faccia di Romano Luperini, boicottare la perdita di appartenenza, ricostituire la fisicità dei siti a discapito della virtualità, aiutarsi anche, perché no, con la letteratura:

Questa potrebbe essere oggi la funzione del romanzo: aiutare l’individuo a recuperare il senso della posizione nel momento in cui si muove tra livelli di realtà differenti e mostrargli che questo transito a volte può assumere le forme di una passeggiata postmoderna, a volte di un nomadismo digitale, altre volte del conflitto; aiutarlo a contestualizzare sempre la sua immaginazione e domanda di libertà; a riconoscere i differenti contesti e a capire chi li governa; insegnargli a surfare attraverso diversi livelli di realtà e soggettività, a cavalcare le onde dei flussi contemporanei, a dominarle, in quanto gli permette di prendere coscienza di che tipo di onda si tratta. Quante forme di soggettività occorrono dunque per sopravvivere nel mondo attuale? (Ilardi 2005, p. 25)

Fin troppe, secondo Iannone, e il problema è proprio questo. Laddove non esiste più uno spazio sociale, è saltata completamente la possibilità di agire sul presente; il singolo è stato ridotto a entità inutile e monologante, la collettività è un’utopia: «Lo spazio sociale ha cessato ormai da tempo di essere un puro prodotto delle istituzioni: è spazio del consumo, spazio mediatico (mediascape), spazio etnico (ethnoscape), spazio istituzionale, spazio finanziario (finanscape), spazio dell’immaginazione, spazio della paura, spazio della sicurezza» (Ilardi 2005, p. 25).

Iannone si esalta quando le parole scritte da Ilardi gli arrivano nel cervello da chissà dove. Ormai la comunicazione è aperta e Iannone è un fascio di muscoli teso a ricevere informazioni e idee per lui freschissime, è stato contaminato, prescelto, è stato toccato da qualcosa che non capisce ma è attento, ricettivo, è l’uomo giusto, è lì per ascoltare, ha perfino dimenticato i blindati e i fricchettoni, nella sua testa si accumulano questioni fondamentali alla ricostruzione, al ristabilimento di punti fermi. Iannone è invaso da questa complessità ordinata, dal  meccanismo perfetto della visione dei luoghi da riformare, a partire dalle città del Paese, sempre più spersonalizzate, prive di radici culturali e, per certi versi, asettiche:

Non si può proclamare la vittoria della città dei non-luoghi […] passeggiando esclusivamente per un aeroporto, perdendosi in un centro commerciale, correndo su un’autostrada o navigando nel web. La città può non avere luoghi ma […] può avere confini, barriere, mura, telecamere che riformano il luogo su principi diversi e che non scompaiono modificando semplicemente il nostro modo di percepirli o esperirli. Il problema non è più quello di costruire metropoli fantastiche fatte di ibridismi e sincretismi, visto che questo già lo fanno media e mercato, ma piuttosto evidenziare ciò che nella metropoli resiste alle ibridazioni e ai sincretismi, ai flussi e alle polifonie. Mostrare il cortocircuito che si produce quando spazio dei flussi e spazio dei luoghi si toccano (Ilardi 2005, p. 26).

«Mostrare il cortocircuito», pensa Iannone mentre la prima scarica di convulsioni lo investe e cade dalla sedia, muovendosi a scatti sul pavimento ghiaioso della tensostruttura e sbavando, come un burattino stranamente capace di salivare.

  • Quinto Libro Che Ho Letto Nel Mese Di Agosto:

Daniele Giglioli, Stato di minorità (edizione digitale), Bari, Laterza, 2015.

