I.

Hai scoperto il diario per caso. Un cliché, capita sempre così.
Spalanchi l’armadio per risolvere la questione dei suoi abiti, una volta per tutte; sollevi una pila di maglioni e trovi una scatola di scarpe; la prendi e la metti da parte, accanto all’altra dozzina di scatole di scarpe, le sue. Poi, dopo un lasso di tempo incalcolabile in cui hai svuotato mezzo armadio, hai innalzato colonne di vestiti sul letto matrimoniale classificate per stagione e colore, mentre stai pensando che non ce la farai mai a finire tutto da solo, perché hai pure un’età, e stai ragionando sulle persone a cui chiedere aiuto per spostare tutto da qualche parte, magari per trasferire tutta quella roba in garage per poi portarla alla sede della United Caritas, magari con la macchina di tuo figlio, in quel momento, in quel preciso momento, ti sorge la domanda; così, spontaneamente, senza preavviso: come mai quella scatola di scarpe era nell’armadio e non nella scarpiera?
Un pungiglione che ti stuzzica la carne scoperta.
Allora, un po’ perché avevi bisogno di una pausa, perché spostare vestiti è comunque faticoso, e c’hai una certa età, s’è detto, mica sei un giovine, un po’ perché le scatole di scarpe ingombravano il passaggio in corridoio e le dovevi spostare comunque perché rischiavano di farti inciampare, allora ti decidi, e scegli di aprire quella. Proprio quella.
Così scopri che, sotto i tacchi di un paio di décolleté bordeaux classicissime, che avrai visto mille volte ai piedi di tua moglie, c’è un taccuino nero con i bordi usurati e legato con l’elastico.
La tua meraviglia è tanta.
Si potrebbe inventare una massima: il marito non metta mai il naso tra i tacchi della moglie. Suona bene.
Ma tu non sei più un marito, sei un vedovo.
Avevi atteso un bel po’ di tempo per iniziare quella pulizia: si sarebbe dovuto procedere subito dopo la sua morte, ma non ce l’hai fatta. Tuo figlio te lo ripeteva di continuo: dona tutto ai poveri, come vorrebbe mamma.
Ma a te sembrava troppo presto, era sempre troppo presto. Rinviando di giorno in giorno, di settimana in settimana, si è arrivati a due anni. Due anni e scopri che tua moglie nascondeva un taccuino in una scatola di scarpe nell’armadio della camera da letto.
Meglio tardi che mai.

II.

Hai ragionato molto sul da farsi.
Leggere il taccuino o disfartene? Ormai lei non c’è più, non ha senso rovistare nel suo passato, che poi potrebbe essere anche il tuo, di passato. Anzi dovrebbe esserlo: quarantun anni assieme. Magari non contiene nessuna rivelazione straordinaria, magari è un diario in cui tua moglie annotava le piccole cose che le accadevano quotidianamente, le stupidaggini, le bazzecole, magari non c’è nessun amante.
Amante.
Inutile girarci attorno. Il tuo primo pensiero è stato quello. Tua moglie aveva un amante e tu non l’hai mai scoperto. È l’unica idea che ti può far male. Non quanto avrebbe fatto male qualche anno fa: ti avrebbe devastato, qualche anno fa; adesso è tutto attutito, sfumato, appannato, anche i sentimenti, le emozioni, le gelosie. Giungono da un mondo lontano, da una dimensione parallela.
Un mondo diverso, prima del grande Solco, prima che le nazioni crollassero e il mondo precipitasse nella barbarie e arrancasse nella sopravvivenza, prima che tua moglie si ammalasse e morisse nel giro di sei mesi.
Un mondo in cui si poteva ancora uscire a qualsiasi orario, non soltanto dopo il passaggio dei Depuratori. In cui si poteva aprire una finestra, si poteva correre all’aria aperta, si poteva girare per strada senza la tuta.
Ti rigiri tra le mani quel taccuino, carta e cartone, roba d’altri tempi, niente digitale, tutto analogico, e ti interroghi sulla convenienza di liberarlo dall’elastico.
Osservi la piccola croce dorata, consumata ma visibile, al centro della copertina. Potrebbe essere una bibbia, un testo religioso, una raccolta di preghiere. Sorridi per tutto quello che ti stai immaginando, per come è distante l’immagine di tua moglie che vedeva segretamente qualcuno in una camera d’hotel, da quella di tua moglie concentrata in preghiera, in ginocchio accanto al letto.
Pensi che dovresti proprio leggerlo, quel taccuino che ti sta togliendo il sonno.

