Me ne stavo a pensare le cose intorno alla natura, leggevo Talete, Anassimandro, quando Luigi Laino, il doctor, come lo chiamiamo da queste parti, che in un altro luogo stava pensando anche lui cose sulla natura, mi ha inviato una e-mail. Il messaggio conteneva un frammento di Parmenide che parla, neanche a dirlo, proprio della natura delle cose – dell’uomo anche come parte di questo tutto naturale. Ah, le corrispondenze!
Non si può immaginare la gioia, perché di questo si tratta, nel leggere la liquidità dell’esametro di Parmenide, la bellezza della cesura e del ritmo degli ultimi due emistichi – d’altronde nutrirsi alla tavola della filologia classica, se si mangia assaggiando e non abbuffandosi, è uno dei piaceri che lasciano un dolcissimo retrogusto, come il sapore del caffè in vista di una fragrante sigaretta. Ma divago.
Che cosa avrà voluto dirmi Luigi con questo frammento, lui che al contrario – o per compensazione – si è invece abbondantemente rifocillato alla mensa filosofica? Prima però di rispondere, vale la pena leggere il contenuto della e-mail.
Il frammento è catalogato in varie maniere, a seconda di chi lo legge, lo interpola, lo traduce. Luigi non è stato da meno e questo, di seguito, è quanto:

ὡς γὰρ ἕκαστος ἔχει κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων,
τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται˙ τὸ γὰρ αὐτό
ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν
καὶ πᾶσιν καὶ παντί˙ τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα.

Come in effetti ciascuno ha combinazione delle parti vaganti per ogni dove [ἔχει κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων],
per gli uomini si para innanzi il noos [τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται]; infatti è lo stesso [τὸ γὰρ αὐτό]
ciò che pensa, la physis delle parti [μελέων φύσις] è negli uomini
e in tutte le cose. Il pieno è infatti il noema.

Dunque che cosa ha voluto dirmi? La domanda è quanto mai pertinente e subito ha acceso in me quel focolaio interpretativo, in cui a giocare il ruolo dell’acciarino è la ricerca immediata della fonte, quella che tramanda il frammento, oltre quella che lo ricostruisce – in questo caso la coppia più famosa della filologia classica: Diels-Kranz, pionieri dell’interpolazione.
Il testo è tramandato, manco a dirlo, dall’enciclopedico Aristotele (fosse vissuto nel XVIII secolo altro che Diderot!), nel quarto libro della Metafisica. Il doctor è così preciso da indicarmi il luogo esatto in cui è stato posto il frammento di Parmenide. Lo trovo, ma non avendo il cartaceo (quasi mi viene da dire il papiro) di Diels-Kranz, mi rifaccio a un sito molto fornito, dettagliato, dal nome ammiccante Perseus.com.
Copio e incollo la parte del testo aristotelico che mi interessa, leggo, scrollo il documento virtuale. Infine, traduco anche io. C’era qualcosa – così mi era parso – nella traduzione di Luigi che non riuscivo a comprendere, e quando concludo la mia, ecco che vengono fuori delle differenze (sia chiaro che non c’è nessuna volontà bassamente polemica!), dovute a due motivi: prima la pratica filologica, poi la diversa tradizione testuale.
Mi dico, quindi, che è il momento di rispondere. E questa che segue è la mia risposta al doctor.

καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον:
“ὡς γὰρ ἑκάστοτ᾽ἔχει κρᾶσιν μελέων πολυκάμπτων,
τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται: τὸ γὰρ αὐτὸ
ἔστιν ὅπερ φρονέει, μελέων φύσις ἀνθρώποισιν
καὶ πᾶσιν καὶ παντί: τὸγὰρ πλέον ἐστὶ νόημα.”

E Parmenide dimostra allo stesso modo (di Empedocle):
“Come infatti ogni volta si ha combinazioni di parti molto modulate,
così il pensiero (νόος) viene in mente all’uomo: infatti in tutti gli uomini
e in ogni cosa la natura (φύσις) delle parti è la cosa stessa
la quale propriamente pensa: infatti l’insieme delle parti (τὸ γὰρ πλέον) è il pensiero (νόημα).

