Lo scorso Gennaio, nos semblables, è uscito Buone Cose, il secondo album degli Sventrapapere. Noi li seguivamo già dai tempi di Best Loff (2010) e ora con la scusa di incrociare il loro frontman (il suo sex appeal pare sia così forte da aver reso possibile la scoperta di onde gravitazionali primordiali che proverebbero la teoria del Gang Bang) li abbiamo intervistati per voi.

Gli Sventrapere sono:
Carmelo Bridgestone – Voce, emozioni e bellezza.
Fernando Buonapparte – Voce, chitarra, ukulello e ritornelli.
Eros Niccolò Tommaso Chista – Chitarra classica, pensiero prono-filosofico e pianola Casio
Manlio Mitili – Basso, chitarra elettrica, àuguri e sembianze barbariche.
Vassilij Briscola Gerundio – Fettine panate e altri strumenti di morte.

Di seguito, il loro secondo album e le risposte alle nostre domande. E in fondo, lieto come una nota a piè di pagina, un regalo
tutto per voi dalle corde di Carmelo Bridgestone.

 

Qua a Crapula vi seguiamo dal primo disco: L’ho fatto per l’Atalanta è una delle canzoni culto, ma il punto non è Cristiano Doni – o non direttamente. Il punto è che voi, Sventrapapere, volete fare La gaya scienza. Per cominciare, allora, vi chiedo: ma nella trasvalutazione dei valori, il trans e il bi non hanno forse un vantaggio comparativo schiacciante?

Manlio: bisognerebbe chiedere a Marrazzo o a Lapo, a noi piace solo la pucchiacca.

Fernando: Quando investi in un fondo, la società compra gli asset per tuo conto, e può combinare varie tipologie di asset all’interno del fondo. Ciò significa che non dovrai fare affidamento sulla performance di una singola azienda o categoria d’investimento, perché il rischio viene ben distribuito.

Vassilij: ho chiesto a Marrazzo e a Lapo e hanno detto sì, ma solo se sei tu a stare sotto.

Tommaso: Basta che non ti viene l’herpes.

Carmelo: sono solo etichette. Etiche e etichette ci vanno strette.

Tenendo presente il punto bacchico e demenziale, sperimentale e crapulone (scorreggia o trasvalutazione dei valori) del vostro progetto, mi pare che dal primo al secondo disco il discorso strettamente musicale sia molto cresciuto – le idee già c’erano nel primo, ma in Buone Cose arrangiamenti e esecuzione sono più curati; la forma è padroneggiata in modo più compiuto, il disco nella sua interezza pare delineare un percorso. Mi chiedo allora: qual è il peso della tecnica (la strumentazione, la pulizia dell’esecuzione, la conoscenza della musica, la produzione) quando si vuole fare La gaya scienza?

Manlio: eravamo semplicemente più ubriachi, poi a dir il vero la tecnica come fase destinale della metafisica e del nichilismo europeo a me fa moderatamente schifo.

Fernando: avevamo strumenti tecnici adatti a poter registrare una parvenza di disco e ne abbiamo approfittato. Senza nascondere le nostre carenze, anzi rendendole un nostro punto di forza (Mazzarri docet): nonostante le nostre discutibili abilità tecnico-musicali riusciamo ad impacchettarvi un buon arrangiamento spaziando tra vari generi musicali.
Poi, e parlo dal mio punto di vista, avendo materialmente curato le registrazioni e la struttura degli arrangiamenti, probabilmente in un vero studio di registrazione avremmo fatto ancora meglio e a quest’ora già stavamo a Castrocaro (o Castroman).

Vassilij: personalmente ritengo che la “crescita”, in molte delle diverse accezioni del termine, sia un bluff. Come tale, può riuscire o non riuscire con diverse intensità, sfumature ed eventualmente risultati. Potrei dire che il vivace e a tratti esuberante fuoco sacro della prima esperienza sia stato ammaestrato, con pugno di ferro in guanto di velluto, per favorire un maggiore controllo stilistico sulla stessa fiamma. Suonerebbe però un po’ come “l’importante è saperlo usare”, spesso invocato in mancanza di altre stoffe pregiate che non necessariamente devono addolcire l’impatto con il pugno di ferro, soprattutto se esso stringe il proprio personalissimo pesce. Ed è da quest’ultimo che dipenderebbero i vari pesi citati nella domanda, “un tanto ar chilo” appunto.

Tommaso: La tecnica è un modo della “Entbergung”, vale a dire che è come una mutanda: anche se occulta (verbo), prima o poi devi toglierla. Noi, però, che siamo controcorrente, abbiamo fatto il contrario: prima abbiamo fatto senza, e poi ci siamo coperti, per evitare che ci prendessero in giro, cercando di fare, tutto sommato, ciò che ha detto Vassilij. In generale, quindi, l’importante è che la tecnica dia l’idea di nascondere qualche cosa che forse non c’è.

Carmelo: secondo me quando componi col metodo sventrapapere il tasso tecnico è direttamente proporzionale alla fratellanza col pene: meglio suoni, chiù si ‘o frat d’o cazz. Noi vogliamo diventare il suo gemello.

