Angelina chiuse l’acqua calda della doccia e in quell’istante sentì che Adèle le sarebbe mancata con quella stessa intensità, per tutta la vita. Era nuda, infreddolita; quel sentimento le fu subito insostenibile. Cercò frenetica il rubinetto, incerta se concedersi ancora qualche minuto sotto lo scroscio possente. Scostò la tenda di plastica e uscì dalla cabina.
Si strofinò la nuca, le orecchie. L’asciugamano era talmente grande che le bastava per tutto il corpo, solo i piedi gocciolavano ancora sulle piastrelle di formica. Si piegò. Tamponò la pozza che s’allargava dai talloni. S’infilò i jeans e la maglietta. Divise i riccioli con le mani, poi diede un’occhiata veloce allo specchio. Il peccato era ancora là: una scintilla proprio sopra il sopracciglio sinistro. Angelina abbassò la testa. Sullo specchio restò una mezza luna di carne viva: il vetro, scheggiato appena, sembrava ridere di lei.

Fuori Semelo l’attendeva seduto sul sedile anteriore della station wagon dove vivevano da oltre un mese. Il custode del cimitero invece era nella stanza accanto al bagno, impegnato a espugnare la pellicola trasparente di una confezione di cracker. Angelina passò svelta accanto all’uomo, con l’asciugamano sulle spalle e la saponetta chiusa in una contenitore di plastica. Quando fu sulla porta si girò un’ultima volta e lo ringraziò. L’uomo sollevò l’avambraccio, le spalle rimasero immobili.

***

[quattro anni prima]

«Non mi va che ci vai.»
«Lo so, ma ci vado comunque.»
«E restaci poco.»
«Ci resto quanto mi pare.»
«A furia di startene con quella donna figlia mia, finisce che sto peccato non te lo leva più nessuno.»
Gli occhi di sua madre erano bassi sul pavimento, lo guardavano vacui, dicevano che non c’era più nulla da fare. A un tratto le sfuggì un mugolio, e prese a fare no con la testa. Angelina incrociò le braccia all’altezza del petto e cominciò a battere un piede a terra.

«Almeno prima di uscire lavati le mani» sbottò la donna.
«A lei non importa» disse Angelina con la voce più ferma che poté.
Sua madre le rivolse uno sguardo torvo, fece un passo verso di lei e sbatté il canovaccio sul tavolo di legno: «Angelina è a me che importa!»
Le allungò un tubetto di Daivonex iniziato.
«In profumeria ti aspettano per fare i buchi alle orecchie.»
Angelina si sedette sulla cassapanca di legno che intralciava l’ingresso e si infilò le scarpe. Sua madre le voltò le spalle. «Dì le preghiere, Angelì, dì tutte quelle che sai.»

Fare confronti tra  persone è una cosa brutta, almeno quanto generalizzare; ma quando accade, Angelina sa che non può fare altrimenti. Prendi nonna Adèle per esempio. Della vita s’era presa tanto il bene quanto il male, e ora che bene e male parevano mischiarsi, quegli occhi vasti erano invasi dalla calma. Non come sua madre che anno dopo anno aveva preso velocità e a furia di stare dietro alle offerte dei supermarket s’era convinta che il mondo intero fosse lì apposta per fregarla.
Adèle abitava ai cinque ponti, in un palazzo vicino allo svincolo per l’autostrada. Dal balcone triangolare si vedevano gli sbuffi della Maglimat; i panni stesi, grigi, allungati in verticale. Adèle aveva l’odore del piombo e dello zolfo cucito addosso; Angelina quello della canfora degli armadi di sua madre. Si sporgevano entrambe oltre i vasi di coccio appesi nel vuoto. In fondo, nel chiarore di Malpensa, l’orizzonte era una linea che si distingueva a fatica: tratti sghembi nell’arancio del cielo che le cime delle Alpi interrompevano a singhiozzo.
D’estate nonna e nipote si sdraiavano al sole, con il viso riparato dal binario d’ombra della grondaia e il corpo nudo rovinato dallo stesso disegno. A separarle c’era un filo di piastrelle fresche, fine abbastanza perché i gomiti si toccassero. Passavano interi pomeriggi senza dire una parola; finché a maggio le tortore venivano a visitarle e ad Adèle tornava la voglia di abbracciare la nipote e di raccontarle tutte le storie che sapeva, mentre Angelina, in silenzio, l’ascoltava.