Ti scrivo di seguito alcune considerazioni propriamente filologiche (ho letto ultimamente in un libro che ancora non è uscito nel mondo, che la talpa filologica è tutta orecchie, posso mai dare torto a una voce così?), insomma riporto il modo in cui ho proceduto nella traduzione, che è mezza interpretazione.

  1. ἑκάστοτε – ἑκάστος (v. 1): la differenza è così palese tra un soggetto e un avverbio che il senso del primo verso non può proprio essere lo stesso, come noti dalla traduzione.
  2. Πολυκάμπτων (v. 1): la versione Diels-Kranz ha ‘polyplanchton’, chiaramente forma omerizzante sul più noto 1° verso dell’Odissea, ma qui assumerebbe un valore atomistico che mi pare una forzatura. La parola invece con ‘kampo’  (modulare, tagliare), va molto meglio se si tratta di parti che poi devono costituire il ‘to pleon’ dell’ultimo emistichio.
  3. Suggerimento di interpretazione: è possibile che la parola chiave sia τὸ πλέον (to pleon) piuttosto che νόος, φύσις o νόημα (noos, physis, noema), in relazione a τὸ αὐτὸ(to autò)?
  4. Esametro: il verso che deriva direttamente dalla tradizione orale, e non si può pensare che nel VII-VI secolo a. C. un poema ‘perì physeos’ fosse letto da un singolo (anche questa innovazione è propriamente aristotelica), ma è più credibile che fosse recitato  a un gruppo di persone.

Inoltre alcune forme testuali parlano a favore di questo tipo di trasmissione: l’epiteto costruito con poly+aggettivo (o nome o verbo); la mancanza di contrazione (tipicamente omerica, quindi in ogni modo orale) di φρονέει (phroneei); i dativi ἀνθρώποισιν (anthropoisin, con desinenza eolica). È chiaro che queste forme appartengono a un modo di trasmettere e anche di inscriversi in una tradizione di sapienza, ma non ritengo possibile la separazione accademica tra mito e sapienza (almeno non in questa sede del tutto non platonica o aristotelica, dato che loro sono l’accademia non certo Parmenide, Eraclito etc.) prima del V-IV secolo a. C.

  1. Costruzione dei versi 3-4:

γὰρ ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί φύσις μελέων ἔστιν τὸ αὐτὸ ὅπερ φρονέει.

In questi versi spicca la formula ‘kai pasin kai panti’, che come anche tu hai tradotto, rispetto alle versioni istituzionali che vogliono una semplice endiadi, include sia gli uomini (pasin) sia le cose (panti).
In breve: sono partito dal frammento Diels-Kranz, quasi lieto che in fondo la questione della resa del frammento fosse risolta. Ho tradotto una prima volta il frammento, confrontando le versioni greche e italiane, annotando le differenze di tradizione eccetera.
Ho fatto alcune ricerche riguardo altri studi sul frammento, ne ho trovati un paio che mi sono apparsi interessanti e in cui si parlava dell’ipotesi fisiologica, di cui già abbiamo entrambi ampiamente discusso. Sembrava che la strada fosse in piano, soprattutto in un piano aristotelico, fatto che mi fa storcere il naso e quindi mi sono detto di andare oltre, superarlo questo piano. Ho quindi letto e riletto il passo di Aristotele, e mi è apparso, come forse puoi immaginare, del tutto fuorviante all’interpretazione di Parmenide, poiché la sua posizione nel testo serve a giustificare la visione aristotelica dei “fisici”, non certo quella parmenidea, che tutto avrebbe potuto dire di sé tranne che era un “fisico” (e spero fortemente che tu concordi con me in questo).
Aristotele, e dunque anche Platone (i due non si separano mai, no?), per dirlo à la Nietzsche devono essere superati. Com’è possibile farlo? Questa la mia prima questione.

La risposta di Luigi è stata quanto mai puntuale e dettagliata (altrimenti invano lo chiameremmo doctor?) Eccola, dunque.

Butti in effetti lì una questione capitale, secondo me, prima di pormi la prima domanda; ovverosia: Parmenide è un fisico? Cerchi in me una complicità, vediamo se posso concederla.

