(senza titolo).

Se c’è una cosa che odio fare, è dare spiegazione di ciò che scrivo in versi. Ora, voi pochi che passate, penserete che Alonso Quijano – o chi per lui – sia un vanesio. Pensatelo pure, tanto a me importa poco. Ciò che mi interessa è non creare equivoci, e questi si annidano soprattutto nelle menti più solerti a vedere solo ciò che tali menti vogliono vedere.
Vengo al testo. Anzi alla similitudine, che è lo snodo semantico, in cui si passa dalla fase sessuale – il desiderio di scopare, di travolgere e tacere – a quello più precisamente poetico, cioè del poeta.
Nulla in questi ultimi mesi di lettura poundiane, moreschiane e kafkiane, nulla, ripeto, mi distoglie dal pensare alla “gabbia” o “al sotterraneo”, poichè è qualcosa che io trovo familiare nella letteratura e che provo a esprimere anche io (con ciò mi si taccerà anche di citazionismo? di affiliazione?). Dunque, la similituine: c’è un momento – Così, poeta, rifiutato il giudizio, le hai odiate – in cui il discorso (messo a tacere il cazzo, dopo le prime due quartine, tutte cucite di ironia:  Perchè vuoi posserdere il dentro, mucoso buco eiaculato, pur di non parlare.) si volge verso la parola stessa (le sbarre) e si annuncia così il vero unico amore del poeta, la sua malleabilità e ostinazione insieme. Inolte il giudizio che si rifiuta è proprio quello banale e costrittivo di poeta d’amore, di parolaio per scopare. Io di tutto questo verminaio non so che farmene, io anzi voglio guardarlo da fuori il mondo, perchè non mi preoccupa esserci stato dentro, magari averne anche goduto.
Infine, detto schiettamente, questa poesia parla dell’ira, la prima parola dell’umanità che conosce sè stessa e non certo di una qualche scopatella, che definire dionisiaca è una sciocchezza.