Quindici anni lei; di Adèle invece non si poteva dire. Sulla pelle invecchiata aveva il segno del peccato, ed era da lei che Angelina l’aveva ereditato. Il dorso della mano, il polso, il gomito, su per il braccio fino ad arrampicarsi sulla spalla. Le invadeva il collo, s’aggrappava al mento e poi largo sulla pianura dello sterno, s’attorcigliava intorno all’areola del seno.
Erano macchie, croste. Erano pustole imbiancate da un prurito cronico. Era un rossore immondo che Angelina s’era ritrovata sulla pelle, un peccato immeritato che sua madre s’era preso a cuore. Lo combatteva a suon d’invocazioni e non passava giorno senza che Angelina dovesse superare l’esame attento degli occhi di sua madre.
«L’hai lavato?»
«Sì, mamma. Due risciacqui e uno strato di Daivonex.»
«Santo cielo! Aumenta durante la notte. Dev’essere perché preghi male. Il lenzuolo s’è preso l’umore maligno perché c’hai la milza che è una spugna di bile nera.»

Angelina tornava a casa di sua madre di malavoglia, restava da Adèle più del tempo consentito, e quando sua madre chiamava a casa della suocera per sapere se la figlia sarebbe rientrata a dormire, era Adèle a insistere perché Angelina non se ne andasse. Sua madre con Adèle non ci voleva parlare, e si faceva passare Angelina che l’ascoltava senza interromperla. Intanto Adèle con un filo di voce le ripeteva quanto fosse rischioso lasciarla sola, che lei era vecchissima, che esisteva da prima che lei nascesse, che le persone non erano eterne e che se le si lascia sole poi non si sa mai. Sua madre restava in attesa che Angelina dicesse qualcosa, ma Angelina se ne stava stretta tra due voci, e di tanto in tanto si lasciava sfuggire una promessa, di solito quella che sarebbe rientrata a momenti.
Non aveva nemmeno infilato entrambe le maniche della giacca che Adèle subito attaccava con certe avventure di quando era ragazza, quando il peccato doveva ancora venirle. Le raccontava come se fossero appena successe, indugiando su particolari irrilevanti, confondendo Angelina impaziente di andarsene e insieme di sapere.

Era adesso che Nutolo aveva mollato Adèle su un bus notturno al capolinea di Montreuil per una parrucchiera di Château Rouge; era adesso che la casa voluttuosamente affacciata sulla Buttes Chaumont s’era rivelata meta obbligata per le rondini in viaggio; era adesso che le puttane di Saint-Denis le invidiavano quell’accento italiano e benedetto, che lo faceva venire duro subito e con cui si guadagnava in fretta. Una volta in Italia il peccato era tornato. Le aveva ricoperto la faccia e Adèle aveva cercato di levarselo, con una lama fine, ferendosi al labbro e increspandolo per sempre in un sorriso incompleto.

Mentre Adèle le parlava dalle cima delle scale, Angelina la salutava scendendo i gradini di corsa e, frastornata da tutte quelle storie, sentiva il bisogno di un luogo dove ritirarsi. Ma casa non era buona perché c’era sua madre cha la esaminava, «che i peccati sono cose da tenere d’occhio, che se ti vengono da giovane non te li levi più per la vita intera.»
«A Parigi, da giovane, Adèle non ce l’aveva»
«Macché, quella il peccato ce l’ha sempre avuto, Angelì! Il peccato non è mica uno scherzo e se una ci nasce, stai sicura che poco poco ci muore.

Un giorno che al peccato Angelina nemmeno ci pensava, Adèle se ne andò. La portarono su una barella bianca a svernare al camposanto.
Erano gli anni peggiori dell’adolescenza e Angelina aveva appena imparato cosa fosse la noia. A casa di sua madre si grattava di continuo, e le pustole si gonfiavano come le punture di un tafano. Riprese a far confronti, generalizzazioni; a misurare case e genitori, punto a punto, a metter voti in scala da uno a cinque. Pensò alle dimore passate, in qualche modo si preparava ai traslochi a venire.