Dobbiamo anzitutto accordarci sul significato della parola fisico. Se apriamo la Metafisica di Aristotele, troviamo una risposta: i fisici sono quelli che hanno studiato per primi l’arché, e quindi anche le cause, solo che avrebbero ristretto questo studio essenzialmente a due o a un solo tipo di causa, tutti – più o meno indistintamente –, essendosi concentrati in maniera preponderante sul lato iletico della questione (qualcuno sarebbe invece arrivato anche all’idea del principio del movimento, arché kineseos, come ad esempio Anassagora). Avrebbero in tal senso propugnato l’idea di una materia prima (protehyle) che difficilmente può andare incontro alla definizione formale di episteme che si è affermata a partire da Platone. Sai benissimo che Aristotele era allievo di Platone, per cui non mi dilungo su questo, e mi limito a far notare che la contrapposizione fra la fisica di Platone e quella di Aristotele non si basa sul fatto che Platone sarebbe l’idealista mentre Aristotele l’empirista: nella sua fisica, Platone è tanto poco semplicemente idealista quanto poco empirista è Aristotele nella propria.
La fisica di Aristotele è anzitutto una scienza astratta dei principi del divenire, e secondo me Wieland (Wieland, La fisica di Aristotele, il Mulino, Bologna 1993) ha ragione quando afferma che gran parte di quella monumentale impalcatura si basa sull’analisi delle strutture linguistiche che adoperiamo per leggere i fenomeni della physis e gli enti che da essi provengono, che sono le cose dotate di movimento (kinoumena)[1]. Questo sempre per inquadrare il contesto generale: lo sviluppo della fisica greca – ammesso che Aristotele abbia o meno ragione sui singoli pensatori – penso possa essere avallato in una esegesi del tipo seguente: la filosofia si afferma come fisica, in quanto superamento della concezione mitica del cosmo. La natura appare ai primi indagatori, ai fisiologi (physiologoi), come un ambito unitario, formato dall’insieme di tutte le cose (tà panta), entro cui non rientrano più né interventi divini né la mano di un altro uomo (al limite, è la physis stessa che può divenire, nel suo complesso, divina). Ricorda il frammento di Eraclito B30 della sistemazione Diels-Kranz (“Questo cosmo, lo stesso per tutte le cose, né alcuno degli dèi né alcuno degli uomini lo fece, ma era, è e sempre sarà fuoco eternamente vivo, che si accende e si spegne in misure”).
L’ordine del kosmos non è fatto né dagli dèi e neppure però dagli uomini, ma è il puro eterno/immortale (aeizoon). Ora, il fatto è che le pieghe che attraversano questa ricerca sono molteplici, ma si può afferrarne una specie di senso generale: si passa da prospettive più o meno concrete nello studio dei fenomeni naturali a veri e propri edifici scientifici che contemplano l’ideale di una necessaria astrazione. L’unico che inverosimilmente riesce a mettere insieme concretezza della natura e astrazione, principio dell’unità, intendo in maniera esemplare, è forse proprio e soltanto Eraclito.

