Da ore si susseguivano i discorsi di tutte le cariche e commissioni: sui banchi alcuni deputati chiacchieravano sottovoce, altri erano immersi negli schermi, altri ancora si guardavano attorno impazienti, una decina, sfinita, si era abbandonata al sonno. Indifferentemente da chi li pronunciasse, ringraziamenti, aneddoti e vuoti flussi di parole riempivano l’aria senza catturare l’attenzione di nessuno. L’aula non era mai stata così piena se non per la seduta inaugurale, eppure era vuota per un terzo. La maestosa sala d’Ercole continuava a sorprendere qualche deputato che si accorgeva di non aver mai fatto caso a questo o quel particolare degli affreschi, della volta o dei lampadari.
L’onorevole Alloro si alzò con cautela, si scusò con i colleghi. Uscito dai banchi andò verso il fondo dell’aula; appena fuori accelerò il passo, raggiunse i bagni, aspettò qualche secondo, quando fu sicuro di essere solo si chiuse a chiave. Tirò fuori dalla tasca della giacca una bustina in plastica trasparente, la scosse colpendola con un dito, sospirò sollevato, la aprì e distese il contenuto. Si chinò e aspirò dal naso la polvere bianca. Si guardò allo specchio, controllò di essere pulito, aggiustò i capelli e uscì. Quando rientrò in aula, il Presidente della Regione aveva appena ripreso parola.
«…C’è qualcuno che ancora deve parlare?» Nessuno si fece avanti, «Allora vi ringrazio tutti per il lavoro svolto. Passo la parola al Presidente dell’Assemblea per i saluti».
Il Presidente dell’Assemblea si alzò: «Onorevole Presidente della Regione, onorevoli colleghe e onorevoli colleghi, è stato davvero emozionante ripercorrere i traguardi di questa fruttuosa legislatura. Vi ringrazio di nuovo per l’onore concessomi. Ma il vero ringraziamento deve andare ai nostri cittadini, milioni di siciliane e siciliani,» qualcuno cominciò ad applaudire, «che ci hanno permesso di essere qui,» altri deputati si unirono all’applauso, poi quando si rifece silenzio continuò: «per l’interesse dei quali abbiamo combattuto con onestà e senso di giustizia. Possiamo essere orgogliosi del cospicuo lavoro svolto. Grazie a tutti!»
Un ultimo, scrosciante applauso segnò la fine del discorso.
La seduta era chiusa, l’assemblea sciolta definitivamente. Come una scolaresca al suono della campanella, i deputati si alzarono all’unisono, raccolsero le loro cose e si affrettarono a lasciare l’aula.
Il Presidente dell’Assemblea riprese il microfono: «Cari colleghi, un momento…» il boato si attutì, «vi ricordo di non lasciare il Palazzo perché nella sale del Duca di Montalto sarà offerto un rinfresco in occasione dell’inaugurazione della mostra che celebra la plurisecolare storia del parlamento siciliano».
Il boato riesplose, si spostò per i corridoi e si riversò sullo scalone d’onore, echeggiando dai loggiati nella corte.

Palazzo dei Normanni sfavillava nella splendida sera autunnale, ogni luce era stata accesa e ogni angolo lucidato ad arte. Una schiera di camerieri guidava i deputati verso il rinfresco, offrendo su vassoi d’argento calici di aperitivo.
Arrivati al piano terra, alcuni rimasero nella corte, fumando o chiamando al cellulare, la maggior parte scese verso il rinfresco: erano affamati, l’assemblea si era prolungata per tutto il pomeriggio. Tra saluti e chiacchiere piccoli gruppi si creavano e si dissolvevano a grande velocità.
Qualcuno si divincolò dirigendosi in fretta versa l’uscita, l’onorevole Aragona fu il primo a raggiungere la porta, la spinse ma non si aprì.
Un cameriere si avvicinò: «mi dispiace onorevole, ma il Presidente della Regione ha chiesto di non lasciare uscire nessuno se non a rinfresco finito».
«Rompicoglioni fino all’ultimo! Meno male che con oggi è finita!» tornò indietro.
Subito dopo arrivò l’onorevole Bologni, il cameriere ripeté il comando: «Cosa? C’è la partita del Palermo! Devo essere allo stadio tra dieci minuti!»
«Mi dispiace ma non posso farla uscire!»
«Vado a chiedere spiegazioni al Presidente, cos’è un sequestro?»
Gli ultimi ritardatari scesero nella sale del Duca di Montalto, i pannelli esplicativi che ripercorrevano la storia del Palazzo dei Normanni e del parlamento siciliano venivano ignorati, il tavolo del buffet era preso d’assalto, la cucina siciliana aveva la vittoria assicurata: panelle, arancinette, caponata, tabulè di verdure, bruschette al pomodoro, polpo bollito, frittura di cappuccetti, sarde a beccafico, gamberi marinati e molte altre specialità.
L’onorevole Amari, che quella sera indossava un tailleur rosa, parlava con l’onorevole Divisi: «Allora quando vuole la ospito nella mia villa di Pantelleria, ovviamente anche sua moglie e i ragazzi. Avevo proprio bisogno che lei desse la spinta decisiva».