Ridisegnò la casa di suo padre, con la moquette sparsa per tutto l’appartamento, tale e quale alla tana d’un coniglio: e lei s’era convinta d’aver certe zecche di campagna avvinghiate al fondoschiena. Tempo prima c’era stato l’affitto semestrale presso i Celestini che sua madre aveva ottenuto a furia di firmar carte false alla previdenza sociale; poi, quando l’inganno era stato smascherato, ecco che suo padre se ne era uscito con le graduatorie delle cooperative rosse. Era sopraggiunta l’ennesima casa sconquassata, coabitata per qualche mese da suo padre e tre indiani del Punjab.

Sfruttando l’eco naturale di una volta di cemento, la madre di Angelina s’era decisa a riprendersi l’affido della figlia una volta per tutte. Sono la madre, sono pur sempre la madre, aveva urlato lungo i vicoli del centro storico e un uomo con una bandiera aveva annuito aiutandosi con l’indice. Solo e senza un soldo, il padre di Angelina non aveva resistito un mese; aveva piantato baracca e burattini e s’era infilato dietro alla fortuna (che, tra un sigaro e quell’altro preferiva definire Sudamerica), convinto che a furia di pedinarla, prima o poi quella si sarebbe girata a guardarlo.
Angelina si grattava le pellicine delle unghie e sotto spuntavano delle pustolette sgraziate che a guardarle da vicino avevano qualcosa di piumato. Ogni tanto in sogno le appariva il piano terra di quando era bambina, la portineria del tribunale, il televisore Panasonic galeotto e disertore dell’amore coniugale, e dietro, a occupare l’intera parete, l’affresco di un vaso di gladioli.

Case con l’orto, case senza balconi. Mansarde, mezzanini, bilocali con servizi al piano; e mai il tempo di ambientarsi. Angelina prese a riempirsi di pustole come mai era accaduto prima; sua madre la copriva di scialli e di rimproveri per sublimare la vergogna; le diceva di pregare.
Angelina le ubbidiva diligente: pregava nonna Adèle che dal cielo disponesse che il peccato le passasse. Sua madre pregava i santi e la madonna che qualcuno le guarisse quella figlia disgraziata.

Si decise per zio Zito, buontempone e dongiovanni, legionario di Cristo ed esorcista per diletto. Atterrò da Buenos Aires ad Halloween, trovò coda sull’A8 per l’orario aperitivo. Giunse a casa di Angelina per un quarto alle otto e imbastì un altarino tutto Daivonex e tarocchi; con il Cristo degli eserciti appoggiato sul portafrutta capovolto. Quando tutto fu pronto per il rito d’Ognissanti, padre Zito si concesse mate fresco e tarallucci. Angelina inorridì. Lasciò un tocco di formaggio attaccato alla forchetta e s’infilò sotto il letto, in attesa di consigli.

«E mo’ che faccio? Adèle dimmelo tu…» ma Adèle non le rispose, perché ai morti come ai vivi serve un po’ di tempo per digerire il cambiamento. Fu così che, con gli affetti che mancavano e le case disagevoli, il peccato s’allargò. Angelina uscì dal nascondiglio, impolverata come un adesivo vecchio. Passò la notte a grattarsi le braccia; le palpebre le si riempirono di croste, le ciglia grattavano il cuscino come i denti di un rastrello; e ci volle un intero tubetto di Daivonex perché l’infezione tornasse confinata sulle guance.
Così, all’alba di Ognissanti, Angelina se la svignò, senza chiavi e senza valigie. Arrivò a Milano Centrale che non era mezzogiorno e vi rimase fino alle sette di sera.

Comprò:
un orologio con la sveglia,
due tubetti di Daivonex
e un cappuccino.

Le regalarono:
una borsa frigo due signorine che distribuivano campioncini di sughi Star.