Provo a spiegarmi meglio. Credo che tutti i fisici (Talete, Anassimandro etc.) arrivino alla coscienza esatta che la ricerca intorno ai fenomeni naturali debba sfociare nel ritrovamento di un principio dei fenomeni: questo principio non è, come insegna Heidegger, solo ciò che sta all’inizio di un processo, ma ciò che funge da causa eternamente presente ai fenomeni (hypokeimenon). Perciò, per esempio, per Talete principio sarebbe l’acqua, poiché si adatterebbe abbastanza bene allo schema di poter essere al contempo l’inizio degli altri processi naturali e ciò che continua ad accompagnarli nel loro divenire (l’acqua accompagna ogni trasformazione, metabolé, e perciò è stabile). Ora, gradualmente, la consapevolezza che l’arché abbia questa funzione, deve aver portato alla posizione di principi sempre meno legati alla rappresentazione cosale, e volti al raffinamento di questa loro specifica funzionalità: il principio, come ciò che dà inizio e accompagna la vicenda degli elementi, non può essere uno degli elementi. Altrimenti non potrebbe essere principio, in quanto si corromperebbe e non sarebbe sempre – lo dice pure Heisenberg in una conferenza, nel tentativo di spiegare come si innesca la macchina della spiegazione scientifica del reale (Heisenberg, 1984, pp. 105-20). Anche Simplicio presenta così il famoso fr. B1 di Anassimandro della sistemazione di Diels-Kranz (“Anassimandro… principio… ha detto degli enti l’illimitato… donde infatti è la generazione per gli esseri, verso la corruzione le stesse cose e accede secondo la necessità: in effetti questi esseri scontano condanna ed espiazione dell’ingiustizia agli altri esseri secondo l’ordine del tempo”): il Milesio avrebbe scelto l’apeiron perché non è uno degli elementi, e quindi può essere la vera arché.
E sebbene vi sia da pensare che l’espressione di questo fatto sia pregiudicata dal contesto già tecnico che vive Simplicio (che cade oltre un millennio dopo l’originale di Anassimandro), nessuno ci vieta di pensare che fosse questo il senso del messaggio e dello scarto teorico in atto. Ad ogni modo, e proprio per questa ragione, accanto a questa scoperta, dobbiamo considerare un altro motivo cruciale di fondo che deve aver attraversato l’opera di questi assoluti pionieri: la differenza ontologica. Devono cioè essersi resi conto che la dignità d’essere del principio non poteva sposarsi e commisurarsi direttamente con la definizione ontologica degli enti: in qualche modo, il principio deve essere più degli enti. Secondo lo stesso Anassimandro, gli enti scontano una condanna e pagano il fio per non essere come il principio. E io direi – l’ha detto già Heidegger, ma va be’ – che questa discrepanza fondamentale fra essere ed enti, questa straordinaria intuizione, si ripercuota lungo il corso successivo della fisica greca, fino a diventarne il tema dominante.
Credo inoltre che questa percezione si sia acuita quando i singoli fisici si sono impegnati in determinazioni sempre più astratte del principio, come lasciavo intendere. Per esempio, nei Pitagorici si arriva ad una modernissima teoria dell’anima, in Filolao, come terreno di reale mediazione fra numero e sensazione/percezione (aisthesis)  – fatto che influenzerà Platone nel Teeteto, dove si trova una sorta di protodeduzione trascendentale: la discussione sui koinà, i categoriali derivanti dal movimento dell’anima che riconosce il koinòn negli enti. Questo per dire che un fisico è sempre un fisico antimaterialista, anche quando crede di esserlo: persino l’acqua di Talete non è un elemento fisico. L’acqua è l’invariante, è il principio, ciò che rimane stabile, a fronte dell’immarcescibile legge della consunzione di tutti gli altri enti. In un altro passo della Metafisica, Aristotele dice anche: una cosa è l’ousia, mentre le altre cose si dicano semplicemente tà onta (Aristot. Metaph. 1028a e sgg). Vedete, c’è proprio una distinzione fra singolare e plurale dell’essere, col primo a spadroneggiare: la verità è una, i molti sono l’apparenza della doxa e così via.

Ma come si colloca Parmenide rispetto a tutto questo?