III.

I due incaricati della United Caritas sono passati a ritirare tutto a casa tua con un furgone giallo. Ricko e Gimmi, così si chiamavano, hanno imballato vestiti e oggetti personali di tua moglie in confezioni sottovuoto igienizzate e le hanno caricate con dei muletti-robot senza alzare un mignolo.
Ventuno pacchi, tutta la vita di tua moglie in ventuno pacchi.

Comunque, a pensarci dopo, era logico che la United Caritas avesse un servizio di ritiro a domicilio; ed è assurdo che tu non ci abbia pensato prima.
Per fortuna ne hai parlato con tuo figlio durante una chiacchierata in videostreaming; lui si è subito informato con un paio di giri di indice sul monitor e ha prenotato un appuntamento a tuo nome. Lo ha fatto in pochi minuti, col tablet, davanti a te, mentre la tua nipotina ti mostrava un disegno che aveva fatto durante una lezione scolastica.
La piccola aveva disegnato te e la nonna che andavate su Plutone a cavallo di un razzo. Poi la nonna restava su Plutone e tu tornavi sulla Terra. Ma questo non l’aveva disegnato, l’aveva detto a parole.
Non sai se essere contento o triste per quel disegno. Ti ha lasciato immalinconito. Speri che la bambina non se ne sia accorta, non c’è niente di più triste di un nonno triste.
Ora sei solo a casa vostra. Ormai casa tua. Non c’è più niente di lei, non ci sono più neanche i suoi vestiti. È rimasta solo qualche foto e qualche video sul computer, ma non ti va di riguardarli.
Ora hai tutto l’armadio per te e non sai come riempirlo, è vuoto, è una spelonca di grucce nude e mensole piatte.
Ora è arrivato il momento di leggere il taccuino.

IV.

L’elastico viene via con un po’ di difficoltà. Lascia il segno di schiacciamento sul nero della copertina, una specie di ecopelle senza venature. Non veniva tolto da un pezzo, potrebbe anche rompersi, come capita spesso agli elastici vecchi e tenuti in tensione per tanto tempo.
Apri il taccuino e ti accorgi che si tratta di un diario scritto a mano, con la biro, come si faceva un tempo. Oggi nessuno scrive più a mano, scrivono tutti sui monitor, sui touch-screen, sulle tavolette grafiche.
L’umanità ha perso una delle peculiarità che la distingueva dagli altri esseri viventi: la calligrafia.
L’odore che sale dai fogli è di muffa e umidità. Le pagine sono ingiallite, non si staccano facilmente, sono rimaste compresse per troppo tempo.
Realizzi che la grafia è quella di tua moglie e questo ti fa stringere lo stomaco. Non vuol dire niente, non sai ancora nulla di quel taccuino, ma questo particolare ti fa stare male.
Leggi le prime righe e capisci che si tratta di una poesia. Tua moglie ha sempre amato le poesie.
È in francese, tu non hai mai imparato il francese, ma la sua grafia, con tutti quegli accenti e quelle lettere arrotondate, ti sprofonda nella mestizia. Forse è Verlaine o forse è Rimbaud. Lei li citava spesso.
Scolli le pagine: immergerti nell’inchiostro di tua moglie è come ritrovarla accanto a te. È lei che ti rivolge di nuovo la parola.
Giri i fogli e i tuoi occhi appannati dalle lacrime non riescono più a distinguere le lettere.