Nella cappella della stazione, inginocchiata su un’asse di legno ammorbidita da un cuscino di pelle, Angelina pregò Adèle e insieme Gesù Cristo che sua madre non sentisse.
«Il peccato, nonna Adèle, se me lo levi accenderò un incenso a sera; e ovunque io mi trovi avrò per quei tuoi innamorati eterni una cura certosina.»
A sentire quel tono pretenzioso Adèle, ora calma ora furente per gli effetti collaterali della morte, prima s’abbonì e poi perse la pazienza

Sono quattro gli anni che incatenano i morti al mondo dei vivi, senza che dei vivi ne abbiamo la foggia. Solo esaudendo un desiderio urgente i morti accorciano il calvario, liberandosi anzi tempo dal limbo degli ignavi. Ma non si può desiderare che un peccato si cancelli! Si può desiderare che un’amicizia torni, oppure guarire da un malanno; ma il peccato, ahimè, è un fantasma della mente, che l’uomo crea e distrugge a seconda del bisogno. Viene dal miscuglio della colpa con l’umore; dapprima lo si indossa come uno spolverino a primavera, ma alla lunga il corpo si indebolisce, diviene permeabile: il peccato vi si infila, vi si perde, dei confini non c’è più traccia. S’allarga come inchiostro sulla pelle assorbente di chi vi crede; si raggruma in una crosticina se il corpo si difende e lo chiama malattia. Fu così che Adèle nulla poté contro l’Angelina credulona, permeabile ai malanni che ancora si ostinava a chiamarlo peccato.

Il silenzio di Adèle fece cadere Angelina nello sconforto. Trascinò i piedi fino al binario 2 e salì su un treno notte. Le capitò la cuccetta di terra e un compagno di viaggio del Mali.
«Paris?»
«Mmh»
«Et pourquoi?[1]»
«Ho un peccato»
«De quelle sorte?[2]»
«Del tipo di mia nonna, che a Parigi si guarisce.»
«A Paris?»
«Sì.»
Angelina puntò la sveglia del suo nuovo orologio; si levò le calze e le spinse con i piedi verso il fondo della cuccetta.
«…de toute façon, moi je suis Semelo.[3]»
«Angelina, il piacere è mio.»
«T’a déjà un logement à Paris?[4]»
Angelina disse di sì, ma era una bugia.
Semelo le diede la buona notte e si girò di spalle.
Appena passata Digione, il ragazzo uscì dallo scompartimento e andò in bagno. Quando tornò trovò Angelina in piedi con il viso segnato dalla notte. Le si avvicinò senza guardarla e prese a sistemare le sue cose in uno zaino.
«Buongiorno.»
«Mademoiselle![5]»
«Quello che si vede, è il peccato di cui parlavo.»
«Où? C’est-à-dire le visage?[6]»
Angelina prese un tubetto di Daivonex e andò a lavarsi la faccia. I segni sulle mani erano scomparsi. Le lavò meglio che poté. Quando tornò allo scompartimento Semelo non c’era più. Le aveva lasciato un biglietto, c’era scritto: Metro – République. Dietro, uno sconto per le terme di Saint-Vincent.

Il treno giunse a Parigi alle nove del mattino e a Parigi pioveva. Sotto il portico della Gare de Lyon erano in molti a rispettare la fila per il taxi. Angelina non ne aveva mai preso uno in vita sua, come non aveva mai fatto l’amore con qualcuno, né viaggiato da sola. Sapeva che da lontano le persone non notavano il peccato, ma sapeva anche che da vicino la loro voce si incrinava e il loro sguardo tendeva a fissarsi su qualcosa più in alto di lei.
Le auto le passavano accanto, percorrendo in salita Boulevard de Ménilmontant. Camminando senza criterio, Angelina s’era allontanata parecchio dalla stazione e ora non aveva idea di dove si trovasse.