Per me Parmenide è ancora un fisico, pur essendo il primo che compie in maniera recisa alcuni passi che non ne fanno più un fisico. Sembra strano e assurdo quel che dico, ma è il modo migliore che ho per esprimere quello che penso. Il fatto è che i fisici pensano un tipo di trascendenza che non è tale pur essendo tale, riconoscono il carattere non-cosale del principio e della conoscenza, ma non separandolo dalla vicenda degli enti per eleggerlo a Cerbero che annusa la rarefazione dell’iperuranio. Anche il fatto che le idee siano essenze (ousiai) separate, che valgono indipendentemente (choris), è una presa per il culo da parte di Platone, che sofisticheggia con le parole: Platone lo sa benissimo che la physis è una, mica si mette a duplicare gli enti così. Solo che ha afferrato ciò che deve avergli insegnato la tarda lettura delle opere degli Eleati: la differenza fra il principio e gli enti deve essere presa talmente sul serio che la separazione fra verità (aletheia) e opinione (doxa) deve essere portata all’estremo.
Questa divaricazione ha origine in maniera precisa ed esplicita proprio in Parmenide, mentre in Eraclito ha ancora la forma per certi versi mitica della contrapposizione fra i molti che non sanno e i pochi che hanno visto e ascoltato il logos più autentico. In Parmenide è invece questione reale, dato di fatto: la conoscenza massima, quella che permette di accedere all’essere che è (eon), è superiore a quella, quantunque necessaria, che avvolge i sensibili e con ciò  le cose per come sembrano (tà dokeunta). E per me è importante sottolineare che l’invito della Dea – con cui si apre il poema Sulla natura (Perì physeos) – a conoscere la verità ben rotonda parta proprio dalle apparenze, dai dokeunta, perché dimostra che il sollevamento del principio deve essere fatto tenendo presente che esso serve per lo studio dei fenomeni naturali, delle cose che appaiono in genere. Però è chiaro che per Parmenide la vera conoscenza travalichi l’ambito estetico ed opinativo, e sia invece da fissarsi in questa verità suprema che dischiude il mondo dell’essere. Tuttavia, è anche chiaro che l’essere (tò eon) dica il modo in cui è la physis; intendo proprio fisicamente: la sfera, l’essere ingenerato, immobile, incorruttibile, sono tutti attributi fisici di una physis che è così e non può essere altrimenti. Cioè la sfera è la forma reale della physis, è astronomia e scienza. Si offre l’evidenza della natura, la sua unitotalità, che ha in effetti questo carattere geometrico, ed è una verità talmente incontrovertibile che Parmenide la chiama: eon emmenai, l’essente che ci sta e permane.
Quindi Parmenide è un fisico, che però si è spinto molto oltre la fisiologia: ha pensato il superamento, la distinzione gnoseologica che è il cardine di ogni scienza, perché postula l’esistenza di uno strato di determinazione iper-stabile della conoscenza; strato che è però a un tempo sovra-cosale e fisico. Che cosa ci sia dentro questo strato, infatti, è in ultima analisi difficile a dirsi: la superiorità dell’essere (tòeon) come physis rispetto a tutte le cose (tàpanta), e alle cose che sembrano (tà dokeunta), certamente; ma forse anche un’eccedenza, magari più di un’allusione alla logica, o alla matematica (ammissioni non dirette in Parmenide, soprattutto la seconda, ma sviluppate comunque dalla Scuola di Elea; basta considerare i paradossi di Zenone, che non possono essere stati sviluppati da qualcuno che non avesse nozioni di matematica). Però il vincolo all’essere (tò eon) detto in quel modo lega Parmenide alla vecchia concezione della physis: la physis deve diventare generazione (genesis) perché ci sia l’idealismo, affinché l’episteme venga definitivamente raffinata. Infatti nella physis di Parmenide le cose non si corrompono ancora, mentre tutta l’opera di Platone e Aristotele può essere letta proprio entro il tentativo di salvare la cosa – e di non riuscirci. Perché la cosa ora è corruttibile, dal momento che il logos è stato astratto dalla vicenda di tutte le cose che divengono (tà gignomena panta), e non costituisce più la piena affermazione di un legame. Quindi è alquanto normale che dopo Parmenide si debba fare questo passo, e risolvere le aderenze problematiche che può suscitare.

Le cose però non erano ancora complete. Ho quindi ribadito il punto focale, quello che in fondo è il nocciolo pulsante più per il filologo che per il filosofo. E ho chiesto:

Stando a quanto dici, c’è la possibilità di liberare il frammento dalla sua posizione nella Metafisica e cercare di interpretarlo non nell’ottica fisiologica, quanto in quella propriamente Parmenidea (in base a ciò che di lui si sa, senza riverenza a chi tramanda) della partecipazione nel mondo naturale di più elementi (compresenti negli uomini e in tutte le cose) che esulerebbe dalla formulazione fisico-aristotelica?

Ancora una volta la risposta non tarda ad arrivare, né ad esaurire in qualche modo la domanda.

Con quanto detto già in precedenza vengo al superamento di Aristotele e Platone.