A parte la serie “Ferrovia del prelato”, i miei pezzi preferiti del disco sono quelli forse più distanti dalla tradizione cantautoriale italiana (El Gringo De Dios, Inzaghinho, Mi chocolatino). Eccezioni ovviamente sono Dy Namo e Love Boat. In che relazione con la tradizione musicale italiana si mette uno che oggi vuole fare musica e non vuole fare il “cantautore impegnato”? L’indie è l’unica via? E in definitiva, che cazzo è l’indie?

Manlio: sarò più categorico dei miei compagni, a me il cantautorato fa cagare, e l’indie nell’accezione contemporanea del termine riferita ai vari Bruono Ori e Dente e tutte quelle ricchionate è quanto di peggio sia mai esistito. Se per indie parliamo di musica indipendente fatta da gente senza una lira alla maniera del D.I.Y (quindi sono indie i Black Flag, i Minor Threat, i Saint Vitus e Burzum), le cose cambiano. Ma alla la pretesa di identità tra nome e cosa è solo metafora e convenzione, flatus vocis diceva Roscellino, peto istituzionalizato, quindi a n’a certa sti cazzi (cit. V. B. G.).

Fernando: Love Boat nasce volendo sottolineare in pieno la tematica della tua domanda: sappiamo fare meglio noi i cantautori dei vari Dente & co., ma non per questo ci fermiamo alla forma canzone cantautoriale. Cerchiamo di affrontare diverse sonorità perché sennò ci cachiamo il cazzo. Semplice.
L’indie, per come giustamente lo descrivi tu, non è un genere né tantomeno un’attitudine al diy. Diventa  soltanto una giustificazione alla mediocrità compositiva del buon 90% dei musicanti italiani.

Vassilij: saper distinguere, apprezzare e conoscere intimamente i vari generi è sicuramente importante, anche se molti trovano decisamente più stimolante rivolgere le loro attenzioni alle nuore. La musica (e solo la musica) che in qualche modo riesce ad avere qualcosa da dare, dà, e va bene così. Il resto, anche chi la scrive, è roba che una volta si poteva trovare alla Rinascente e oggi da Lidl, credo. In questa banca entri quando vuoi.

Tommaso: “Indie”, genealogicamente, è termine che indica produzioni artistiche non “mainstream”, e che inizialmente doveva essere incentrato soprattutto sul lato dei mezzi di produzione: chi non ha mezzi tecnici adeguati, fa l’indie. Successivamente, il termine però è passato anche a designare la musica di chi, avendo sfondato, ha continuato a produrre un certo tipo di sonorità. Spesso, peraltro, l’effetto dello studio su melodie e progressioni armoniche semplici, rende questo tipo di prodotto più posticcio, mettendone a nudo la “semplicità”. Quindi sono d’accordo con Fernie-t: ormai credo si tratti di una etichetta per scusarsi del fatto di usare cinque accordi, quantunque si possano fare cose dignitosissime pure al riguardo. Lo stesso Brunori, di cui mi era piaciuto il primo disco, credo sia andato via via spegnendosi (i testi dell’ultimo albume sono davvero fiacchi). Per quanto ci riguarda, vista anche la varietà nella composizione del gruppo, proviamo a fare (spesso male) più cose, perché tutto il resto è noia (Schopenhauer, “nota ala destra della nazionale tedesca degli Anni ’70”, cit. F. Califano). Su “Love Boat”: si tratta in realtà di una grossa presa per il culo a un certo tipo di cantautorato, nonché forse all’intera forma della canzone. Credo che questa canzone, apparentemente marginale, ci rappresenti bene, giacché esprime al contempo l’idea di saper padroneggiare una certa forma per poi distruggerla subito dopo, per il puro gusto di farlo. Un po’ come quello che hanno fatto gli anni ’90 ad Ian Ziering e alle sue scarpe. Scemo chi legge.

Caramello: indie : neomelodico =  gay : ricchione ‘e mmerda

Bobo Vieri o Heidegger? La cosa è seria perché quello che viene fuori ascoltandovi è l’impressione di una poetica che mette insieme alto e basso, aulico e scatologico. Ora io non ho dubbi che tra i due citati sopra l‘aulico sia Bobo Vieri.

Manlio: La differenza sta solo nel fatto che la Canalis è più pietra della Arendt e forse pure più intelligente.
Io comunque scelgo Melissa Satta.

Fernando: Preferisco Max Vieri.

Vassilij: alto basso grasso secco, dai Carletto che tocca a te!

Tommaso:  Applichiamo un meccanismo compositivo ginsbergiano (vd. Jukebox all’idrogeno, Sandwich of realities), sovente, o solvente. L’idea sarebbe: chi siamo noi per separare Montale e Miriana Trevisan (vd. nuovamente “Love boat”), se ci vengono in mente contemporaneamente? D’altronde la vita è questa, come diceva la Eliot di “Scrubs”: “so much composed of odds and ends”. Galante in forma smagliante. E comunque la Canalis è meglio della Satta, perché più genuina: evviva i physei onta!

Carmela: un dasein che caca bene è un dasein libero.

[Ci hanno fatto un regalo, un pezzo apposta per noi che vi trasmettiamo con grande piacere – in cambio, bisogna dirlo, noi gli abbiamo offerto 7 vergini, due eunuchi, un Tadzio, una fotocopiatrice laser usata e due cicciotti di burro salato direttamente dallo sbarco in Normandia. Buone Cose!]