V.

Leggi poesie in francese ma anche in italiano, riconosci Umberto Saba, leggi appunti di vita, di tua moglie giovane, riconosci tua suocera descritta mentre cucina il suo rinomato polpettone, leggi piccole composizioni che sono poco più che pensierini della sera.
A metà taccuino ormai hai la mente colma di lei, della sua vita, della sua giovinezza, della sua emotività.
Realizzi che tu non ci sei mai, che non parla mai di te, non parla mai del matrimonio, non parla mai di vostro figlio.
Poi leggi dell’incontro con un sacerdote affascinante.
Tua moglie scrive che da quando c’è lui, uomo di chiesa, lei ha ripreso a frequentare la parrocchia.
Tua moglie è sempre stata devota, ma non ricordi questo particolare, non te ne ha mai parlato.
Sfogli il taccuino e trovi una pagina trascritta da Kahlil Gibran.
Quando l’amore vi chiama, seguitelo, benché le sue vie siano ardue e ripide. E quando le sue ali vi avvolgono, abbandonatevi a lui, anche se la spada nascosta tra le sue penne può ferirvi. E quando esso vi parla, credetegli, anche se la sua voce può infrangere i vostri sogni come il vento del Nord quando devasta il vostro giardino. Poiché come l’amore v’incorona, così vi crocifigge.
C’è un appunto aggiunto posticcio: ore 19, chiesa dell’Addolorata.

VI.

Tua moglie scrive poesie d’amore per lui, per il prete. Amore tormentato, amore doloroso, amore non corrisposto.
Poi c’è un bacio, lei scrive delle labbra morbide tra la barba ruvida. Ti si strizza la pancia. Possibile che non te ne sia accorto? Possibile che lei abbia sofferto tutti questi martiri amorosi senza farsene accorgere da te? Possibile che tu sia stato così distratto?

VII.

Quando ti è capitato di pensare al tuo funerale, hai sempre immaginato un corteo di ombrelli neri sotto la pioggia in coda a un carro funebre, il passo lento dettato dalle campane a morto, tua moglie infagottata a lutto sorretta da tuo figlio, entrambi piangenti. Perché ancora oggi, nella tua immaginazione, tu te ne sei andato prima di lei. Perché un marito se ne va sempre prima della moglie. Perché nei tuoi sogni a occhi aperti si può ancora camminare per strada, sotto la pioggia battente, senza rischiare l’avvelenamento dell’epidermide o l’intossicazione delle vie respiratorie. Perché nella tua mente il grande Solco non c’è mai stato.
Chiami un Global Taxi con un paio di click sul tablet e ti rispondono che arriveranno sotto casa tua in sette minuti esatti.
Hai continuato a leggere il taccuino, hai ricostruito che la chiesa dell’Addolorata è quella di un paesino della provincia, un paesino che conosci bene perché tua moglie ne parlava spesso. Ora capisci il motivo.
Perché ci andava a seguire le messe di quel sacerdote, perché lanciava sguardi lascivi all’altare, perché si scambiava baci segreti in sagrestia.
Ora vuoi andarlo a trovare, il sacerdote. Non hai intenzione di trascendere in scenate di gelosia. Non ne hai la forza.
Vuoi solo guardarlo negli occhi.
Indossi la tuta e la maschera per uscire. Non lo fai più tanto spesso. L’ultima volta è stato per il cenone di Natale, quando ti venne a prendere tuo figlio.
È faticoso infilare la tuta, alla tua età. Prima un piede, poi l’altro, poi il carico sulle spalle. Hai già il fiatone.
Il tablet rilascia due cicalini. Vuol dire che il Global Taxi è in attesa davanti al portoncino.
Indossi la maschera, respiri un paio di volte per prendere confidenza con l’aria depurata ed esci fuori. Il sole ti acceca. Lo fa ogni volta, anche quando eri giovane. Ma quando eri giovane era piacevole.
L’auto è in attesa con lo sportello aperto. Ti sistemi prendendoti tutto il tempo di cui hai bisogno. Quando sei comodo, pigi il pulsante.
Lo sportello si chiude e partite, tu e l’auto. Una voce registrata avverte di non togliere la maschera perché l’abitacolo è privo di pressurizzazione; aggiunge che il viaggio durerà un’ora e quattro minuti.
Devi ancora abituarti all’idea che non esistono più gli autisti.