Aristotele, e soprattutto Teofrasto, collocano la posizione di Parmenide all’interno dell’equazione episteme=aisthesis, che Platone ha demolito lungo tutto il corso della sua vita, e a cui ha dedicato una trattazione abbastanza lunga nel Teeteto. Se si legge tutto il Perì physeos di Parmenide appare strano, visto quello che ci si trova; ma il fr. 16 offre un’altra prospettiva. Viene citato appunto entro questi termini, in questa comunanza. E ciò complica la nostra interpretazione di Parmenide. Il Parmenide metafisico qui non ha senso – per me ovviamente non ha senso mai, ma forse si era capito –, perché sta dicendo che l’attività del pensiero (noos) dipende dalla disposizione fisiologica dell’uomo (anthropos). Cioè sta dicendo che i processi percettivi sono fondamentali nella determinazione della saggezza/giudizio (phronesis) e con ciò dell’attività dianoetica. È un Parmenide molto nietzscheano, altro dal freddo speculatore de La filosofia nell’epoca tragica dei Greci (Nietzsche 1991). Proprio per questo è problematico.
A me però sembra che in questo caso Aristotele e Teofrasto non siano da superare, nel senso che, nella mia ottica, espongono abbastanza bene il significato del passo. Certo non sono d’accordo ad autorizzare equazioni allargate: Teofrasto per esempio dice che per Parmenide pensare=sentire (noein=aisthanesthai), ma è ovvio che non si possa dire che questa connessione equivalga a quella pensare=essere (noein=einai). Suppongo si tratti di livelli distinti di interrelazione ontologica, che da un lato allacciano pensiero e identità logica, espressa poi nell’asserzione che indica l’essere di qualche cosa, intesa come qualità stabile dell’oggetto (il celebre terzo frammento nella sistemazione Diels-Kranz: tò gar autòno ein te kai estin, lo stesso è infatti essere e pensare); e dall’altro lato pensiero e percezione estetica, nel senso che l’intima armonia stabilita da logos-physis, lo sfondo del pensiero presocratico, agisce anche a questo livello: l’armonia con la physis è talmente profonda, per l’uomo, che egli stesso deve essere evidentemente parte di questo processo, e ciò che accade in lui deve avere il segno di un’evoluzione fisica. L’uomo è una piccola natura.
Quindi va bene andare oltre Aristotele, ma non quando non è necessario. Andrebbe in effetti contestualizzato il lavoro di Aristotele a margine di questo passo. Casertano (Casertano 1970) fa infatti notare a ragione come la conclusione del capitolo in cui è riportato il frammento sia emblematica, e vada da tutt’altra parte: Aristotele deve  dimostrare in qualche modo il primato dell’ente sulla sensazione, perché anche per lui, come per Platone, vale che l’episteme non è sensazione (aisthesis). Per cui se si dà retta a questa cosa di Parmenide, ecco, bisogna superarla, perché se no non si fa l’episteme. Non si può cedere il passo alla semplice disposizione fisiologica dell’uomo, non almeno nel senso in cui questo sarebbe il punto di sfogo della alterne vicende della natura delle parti (physis meleon): “Ma è impossibile che i sostrati che producono la sensazione non siano, e inoltre che non siano senza sensazione. In effetti, la sensazione non è sensazione di sé stessa, ma vi è qualcosa di differente, oltre la sensazione (parà ten aisthesin), che è necessariamente prima della sensazione” (Metaph. 1010b33-37). Insomma dobbiamo guardare a ciò che è il vincolo di stabilità, che se per Parmenide comincia ad andare verso l’alto, per Aristotele deve essere riproiettato verso il centro della cosa: lo vedete soprattutto dallo slittamento del lemma eidos da Platone ad Aristotele, laddove in quest’ultimo va a caratterizzare decisamente l’aspetto compiuto e finale dell’ente che viene alla presenza – non cioè il suo aspetto iniziale che starebbe nell’idea.