«È stato un po’ faticoso ma all’ultimo minuto ho aggiunto un paio di milioni di euro: lei e suoi elettori siete a posto per almeno un altro anno. Ne parlerò con Mimma, ma credo che sarà contenta di andare».
«La aspettiamo allora…», poi vide tra la folla comparire degli inconfondibili baffi, «oh guardi, l’onorevole Bologni, vado a salutarlo…»
L’onorevole Amari salutò l’onorevole Bologni che si avvicinò: «Ciao Enza, hai visto il Presidente della Regione?»
«No, perché? Sembri agitato…»
«Quello stronzo non vuole farmi uscire, c’è la partita e io devo stare qua. Non merita di essere vista su un cellulare, ci giochiamo la seria A! Devo trovarlo!» si dileguò.
«Ciao Enza, ti sta piacendo la mostra?» era l’onorevole Del Fante, in un completo arancione e nero, una collana di topazi le adornava la generosa scollatura.
«Ciao Rosalia, veramente non l’ho ancora attenzionata, dopo la vedo. Hai assaggiato il polpo? È buonissimo».
«Si… non sembrava così fresco, questo buffet è proprio scadente, perché devono essere così tirchi!»
Improvvisamente tutte le luci si spensero, il silenzio cadde sulla sala. Nessuna luce di emergenza si accese, il buio era totale. Nello stesso momento tutte le linee elettriche dell’isola saltarono: da Messina a Trapani, da Palermo a Siracusa, da Catania ad Agrigento la sera si era fatta nera come una notte antica.
I deputati iniziarono a illuminare con le luci bianco-azzurre dei cellulari: «Che succede?» chiese qualcuno.
«Non c’è neanche campo… » si lamentò qualcun altro.
«Ora ritorna» rassicuravano altri.
Poi una voce rimbombò dall’alto: «Buonasera onorevoli! Prima di tutto vi chiedo di scusarmi per questa interruzione,» i deputati si guardarono attorno stupiti, la voce dal tono allegro continuò: «ma degli amici sono venuti a trovarvi!»
Dall’ingresso si fecero avanti delle sagome in fila, alcune tenevano in mano fiaccole che lanciavano caldi bagliori nell’oscurità, delle voci recitarono in coro: «Beatus qui intellegit super egenum et pauperum» Altre voci continuarono: «In die mala liberabit eum Dominus…»
Si schierarono in linea, erano dodici, indossavano completi neri militari, con stivali e guanti, le teste erano incappucciate con copricapi a punta, quattro viola, quattro rossi e quattro bianchi.
Tutti in coro finirono il salmo: «Dominus conservet eum et vivificet eum, et beatum faciat eum in terra et non tradat eum in animam inimicorum ejus».
Gli occhi più acuti videro le pistole sulle cinture, si levò qualche risata nervosa.
«Conoscete i miei ragazzi?» chiese la voce dall’alto, «abbiamo dormito qualche secolo ma adesso siamo tornati! Siamo un’associazione, anche se storicamente conosciuti come “setta”. Siamo venuti a portare un po’ di giustizia…»
«Ma che scherzo è?» un uomo con i baffi anni settanta si fece avanti, andò incontro agli uomini schierati, «non ho tempo da perdere, fatemi passare!»
Gli incappucciati non si mossero, quando l’onorevole Bologni arrivò a distanza di due metri esatti, risuonò uno sparo. Qualcuno urlò, l’uomo si accasciò, stette immobile. Uno degli incappucciati di bianco ripose la pistola nel fodero.
«Scusate di nuovo, ho dimenticato di dire che dovete stare calmi e collaborare: non vogliamo un bagno di sangue, ognuno avrà solo quello che merita,» l’incredulità e la paura avevano paralizzato il pubblico.
«Continuiamo… la maggior parte dei miei amici è venuta per l’occasione da lontano, solo quattro sono venuti in auto, gli altri risiedono all’estero: Germania, Irlanda, Spagna, Emirati Arabi, Stati Uniti e Messico. Abbiamo giuristi, ingegneri, linguisti, architetti, economisti, medici, operai e camerieri. Ma tutti hanno molto a cuore la nostra Sicilia, ci vivrebbero se solo fosse possibile. Abbiamo tollerato a lungo, ma ora è il momento di agire: abbiamo quindi istituito un tribunale: il tribunale dei Beati Paoli…»
Una donna cominciò a piangere, «non disperatevi! Se avete la coscienza a posto non vi accadrà niente di male! E non pentitevi di essere venuti all’ultima, inutile e noiosa assemblea, i vostri colleghi non presenti stanno ricevendo una visita a domicilio» la donna tentò di trattenersi.
«È stato un lungo lavoro, con una gran mole di cartacce che tanto vi piacciono, un anno di ricerche e dibattiti sull’operato di ognuno di voi. Ogni vostra mossa è stata registrata e giudicata. La corrente giustizialista che voleva far saltare l’intero Palazzo è stata per fortuna messa da parte. Per comodità abbiamo diviso tutti i possibili giudizi in tre gruppi…»
Gli uomini incappucciati di rosso si mossero, si fecero largo tra il pubblico e raggiunsero il tavolo con il beveraggio.