Giglioli apre il suo discorso all’insegna dello sconforto in cui ‘la condizione postmoderna’, ormai da molti, compreso Iannone, considerata parte di un passato da dimenticare, ha sprofondato chiunque si metta a riflettere sul presente:

All’interrogazione tra euforica e angosciosa che ha dominato il postmoderno – ma esisterà poi davvero quella cosa che chiamiamo realtà? – ha dato oggi il cambio una risposta sconfortata: la realtà esiste e io ne so qualcosa. Ne avverto tutto il peso, solo non riesco a farci granché, per non dire nulla, col dubbio semmai se non sia io a non esistere davvero, a non esistere cioè in modo significativo. Che io ci sia o non ci sia è del tutto ininfluente. Altri agiscono, altri decidono. Wall Street, Bruxelles, il rating, gli algoritmi. I terroristi, le intelligence, i grandi network. Paura che si trasforma in desiderio nell’aspirazione indotta ma sincera a un demiurgo, a un leader carismatico: qualcuno che decida, almeno lui, e fa lo stesso se non è né una realtà né un simbolo (un rappresentante), ma un simulacro e peggio ancora un surrogato (Giglioli 2015, p. 7).

Iannone si risveglia su una branda improvvisata nella tensostruttura e si rende subito conto che i due fricchettoni non ci sono più. È circondato dai suoi ragazzetti pelati e vestiti di nero. Alza la mano destra, apre la bocca, aspetta che un suono fuoriesca, un segno della verità che continua a inondarlo, scossa dopo scossa. Sui ragazzetti cala un silenzio religioso. Le parole di Giglioli sono pronunciate a fatica, ma chiaramente: «Quanto più una società è vitale, tanto più è in grado di rendere produttive le sue contraddizioni; quanto più è inerte, incattivita, assillata dal timore di perdere la sua «identità», tanto più le neutralizza nello sterile dibattito delle opinioni o le demonizza nella forma dello scontro» (Giglioli 2015, p. 37). I ragazzetti si guardano tra loro, intontiti, non capendo di cosa il loro leader stia parlando. Iannone si siede sulla branda, «Andate via da qui, devo pensare», dice. «Trovatemi altri due fricchettoni, prendeteli dal presidio antifascista, lì fuori.» Mentre i giovani camerata si disperdono a occhi bassi, Iannone riflette su come, di fatto, siamo tutti figli di un trauma e su come la morte, spauracchio che da sempre l’uomo tenta di esorcizzare con mitologie, religioni, arte, gesti folli o folli conquiste risulta, di fatto, il trauma insuperabile per eccellenza. Per questo è necessario, per provare a fottere la morte, non averne paura, lasciarla scorrere liberamente nelle vene, accoglierla.

Chi cerca di immunizzarsi dall’inevitabile ottiene solo di introiettare ciò che teme. Inevitabili sono molte cose: il caso, la vecchiaia, la malattia, la morte, c’è chi dice anche l’infelicità amorosa. La psicoanalisi ha parlato perfino di un trauma della nascita. Nessuna politica, ha scritto Franco Fortini, per quanto si sforzi di rendere «meno fatale il disordine e meno insensata la morte», potrà mai avere ragione dei «limiti oscuri» della condizione umana. L’elemento traumatico è di per sé inestirpabile (Giglioli 2015, p. 38).

Si può allora parlare di “soluzione”? E quale potrebbe essere una giusta soluzione? E soluzione a cosa? Non certo alla morte, forse solo alla sensazione di non riuscire a ingannarla abbastanza bene. Iannone non sa dirlo, ma all’immobilità di un nichilismo debole o addirittura di un “pensiero debole” (Vattimo, Rovatti 1983) preferisce il movimento, la lotta, e crede che anche Giglioli sia dalla sua parte. Tra sé e sé pronuncia, scandendo bene le parole, come a volersene convincere: «Il prezzo dell’ideologia della concordia è la paralisi, la cecità di chi non vuol vedere quanto ogni concordia sia solo il predominio di una parte» (Giglioli 2015, p. 72). Ma è giusto, si chiede ancora, provare a realizzare un’utopia per sfuggire al presente? Ha senso combattere l’Altro, se l’Altro è sempre e comunque in ognuno di noi, se l’Altro è la morte cui non possiamo sfuggire?