Leggere qui Parmenide senza Aristotele e Teofrasto ci lascia però un’alternativa in più, che non mi sento di escludere. Paradossalmente, questa via è molto vicina, negli intenti, a quella di chi la riporta: forse in effetti ci dice cosa dobbiamo fare se vogliamo accedere all’episteme. Se estraggo quel passo dalle fonti che ce lo riportano, posso pure figurarmi l’idea di uno che sta provando per via negativa la differenza fra aletheia e doxa. Ricordiamoci che col fr. 16 siamo nella seconda parte del poema, quella che non può essere vera, ma che l’uomo deve comunque conoscere. Quindi è probabile che Parmenide possa voler dire una cosa del genere: guardate che il noos che si immischia nelle cose che sembrano (tà dokeunta), che non sono mai un vero essere (tò eon), perché i nomi dei mortali sono solo apparenti, ecco, che anche questo noos incatenato alla natura delle parti (physis meleon) deve essere superato, se non si vuole rimaner prigionieri dei sensi. Il fr. 16 ci direbbe allora: questo è ciò che dovete superare, per giungere al noos che io intendo, e la mia intelligenza vi eluciderà sul significato della verità (alètheia) più splendente, che non conosce alcuna deviazione dei sensi, bensì soltanto la serafica immobilità dell’argomentare logico e scientifico: la legge imperturbabile dello “è assolutamente così”, del “non può essere altrimenti”. Certo non si esclude nemmeno il significato positivo di cui abbiamo discusso: cioè dobbiamo tenere presente che sulla facoltà del noos incide la natura delle parti (physis meleon), dal momento che la comunanza logos-physis è anche e soprattutto apertura dell’uomo nei confronti della physis, primariamente resa possibile dal fatto che l’uomo (anthropos) medesimo è physis.

Mi resta però un altro dubbio, riguardo a quell’incipit che mette in relazione Parmenide e Empedocle. Non mi tiro indietro e chiedo ancora.

La relazione che crea Aristotele con Empedocle non farebbe di Parmenide un precursore degli atomisti, soprattutto nella lezione Diels-Kranz di “polyplanchton” (che ha molto vagato o vaga per molte parti)?

E ancora la risposta di Luigi.

Sì, per Empedocle, ma escludo gli Atomisti. Gli Atomisti sono dei fisici pluralisti del tutto sui generis, perché se è vero che non siamo al cospetto dell’atomo ideale di Bohr e così via, la particella materiale che hanno in mente Leucippo e Democrito ha caratteristiche geometriche ben precise, mentre gli elementi dei pluralisti no. Non così spiccate, almeno. Certo è anche vero che la configurazione subatomica della materia è descritta in fisica con l’algebra più che con la geometria, e che l’atomismo antico apparirebbe pertanto un po’ grossolano; ma gli Atomisti antichi erano arrivati de facto all’idea che il visibile fosse determinato dall’invisibile dinamica di particelle, suggerendo una strada che metodologicamente è la stessa che ha guidato l’incedere della fisica nella scoperta del microcosmo delle particelle e della loro meccanica.

Il punto che mi segnalavi in una delle e-mail mi risulta un po’ oscuro, per cui ti posso soltanto dire che naturalmente il passaggio dal mythos al sophon è ben più sfumato di quello che si pensi, e prima di Platone non si raggiunge una vera e propria cristallizzazione filosofica, soprattutto dal punto di vista della modalità espressive e del vocabolario stesso adoperato dall’episteme. Eraclito e Parmenide parlano in effetti ancora un linguaggio carico delle suggestioni del recente passato, e non mi metterei di certo a contestare questo. Però Parmenide comincia a distinguere fra le broton doxai e l’aletheia che individua l’essere immobile. Diciamo che il problema di Parmenide è stato, a quel punto, non aver distinto con fermezza fra il significato autenticamente ontologico dell’essere e quello ontico, pur avendo prefigurato chiaramente la divaricazione, e pur avendola messa nei suoi termini propriamente gnoseologici. La filosofia, se ci pensi bene, si affanna continuamente intorno a questo discernimento, è una delle sue occupazioni inalienabili: anche Kant, dopo il macello della teologia e della nuova logica, deve insegnare innanzitutto a distinguere fra le varie specie di “essere”: questo è un “fondamento reale”, e questo un “fondamento logico”, per cui quando diciamo lo “è”, in questi due differenti casi, diciamo qualcosa di diverso.

Il problema dunque è fondante – radicale e non pare potersi risolvere così sue due piedi. Ci sono domande che bisogna porsi, sulle cui continuare a pensare, a imbastire ipotesi, trovare strade oblique per le quali far camminare obliqui pensieri.