«Adèle» bisbigliò, appiattendo la schiena sul muro scrostato di quello che aveva tutta l’aria di essere un cimitero. Si accovacciò a terra e aprì la scatola di un barattolo di sugo Star.
«Mon Dieu! Qu’est-ce que tu fais, canaille![7]»
«Mangio, Adèle. Quando ti chiamo non rispondi mai»
«Sacrebleu! J’étais occupée, ma petite… Alors, t’es à Père-Lachaise, c’est ça[8]?
«Puoi fare qualcosa per il mio peccato nonna? E perché parli in francese adesso?»
«Che sia chiaro, ma petite. Esaudisco i desideri. Ma non posso fare proprio niente se ti ostini a chiamarlo peccato.»
Angelina scattò in piedi, il barattolo di sugo le si rovesciò sulla scarpa.
«Dimmi cosa devo fare, ti prego.»
«Soigner ton corps malade. Et trouver la paix.[9] Nell’immediato, smetterla piagnucolare.»
Angelina si osservò le mani. No, lei non era ammalata; senza le attenzioni di sua madre e senza una casa dove stare per forza, il suo peccato s’era quasi ritirato. Poteva essere una malattia, questa, che si ritira a piacimento, lontano dagli affanni? Certo che no. Era un peccato bello e buono che le si era appiccicato per sempre, e che andava e veniva, incontrollabile come arrabbiature.

Da un negozio di cellulari sulla sponda opposta del viale, Angelina avvertì le voci grosse di una discussione. Dietro di lei i Grandi Alberi Monumentali del cimitero sovrastavano il muro. Le sarebbe piaciuto avere qualcuno da raggiungere, qualcuno a cui telefonare o da osservare da lontano salendo sulla cima di un Grande Albero Monumentale; chissà come sarebbe stato avere qualcuno in carne e ossa, Grande e Monumentale, che le mancasse.
Percorse l’intero perimetro del cimitero e impiegò mezz’ora per raggiungere l’ingresso, fiancheggiato da due colonne di pietra. Nella guardiola qualcuno nascosto dietro lo schermo di un computer le indicò il cartello con i prezzi, au moins que non avesse un parente prossimo sepolto lì dentro. Angelina non ce l’aveva. Si asciugò il naso che colava col polsino della felpa. L’uomo la guardò e le allungò una confezione di crackers.
«Ouvrez-la! S’il vous plaît[10]», disse e Angelina ubbidì.

A Place de la République si mise in coda e approfittò della mensa dei poveri. Avuta la sua scodella si appoggiò allo schienale di una panchina. Accanto a lei una donna succhiava il brodo dal cucchiaio, faticava a deglutire e la zuppa sgocciolava nel piatto. Plop. Srsh. Plop. Angelina guardò altrove. Sulle mani le era tornato il peccato. La vecchia a bruciapelo le chiese cosa ne pensasse. Angelina non capì di cosa dovesse avere un’opinione. Mariotte si infastidì.
«Veux-tu m’aider? Bois de Boulogne, c’est là où je travaille.[11]»
«Ma non vedi che ho un peccato?»
«T’as quoi?[12]»
«Un peccato.»
«C’est rien. Tout le monde a des péchés! Donc, ça peut aller?[13]»
Angelina si prese un momento per riflettere. Ponderò, valutò, si ricordò che anche Adèle, all’inizio, era scesa a compromessi. Alzò gli occhi al cielo e la chiamò, ma Adèle non rispose. Mariotte si spazientì di nuovo, bofonchiò qualcosa di nefasto e andò a sedersi a quattro panchine di distanza, dandole le spalle.

Stava ancora fissando la vecchia offesa annodarsi su un lato della panca, quando qualcuno le afferrò un braccio.
«Mieux vaut tard que jamais![14]»
Angelina riconobbe Semelo. Sentì il peccato arrampicarsi sulla fronte, ma non smise di guardarlo. Lui la invitò a seguirlo, aveva il passo svelto e precario di chi supera i 180 e pesa comunque troppo poco. Seguitava a parlare, concitato, camminava a memoria. Angelina gli stava accanto, ma di mezzo passo indietro; arrancava tra le pozzanghere e i cartoni ammassati all’entrata dei negozi.
«…et donc on s’est tous rangés là, …côté du canal St. Martin.[15]»