VIII.

Il tragitto è stato sconsolante come il paesaggio che osservavi attraverso il plexiglass: schieramenti di capannoni industriali, accumuli di costruzioni in cemento, stormi di droni da consegna. Nessun albero, nessun animale, nessun uomo. Non sei riuscito a scorgere neanche un essere vivente.
Avresti voluto leggere il taccuino che ti sei portato dietro, ma non ci riesci con la tua maschera di respirazione. Quelle di nuova generazione sono molto più piccole e confortevoli, ma non hai intenzione di cambiare la tua. Non sei come certe persone che comprano sempre il modello all’ultimo grido.
Il Global Taxi si arresta davanti alla chiesa. Apri lo sportello. L’Opzione Ritorno ti garantisce che resti in attesa. Hai pagato un po’ di più, ma sei certo che per tornare a casa non devi aspettare in piedi, in mezzo alla strada, sotto il sole.
Smonti con i tuoi tempi, nella piazza del paese deserta e rosolata dai raggi.
La facciata della chiesa è imponente, abbacinante per la sua pietra chiara, rilucente per le vetrate colorate che riportano scene della Bibbia e immagini dei santi.
Sali con fatica i gradini fino al sagrato ed entri.
Il portone si schiude e si chiude ermeticamente dopo il tuo passaggio. Un display ti informa che puoi liberarti della maschera, che la permanenza in chiesa è gratuita, offerta da un’azienda di smaltimento rifiuti, e che la prossima messa sarà celebrata tra meno di cinque ore.
Segui il consiglio, perché non ce la fai più con l’ossigeno artificiale: sfili la maschera e ti concedi qualche minuto per ricominciare a respirare senza ausili. Inspiri ed espiri. Inspiri ed espiri. Ti perdi nelle lame di luce colorata che giungono dalle vetrate e tagliano l’abside fino ai banchi.
Sei solo, i tuoi movimenti rimbombano sopra i canti gregoriani rilasciati in sottofondo dal sistema di diffusione audio.
Sfili i guanti e ti avvicini al display delle informazioni accanto all’acquasantiera priva di acqua: rammenti un’enciclica papale che ne vieta la presenza per motivi sanitari.
Clicchi sul pulsante delle informazioni perché vuoi conoscere il nome del sacerdote che celebrerà la prossima funzione. Sei emozionato, ti trema il dito mentre realizzi la sequenza di tasti.
Il display mostra la foto di un sacerdote della Confederazione Africana. Lo fissi e pensi che non si tratti della persona che cerchi. È molto giovane. È troppo giovane.
Nel menù informativo rintracci la lista di tutti i sacerdoti che celebrano in quella chiesa.
L’elenco che ti viene snocciolato è molto lungo, almeno una quarantina di nomi. Una segnalazione in basso avvisa che nessun sacerdote è fisicamente presente. Tutte le funzioni sono trasmesse in modalità olografica.
Non capisci il senso di quella affermazione. Recuperi il taccuino dalla tasca, lo apri, trovi la pagina in cui tua moglie scrive di aver stretto la mano del sacerdote. Rileggi la pagina successiva, quella che ti ha fatto più male: tua moglie scrive che c’è stato un bacio. Non capisci. Come può essere? Come si può baciare un ologramma? Forse non è la chiesa giusta?
Avverti il bisogno di parlare con qualcuno, di avere un’interazione che non sia automatizzata. Ti dirigi verso i confessionali. Il led verde indica che sono tutti liberi. Entri, spostando la tendina, e ti inginocchi sui cuscini di spuma reggendoti al mancorrente in legno. Avrai problemi ad alzarti, prevedi.
Il display davanti alla grata ti comunica che la confessione è gratuita previa registrazione digitale. Segui la procedura e ti iscrivi come nuovo utente. Inserisci nome e cognome, data di nascita, luogo di nascita.
Il sistema apre una finestra di comunicazione: c’è scritto che l’utente è già esistente. Ti chiede la password. Non capisci. Forse hai sbagliato a inserire qualche dato. Torni al menù principale. Inserisci di nuovo tutti i dati, questa volta con più attenzione. Compare la stessa segnalazione. Utente già esistente, inserire la password.
Non ricordi di esserti mai iscritto in questa chiesa. Non ricordi di esserti mai iscritto in nessuna chiesa.
Ti alzi aggrappandoti al legno. Le ossa scricchiolano e i tendini ti dolgono. Sei in piedi ma hai già il fiatone.
Esci dal confessionale mentre senti la testa che inizia a girare, scruti i banchi e pensi che è meglio se vai a sederti un attimo.
Mentre attraversi la navata col tuo passo claudicante il portone della chiesa sbuffa la sua apertura stagna: entra un uomo in tuta e maschera.
La persona ti individua, ti si avvicina e si sfila il respiratore, svelando il volto. È un uomo maturo: capelli bianchi, qualche ruga, diresti che ha dei lineamenti conosciuti ma non sapresti associarli a un nome. Sembra che ti conosca. Che sia lui l’amante di tua moglie?
L’uomo si avvicina e ti abbraccia. Ti stringe, ti chiede se ti senti bene, ti chiede se ricordi il motivo per cui sei venuto in quella chiesa. Ti chiama papà.