La questione della lingua è in fondo il luogo nel quale si gioca la partita delle verità. La lingua come strumento, lo strumento come fine. Ma c’è un fine, una meta?

In pratica, la lingua di Parmenide, di Eraclito e degli altri “fisici” (Platone stesso non può farne a meno, poiché la sua educazione era quella di un Greco, forse dell’ultimo dei vecchi o del primo dei nuovi) non è una parlata inventata, non potrebbe esserlo, tantomeno è cristallizzata, poiché le cristallizzazioni sono un processo recente nell’ambito linguistico (con la sola eccezione della lingua giuridica latina). La parola di Parmenide e di Eraclito è fondata, radicata, dentro Omero e Esiodo, così come quella dei lirici di ogni isola e polis del Mediterraneo. Questo aspetto è fortissimo nel frammento di cui abbiamo discusso, poiché esso è anche in versi, nell’esametro di Omero, come sottolineavo precedentemente. Ma non è questo il luogo della sterile polemica, qui dentro non si danno battaglia la filosofia e la filologia su chi è più profonda e veritiera dell’altra, al contrario si cerca qualcosa che da tempo non si è più fatto, quella cosa che Platone ha creato col suo metodo di separare: il dialogo.

C’è un fine? Verrebbe di rispondere che dove questo si palesa, si mostrano anche i suoi limiti. Quando viene assunto come termine, sbarramento, iniziano a cedere anche le fondamenta stesse. Siamo disposti a questo? Accettando lo sbarramento, il limite-fine, come una verità assunta, non avvertiamo già il peso dei nostri metodi, filologico e filosofico? E non è la lingua quel limite che bisogna ogni volta superare, per non arenarci?

All’occasione voglio citare un ultimo esempio: la parola limes (limite, in latino). Con questa i romani, che partivano a conquistare il mondo, indicavano la “via che si apre in luoghi impervi, difficili da raggiungere”, quando poi stanchi e ormai assuefatti al dominio (Vallum Hadriani, il Vallo di Adriano, come nuova rappresentazione di limite, confine), questa parola assunse un altro valore – ossia quello che noi stessi oggi le conferiamo di sbarramento, di ottundimento dei confini, di paura del barbaro. Eppure se siamo nicciani, se abbiamo assunto il Quinto Libro della Gaia scienza come simbolo e sprone, non dovremmo andare oltre? Non dovremmo in quanto filosofi e filologi, scienziati della parola, essere più leggeri e superare con un salto il limes escatologico che ci si pone davanti? E, dunque, non è il dialogo, lo scambio di idee, un mezzo per prendere lo slancio prima del balzo, per tentare di superare così quei limiti che spesso ci siamo autoimposti – e ancora e oltre?

Bibliografia

W. Weiland, La fisica di Aristotele, il Mulino, Bologna, 1993

G. Casertano, Parmenide. Il metodo la scienza e l’esperienza, Loffredo, Napoli, 1970

F.W. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, Adelphi, Milano, 1991

W. Heisenberg, Oltre le frontiere della scienza, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 105-120.

M. Heidegger Sull’essenza e sul concetto della physis, in Segnavia, Adelphi, Milano 1994

Per Aristotele Metafisica Perseus:http://www.perseus.tufts.edu/

Per Diels-Kranz Die FragmentederVorsokratikergriechisch und deutsch Daphnet: http://presocratics.daphnet.org/


[1]    Cosa peraltro segnalata pure da Heidegger quando giustamente rileva che l’essenziale compimento dell’eidos in Aristotele si ha nella categoria (kathegoreo) come chiamata pubblica: l’albero è tale quando la forma in cui si installa viene riconosciuta e perciò appellata dal linguaggio come questo: l’“albero”, quando cioè all’insieme di materia e forma che lo compongono si dà un nome (M. Heidegger Vom Wesen und BegriffderPhysis, tr. it. di F. Volpi, Sull’essenza e sul concetto della physis, in Segnavia, Adelphi, Milano 1994, pp. 193-255).

***

L’articolo è parte di Ô Metis V, Invenzione