Avanzavano rasenti le vetrine, la cerniera della giacca slacciata di Semelo tintinnava sbattendo contro i pali della luce; s’infilavano sotto i tendoni tirati dei caffè ed era un annodarsi e snodarsi di ombrelli. Lo slalom tra i tavolini, le biciclette, le biciclette senza sella e quelle con la sella coperta dai sacchetti, le pozze scure sull’asfalto sconnesso, le borse della spesa. Talvolta dovevano girarsi di lato, fare passare l’uomo col cappello o quello con l’impermeabile senza cappuccio e una grossa cesta di vimini; poi passavano loro. Angelina ascoltava Semelo in silenzio, come aveva fatto con Adèle sul balcone triangolare. Mostrava il peccato senza vergogna, sentiva le croste ritrarsi dal viso, rincasare come ombre sotto la lana del suo maglione. Attraversarono il controviale, salirono la scala verdastra di un ponte di ferro che riecheggiò metallica sotto ogni passo. Quando furono dall’altra parte, Angelina vide ciò di cui parlava Semelo una distesa infinita lungo il canale.

 CCrespi foto

La tenda di Semelo era di un marrone militare, un po’ più piccola rispetto a quelle che aveva attorno. La maggior parte erano tende degli Enfants de Don Quichotte, si battevano al fianco degli SDF[16]. Semelo le chiese di nuovo se avesse un posto dove dormire. Angelina disse di no, che sul treno s’era sbagliata. Lei un posto non ce l’aveva ed era lui a non avere capito. Sentì il peccato imbrigliarle la schiena. Un tremito le scosse le vertebre lombari fino ad arrampicarsi bollente tra i due nervi del collo. Restò in piedi, ferma, davanti all’ingresso della tenda.

«Cette maladie…[17]»
«Non è una malattia.»
«D’accord. Ce péché alors. T’a un rendez-vous à l’hôpital ou quoi?[18]»
Angelina si sentì sotto torchio. Abbassò la testa e il mento le bucò lo sterno.
«On peut l’expier. On peut toujours se faire pardonner mademoiselle.[19] »
C’erano malattie della mente e malattie del corpo. Semelo lo sapeva, le disse chi era: un guaritore che in Mali aveva curato un mucchio di gente. Poi strinse il pugno attorno alla conchiglia che teneva appesa al collo e non disse più nulla. Toccò ad Angelina parlare. Chiese a Semelo se fosse mai stato a Père-Lachaise.
Semelo non rispose.
«Be’, nemmeno io ci sono entrata. Dovremmo andarci uno di questi giorni.»

Semelo non l’ascoltava. Non riusciva a non pensare a questa storia del peccato. Era a migliaia di chilometri da casa e ancora si ritrovava a dover combattere contro le stesse superstizioni, malattie, peccati, persone, fantasmi. Si tirò la cerniera fin sotto il mento, ma il vento continuava a infilarsi nel collo. Aveva ricominciato a piovere forte. L’impermeabile che aveva indosso l’aveva comprato per suo fratello, un regalo da lontano per il suo compleanno. Poi di compleanni ne erano passati due e Semelo ancora faticava a considerare quella giacca come sua.

Nell’ultimo mese il canale era cresciuto molto più di quanto avesse fatto lui. Era in attesa di una borsa lavoro dal CRP[20] che sembrava non arrivare mai e l’abbonamento gratuito ai mezzi pubblici sarebbe scaduto con l’inizio del nuovo anno. Aveva due passaporti di cui uno, quello falso, era l’unico con cui potesse viaggiare. Aveva atteso due anni prima di ottenere lo statuto di rifugiato e ora le cose andavano peggio di prima. Diritto alla casa, diritto al lavoro. Semelo non poteva permettersi di avere diritto a niente. Non aveva nemmeno una donna e questa ragazzina senza meta, prigioniera delle malelingue, l’aveva folgorato. La vide sporgersi vicinissima al canale, per scorgere la fine, o l’inizio di quella tendopoli ordinata che ora era una lunga stringa di luci. Angelina non se ne accorse.
«Hai una bella casa» disse, tornando verso la tenda di Semelo.
Semelo pensò che lo dicesse per cortesia.
«Ta maladie aussi, elle est mignonne.[21]».
Entrò nella tenda e stese una coperta di lana su un materassino largo tre quarti dello spazio disponibile.