Bandire la violenza dalla Storia è un sogno edenico, un sussulto prenatale. Politica è anche scontrarsi con la brutale evidenza che gli altri non sono sempre ansiosi di cooperare con noi, e rappresentano in molti casi un ostacolo, una cieca e irredenta mole di desideri e progetti incompatibili con i nostri. Non c’è pensiero se non quello che si sforza di rendere produttivo il negativo (Giglioli 2015, p. 75).

Iannone ora vuole i blindati, vuole che il presidio antifascista si riversi nella tensostruttura, vuole, in una parola, riportare il mondo all’origine con la violenza di un big bang. Rendere produttivo il negativo. Rendere produttivo il negativo.

  • Sesto Libro Che Ho Letto Nel Mese Di Agosto:

Carla Benedetti, Disumane lettere. Indagini sulla cultura della nostra epoca, Roma-Bari, Laterza, 2011.

Questo è un testo che si pone in maniera interessante nel panorama della litigiosa critica italiana e, a sua volta, non evita affatto la polemica. A proposito voglio riportare uno scambio di messaggi avuti con lo scrittore Massimiliano Parente:

AP: «[Ho apprezzato] Disumane lettere (non tutto, ma è un saggio intelligente e sincero, tra l’altro in rotta con la critica—e, en passant, loda La macinatrice).»
MP: «Di Carla Benedetti c’è anche Il tradimento dei critici, è la pars construens che non va, tutta impelagata in un sociologismo politico così banale da mettere i brividi (lei è quella del “genocidio di specie”). Una volta mi disse che bisognava sostituire il termine “letteratura” perché troppo “gerarchico” (una fissazione egualitaria che condivide con Moresco). Le chiesi con cosa, e lei rispose “La forza”, e purtroppo non nel senso di Obi Wan Kenobi.»
AP: «Con “La forza” mi si è visualizzato in mente un enorme “WTF”. Di Carla Benedetti è proprio la finalità che non riesce a convincermi, questo voler investire la ‘buona letteratura’ e la ‘buona critica’ di poteri quasi metafisici che potrebbero risollevare le sorti dell’umanità (cfr. Ferroni, con cui pure è entrata in polemica). Però, insomma, ne apprezzo il fatto che sia fuori dagli schemi e aperta al nuovo.»
MP: «Secondo me il problema è che è fuori dagli schemi degli altri e dentro i suoi che sono uguali a quelli degli altri con la differenza di essere polemica con gli altri.»

Iannone concorda però in pieno con la Benedetti quando si scaglia contro la relativizzazione, tra l’altro, dei concetti di bene e male, anche se non sta lì a soffermarsi su tutta la fuffa a proposito dei «limiti di specie» o dell’«esperimento di specie», lui che è un uomo pragmatico e raramente pensa alla specie se non in termini di popoli e idee contrapposti fra cui mettere ordine. La biologia è tutto sommato ordinata ed equa, per Iannone, uguale per tutti, con poco da poter modificare, se si esclude come il progresso scientifico sia in grado di allungare la vita di qualche anno. È il contorno a dover essere piegato alla volontà, l’elemento su cui vale la pena agire prima di diventare, davvero, uguali.

Lo sguardo che capitola sotto l’idea di una necessità storica è presente in varie forme nel pensiero moderno occidentale: dallo storicismo dialettico al marxismo, fino alle riflessioni sulla cosiddetta «postmodernità». […] L’idea del male è stata tolta. Quindi anche quella di un bene. Tutto è relativizzato. L’assoluto è abolito. E così anche l’idea che vi sia qualcosa di inaccettabile (Benedetti 2011, p. 54).