IX.

Le navate echeggiano dei canti gregoriani a ciclo continuo.
Tu sei seduto sul banco, in ultima fila, e ti fissi le mani scheletriche. La persona che afferma di essere tuo figlio ti sta accanto. Dice che ti ha seguito appena gli è arrivata la notifica dalla società di prenotazione del Global Taxi, perché ha il monitoraggio dei tuoi movimenti. Dice che voleva capire dove avessi intenzione di andare.
Tu lo scruti spaesato. Non ricordavi di avere un figlio di questa età. Gli mostri il taccuino. Dici che volevi scoprire l’amante di tua moglie.
Lui ti guarda con tenerezza e dice che la mamma è morta da due anni, e che non ha mai avuto un amante.
Apri il taccuino e gli mostri le pagine in cui dedica poesie d’amore all’altro. Affermi che questa è la chiesa in cui si incontrava con il sacerdote, il suo amante.
Lui legge le parole, gli spunta una lacrima che asciuga repentino. Chiude il taccuino. Chiede dove l’hai trovato. Rispondi che è spuntato tra le cose di tua moglie.
L’uomo annuisce, ti prende la mano e sussurra che è ora di tornare a casa. Aggiunge che devi ricominciare a prendere i medicinali, così ti sarà tutto più chiaro. Dice che li hai sospesi senza una motivazione.
Vi alzate e vi dirigete verso l’ingresso. Ti lasci guidare. Ti aiuta ad indossare la maschera, ti controlla la sigillatura della tuta, ti domanda se sei pronto a uscire. Ti invita a salutare la tua chiesa.
Dice così: la TUA chiesa.
Chiedi spiegazioni per quell’aggettivo e lui risponde che molto tempo prima è stata la tua chiesa. Indossa anche lui la maschera mentre le porte ansimano all’apertura.
Uscite al sole rovente che ti abbaglia, ma forse tornerai a vedere presto.

*****

In copertina: Rembrandt, Old Man with Beard, 1630 circa.