La chiamò da dentro, ma Angelina non si mosse. La vecchia Mariotte stazionava dall’altra parte del ponte e li osservava di soppiatto. Semelo la chiamò di nuovo, più forte questa volta, e allungò la mano per afferrare la sua. Il pugno però si chiuse nell’aria: Angelina se n’era andata. Non era la prima volta che Mariotte adescasse le ragazzine dalle sue parti. Avrebbe parlato alla vecchia, quella ragazza gli piaceva. Voleva farle un regalo per il suo compleanno.

***

[Tre anni per abituarsi.

Il primo fu il più difficile.

Il secondo fu l’anno più freddo.

Il terzo si concluse con un colpo di machete.]

Il pensiero di Adèle ebbe in Angelina una parabola da manuale. Divenne dapprima un’ossessione; invase ogni angolo del suo corpo. Aveva i vermi Angelina, perché mangiava male, perché i consigli di Adèle non erano sempre buoni. Si contorcevano a decine, bianchi su pezzi di carta bianchi anch’essi, che Angelina usava per levarseli di dosso. C’erano delle notti in cui contesa tra i vermi e il peccato, non riusciva a chiudere occhio. Aspettava, allora; nella sua testa accendeva un incenso per ogni innamorato delle storie di nonna. Erano a migliaia, ciascuno col suo cruccio, ciascuno col bisogno che Angelina ne alleviasse le pene. Poi i vermi passarono; restava il peccato che a primavera tornò a ricoprirle la nuca, le natiche. C’era a chi piaceva. Quel disegno celato dalla sua stessa figura, che sfuggiva al suo controllo. Adèle aveva smesso di risponderle, voleva che la nipote se la cavasse da sé; Angelina, dal canto suo, aveva smesso di cercarla. Passò un anno, ne passarono due. I tempi erano quasi maturi perché lo spirito di Adèle abbandonasse per sempre il mondo dei vivi.

Semelo di tanto in tanto si assicurava che Angelina avesse un posto dove dormire; Mariotte che l’italiana lavorasse secondo gli accordi e non la fregasse di un centesimo.
Ma una sera sfortunata dell’inverno 2010, Angelina fu scaricata da una Renault 9 Turbo Diesel classe 1985 su un marciapiede ampio 3 metri alle porte di Place de l’Etoile. Il ciglio sinistro era sfregiato da un taglio profondo e Angelina aveva perso conoscenza. Nessuno la notò nonostante fosse quasi l’alba. Si svegliò che sanguinava, tamponò il taglio con la maglia e tornò verso il Bois de Boulogne. Quando Adèle la sentì piagnucolare, la trovò seduta sul ciglio di un lago ghiacciato.
«Angelina!» chiamò, ma Angelina aveva smesso di aspettarla.
«Angelina! Devi andare in ospedale!»
Angelina nemmeno la guardò, concentrata com’era a contenere il sangue. Avrebbe dato qualsiasi cosa per potersi sciacquare le braccia e riempirsi di Daivonex.
«Adèle» disse, «ho un desiderio per cui forse puoi fare qualcosa.»
Adèle le si avvicinò stendendo per bene le orecchie nella sua direzione.
«Guariscimi dalla mia malattia» disse, e non aggiunse nient’altro.

Semelo arrivò verso mezzogiorno. La vide distesa su una panchina, una dozzina di metri di distanza dal lago. Mariotte l’aveva preceduto e, seduta a terra, la guardava sbalordita, come si guarda un dinosauro. Angelina dormiva, aveva il volto insanguinato e una ferita aperta che andava curata. Semelo si piegò su di lei e avvicinò il suo viso al suo, per assicurarsi che respirasse. Poi l’abbracciò, ma fu un abbraccio frettoloso e attento, quasi Angelina fosse un tubicino di vetro; le alzò una manica del maglione e fece lo stesso con l’altra. Controllò dietro le orecchie e all’altezza del collo. Della solita psoriasi non vi era più traccia.
Mariotte gli chiese se avesse intenzione di curarle la ferita. Semelo la guardò negli occhi e disse secco di no.
«Et ta coquille alors?[22]»
Semelo si sfilò la conchiglia d’avorio dove custodiva le malattie di tutti coloro che aveva guarito, tutte tranne una. Se la mise in tasca insieme ai brutti ricordi e sollevò Angelina con entrambe le braccia.
«On y va, Mariotte.[23]»
«Où?[24]»
«A l’hôpital.[25]»

 ***

[E dopo il machete, la guarigione.