«Allora, non abbiamo molto tempo, cominciamo! Posizionatevi su due file indiane parallele, chi ha già un bicchiere lo svuoti, gli altri lo riceveranno».
I deputati si mossero confusamente, si strinsero verso il fondo.
«E no! Così saremo costretti ad aprire il fuoco… ragazzi!»
Gli incappucciati di viola si mossero, fecero schioccare le fruste. Come dei domatori con un branco di animali circensi iniziarono a forzare i deputati all’ordine.
«Onorevoli, dignità!»
Poco a poco, spingendo chi avanti e chi indietro, presero posizione su due file.
«Adesso, quando sarà il vostro turno, vi sarà servito da bere. Dovrete calare giù per la gola fino all’ultima goccia. Se non lo farete vi prenderete una pallottola nel cervello, come il vostro irrispettoso collega…» Intorno al cadavere si allargava una pozza rossa e lucida.
Tremori, lacrime e singhiozzi si diffusero tra i deputati.
«Siete tutti pronti? Sappiamo chi siete ma quando vi toccherà direte il vostro nome, poi berrete. Quando avremo tutti finito diremo in cosa consiste il giudizio, poi toglieremo il disturbo. Infine dai sintomi riconoscerete la pena ricevuta».
Con le bottiglie in mano gli incappucciati di rosso si posizionarono, pronti a servire i deputati.
Primi delle due file furono un vecchio e un giovane: l’onorevole Basile era alla quinta legislatura, prossimo al rimbambimento ma ancora padrone degli affari di Palazzo, l’onorevole Rapisardi era entrato cinque anni prima, a soli 21 anni, e aveva cambiato già ben quattro partiti.
Il primo pronunciò solennemente il suo nome, fece il segno della croce: «Tanto campai già più di molti…» bevve, poi disse: «e senza mai vergogna di mostrare la faccia!»
L’onorevole Rapisardi temporeggiò, osservò l’onorevole Basile bere e poi allontanarsi sulle sue gambe, uno schiocco di frusta gli ricordò che non poteva aspettare di vedere i possibili effetti. Quindi anche lui fece il segno della croce e bevve.
Gli incappucciati dosavano per ognuno tre differenti spumanti opportunamente corretti.
Fu una lunga processione, prolungata da suppliche, genuflessioni e due tentate ribellioni: l’onorevole Terrasanta versò il contenuto a terra e si beccò una pallottola in testa, l’onorevole Stabile iniziò a correre urlando, si beccò una pallottola alla gamba e poi una in testa.
Quando le file furono smaltite, la voce dall’alto riprese: «Adesso che abbiamo finito non resta che annunciare gli effetti…» il tono si era fatto solenne, «siamo spiacenti per il dolore provocato ma non sarà mai tanto terribile quanto una terra che muore soffocata dalle sue stesse mani, a Dio spetterà il giudizio definitivo sulle nostre azioni».
Gli incappucciati si inginocchiarono, stettero immobili qualche minuto, poi si rialzarono e la voce riprese con il tono allegro: «quindi: gli appartenenti al primo gruppo passeranno qualche giorno in sofferenza per poi riacquistare la salute, che è purtroppo vincolata a una clausola che a partire da questo momento li bandisce da qualsiasi attività politica, pegno una letale, sicura ricaduta: tecnicamente parlando sono condannati all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Gli appartenenti al secondo gruppo, gli assolti, cui facciamo i nostri auguri, saranno gli unici a lasciare il Palazzo sulle loro gambe. Quelli del terzo e ultimo gruppo, i condannati al massimo della pena, entro l’alba porgeranno i nostri saluti a San Paolo o più probabilmente al Demonio».
I deputati erano tornati ad ammassarsi sul fondo, alcuni cominciavano a stringersi la pancia o la gola.
«È stato un vero onore, grazie a tutti per la collaborazione! Così è deciso, il nostro disturbo è tolto!»
Gli incappucciati spensero le fiaccole, le sale del Duca di Montalto ripiombarono nell’oscurità.
I deputati rimasero in attesa, il silenzio rotto solo dai primi lamenti. Passati alcuni minuti qualcuno iniziò a muoversi: «Se ne sono andati?» sussurrò uno, «è finita?» chiese un altro, poi i pochi cellulari rimasti con batteria si accesero: gli incappucciati erano davvero spariti.
Allora tutti si precipitarono verso l’uscita, si accalcarono contro la porta trovandola ben chiusa, iniziarono a urlare, picchiare e mordere prima contro la porta poi tra loro, si accusarono l’un l’altro di aver scatenato la crudele vendetta.
Quando le porte furono riaperte, un fortissimo odore di vomito, sudore e sangue si riversò fuori appestando l’aria. Morti e feriti stavano accatastati gli uni sugli altri, nessuno in grado di camminare.