Altra scarica di convulsioni. I cento chili impazziti di Iannone sussultano come se la branda, improvvisamente, scottasse ed è un miracolo se il lettino improvvisato non si capovolge, facendo rovinare, per la seconda volta, il grande leader per terra. Quando riapre gli occhi, attorno a sé ha di nuovo i suoi ragazzi, che non riescono più a nascondere la preoccupazione. «I tuoi fricchettoni, capo. Già affilati.» dice uno, e spinge avanti a lui due comunisti legati a un doppio guinzaglio. C’è uno spilungone magro con addosso una t-shirt rossa raffigurante Peter Griffin in versione Che Guevara e un tipo basso e grasso, con pantaloni e camicia militari color cachi, i capelli nerissimi e unti tagliati a scodella e un baffetto a spazzolino, un po’ storto. A Iannone ricordano degli Stanlio e Ollio postmoderni. «Vi ci vorrebbero delle bombette», pensa ad alta voce e i due si guardano, spaventati, incerti. «La “fase” che stiamo vivendo – continua Iannone senza scomporsi – appare sospesa sulla contingenza di un tempo paurosamente aperto. È uno spaesamento temporale che da un lato provoca vertigine e disagio, dall’altro però è fertile e liberatorio (Benedetti 2011, p. 61).» I nerovestiti si guardano gli stivaletti borchiati, in imbarazzo, dal gruppo si sente levarsi, sottovoce, la stessa bestemmia di prima. Il ciccione vestito cachi comincia a piangere, le guance piene gli si bagnano di lacrimoni da bambino, sembra davvero Ollio che piange dopo aver preso una martellata in testa o essere caduto in una buca. Dalla bocca gli escono dei «Boo-hoo» perfettamente caricaturali, piccoli capolavori di arte mimica. «Ma il problema – continua Iannone guardando fisso il ciccione – è che informazione e verità non sono la stessa cosa. L’informazione può arrivare senza alcuna forza di verità, e così mutarsi in opinione (Benedetti 2011, p. 122).» Il ciccione ora è disperato, non si capisce se per la paura o perché anche lui, come Iannone, è stato illuminato sulla drammatica verità della perdita di ogni certezza. «Non piangere.» gli dice il grande leader. «Non piangere.»

  • Settimo Libro Che Ho Letto Nel Mese Di Agosto

Stefano Tani, Lo schermo, l’Alzheimer, lo zombie. Tre metafore del XXI secolo, Verona, ombre corte, 2014.

Iannone non ha paura del silenzio né della morte. Il vuoto che ci attende lui lo attende con gioia.

Il silenzio è uno dei grandi reietti della modernità liquida: crivellato da musica e schermi accesi in qualunque luogo pubblico si vada, non può esistere perché la paura del nulla è insopportabile. Più aumentano i mezzi che diminuiscono e quasi azzerano i tempi di risposta (email, chat, sms), più il silenzio di chi non risponde diviene un’offesa all’identità di chi ha scritto, una negazione dell’altro che prima si misurava sui tempi delle poste, dei francobolli umettati e delle lettere imbucate sospirando (Tani 2014, p. 44).

Tani, autore di almeno un paio di testi importanti che mi sono ripromesso di recuperare (cfr. Tani 1984 e 1990) e leggere, pare essere uno dei cosiddetti “apocalittici”, tra cui andrebbe annoverato anche Giulio Ferroni (Ferroni 1996 e 2010), i quali simbolizzano l’era (post)moderna con metafore di tipo patologico o funerario:

Si potrebbe […] azzardare che l’Alzheimer sia la metafora dell’era postmoderna: non più affinamento o invasione, ma evacuazione dell’io da un corpo bombardato per tutta la vita da una quantità di informazioni e richieste straordinarie per intensità e per numero rispetto a quelle presentate agli esponenti delle generazioni precedenti (Tani 2014, p. 66).