Il quarto fu l’anno del distacco, della cura e dell’amore.]

Fuori dal cimitero di Père-Lachaise Semelo la attendeva seduto sul sedile anteriore di una station wagon del ’94. Quando la vide percorrere il viottolo e sbucare sul selciato davanti all’entrata, si allungò per aprirle la portiera. Angelina aveva ancora i capelli bagnati. Un profumo di sapone invase l’abitacolo, dove avevano sistemato il materasso e si accumulavano vulcani di cera e lumini spenti. Dal soffitto penzolavano dei cocci di vetro che a certe ore del giorno riflettevano i colori dell’arcobaleno. Il parcheggio era per residenti e nessuno, da un mese a questa parte, era mai venuto a dare loro fastidio.
«Et donc?[26]»
«Allora niente. Il custode è gentile, è uno di poche parole.»
Semelo guardò Angelina. Frugava nella tasca della borsa alla ricerca di una gomma.
«Est-ce qu’il nous fait entrer sans payer?[27]»
«Non gliel’ho chiesto Semelo, stava facendo colazione, avevo paura che gli scocciasse.»
Scesero dalla station wagon. Fecero a piedi il giro dell’isolato. Al posto del negozio di cellulari aveva aperto un fruttivendolo pachistano. Comprarono due mele e una bottiglia di latte. Poi tornarono all’ingresso del cimitero. Angelina bussò al vetro della biglietteria. L’uomo non sentì. Angelina picchiò di nuovo, questa volta usando le unghie.
«Possiamo entrare?» disse con un labiale il più sforzato possibile.

Adèle li osservava dall’alto acquattata sulla povera lapide di Maria Schneider. Li vide scendere dall’auto, avvicinarsi all’ingresso, attendere impazienti l’arrivo del custode. Si tenevano per mano. Perse l’attenzione quasi subito; anche da viva aveva sempre trovato il mondo un posto noioso, erano le storie a migliorarle l’umore. Ora che se n’era liberata vi tornava raramente; quella nipote era la sola cosa del mondo che le stesse davvero a cuore. La seguì con lo sguardo finché non la vide scomparire dietro una colonna di pietra. Ebbe la sensazione che Angelina fosse felice e che il verde delle foglie fosse più verde del solito. Col cappello ben calcato in testa sistemò la retina davanti agli occhi e i pezzi di gomma piuma tra le dita dei piedi. Poi, con una precisione maniacale, cominciò a ripassare lo smalto scheggiato a partire dall’unghia del mignolo.



[1]    «Come mai?»

[2]    «Di che tipo?»

[3]    «…ad ogni modo, io sono Semelo.»

[4]    «Hai già un alloggio a Parigi?»

[5]    «Signorina!»

[6]    «Dove? Intendi il viso?»

[7]    «Mio Dio! Che stai facendo, canaglia!»

[8]    «Accidenti! Ero occupata piccolina… Dunque, sei a Père-Lachaise è così?»

[9]    «Curarti del tuo corpo malato. E trovare un po’ di pace.»

[10]   «Apritela! Per favore.»

[11]   «Vuoi aiutarmi? Bois de Boulogne: lavoro là..»

[12]   «Che c’hai te?»

[13]   «Non fa niente. Tutti hanno dei peccati. Dunque può andare?»

[14]   «Meglio tardi che mai!»

[15]   «…e dunque ci siamo sistemati a lato del Canal St Martin.»

[16]   Sans Domicile Fixe.

[17]   «Dunque, questa malattia…»

[18]   «D’accordo, questo peccato allora. Hai un appuntamento all’ospedale o cosa?»

[19]   «Si può espiare, ci sii può sempre far perdonare signorina.»

[20]   Centre Réstauration de Paris.

[21]   «Anche la tua malattia, è carina.»

[22]   «E la tua conchiglia allora?»

[23]   .«Andiamo, Mariotte.»

[24]   «Dove?»

[25]   «All’ospedale.»

[26]   «E dunque?»

[27]   «Ci fa entrare gratis?»