La critica letteraria, riflette il guerriero dalla barba di ferro, ha preso atto di una sconfitta perpetuata dall’uomo all’uomo. L’Occidente capitalista e l’Oriente talebano sono i lati diversi della stessa medaglia placcata di cancrena e barbarie. Ma l’Apocalisse, l’Alzheimer, l’ebbrezza del gioco, i decostruzionismi e tutti gli altri inconsistenti cerebralismi con cui alcuni si riempiono quotidianamente la bocca sono solo la scusa dell’uomo di lettere per non agire, per abbandonarsi alla sua ignavia senza dignità, a una inetta volontà di abulia. Il futuro, pensa Iannone, si può ancora scrivere, miei cari anziani. Il passato può tornare ad essere glorioso, riproponendosi aggiornato, potenziato. All’interno della tensostruttura, adesso, è solo. Dall’esterno sente arrivare le voci agitate dei nerovestiti, alcuni comandi dei più alti in grado ai sottoposti, gli ordini dello schieramento. Iannone intuisce che i blindati stanno arrivando. Si alza dalla branda. Il mondo ha acquisito nuovo significato, la sua battaglia personale è vivificata da un’energia intellettuale inedita. Iannone afferra il fricchettone magro con la maglietta di Peter Griffin in versione Che Guevara e quello grasso coi baffetti e i capelli unti a scodella, che ora non piange più, uno con la mano sinistra e uno con la destra. I fricchettoni, riflettendo la luce del sole che entra dall’esterno, emanano bagliori luminosi nel padiglione. Iannone li brandisce e alza gli occhi, fissando l’uscita piena di luce. Il rumore delle camionette ora è forte, manca pochissimo. Resta fermo ancora un attimo, poi si avvia lentamente verso l’uscita.

È pronto.


[1] http://www.testualecritica.it/43–44-45_Finzi.htm: «Misleggere non è, come si potrebbe credere, un leggere come si crede meglio, spingere il testo verso interpretazioni soggettive, talvolta cervellotiche: ma vuol dire piuttosto leggere compiendo l’arbitrio di interpretare il testo attraverso la scrittura, come lo rappresentano (o lo mistificano) le figure della retorica e quelle dell’emozione, rischiando la lettura trasversale che non parla mai di poesia, bensì di avvicinamenti, di limiti, di rilanci ideologici, semiologici, in questo senso concreti e verificabili.»

[2] «Lo chiamo stile paranoide semplicemente perché nessun’altra parola evoca adeguatamente le qualità del clima di esagerato surriscaldamento degli animi, sospettosità e fantasie cospiratorie che ho in mente. Usando l’espressione stile paranoide, non sto parlando in senso clinico ma prendendo in prestito un termine clinico per altri scopi. […] In effetti, l’idea dello stile paranoide avrebbe una scarsa rilevanza dal punto di vista attuale o poco valore storico se fosse applicata soltanto a persone con menti profondamente disturbate. È l’uso di modelli paranoici di espressione da parte di gente più o meno normale che rende significante il fenomeno. Quando parlo di stile paranoide, uso questo termine nel modo in cui uno storico dell’arte potrebbe parlare dello stile barocco o di quello manierista. È, anzi tutto, un modo di guardare al mondo e di esprimersi riguardo ad esso. […] Nello stile paranoide – come lo concepisco io – la sensazione di essere perseguitati è centrale ed è in realtà resa sistematica attraverso mastodontiche teorie del complotto.» R. J. Hofstadter, cit. in Panella, Gramantieri 2012, p. 13.

[3] Cfr. http://www.allegoriaonline.it/index.php/i-numeri-precedenti/allegoria-n64/486-ipermodernita-ipotesi-per-un-congedo-del-postmoderno.html e R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea (2014).

BIBLIOGRAFIA

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S. Tani, The Doomed Detective. The Contribution of the Detective Novel to Postmodern American and Italian Fiction, Southern Illinois University Press, 1984.
S. Tani , Il romanzo di ritorno. Dal romanzo medio degli anni Sessanta alla giovane narrativa degli anni Ottanta, Milano, Mursia, 1990.
Giulio Ferroni, Dopo la fine. Una letteratura possibile, Roma, Donzelli, 1996 e 2010.
Giulio Ferroni, Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero, Bari, Laterza, 2010.