E qualche volta, a notte tarda, mi capita di passare accanto a una vetrina
con manifesti del simstim, con tutti quei bellissimi occhi identici
che mi guardano da facce quasi identiche,
e qualche volta gli occhi sono i suoi.

William Gibson, La notte che bruciammo Chrome.

potrebbe essere finita  Shantenaz o forse no, lancio il programma di recupero e ti vedo così come ti ho salvata nella mia memoria, eri ancora una lucertola allora una tossica dei bassifondi, succhiavi batterie dei cellulari e ti accoppiavi con gli impianti di condizionamento leccando via il lubrificante da pompe e alternatori, avevi già cominciato spontaneamente a mutare, separavo linee e ombre dai contorni del tuo viso isolando i dettagli registrando i tuoi feedback sonori, la tua voce proiettata verso un registro di basso, era in corso una tempesta quella notte, la stessa lunga notte che dura da anni ormai, gli stessi magnetismi azzurri e rossi degli archi aurorali in cui mi è parso di dissolvermi mentre mi connettevo, un riflesso d’interfaccia ma non lo sapevo allora, fui rapido a classificarlo come errore di sistema, mi ero infettato con un programma di poesia ferale del ventiduesimo secolo, mi aveva reso malinconico, nel tuo nido d’uccello accumulavi tutte le provviste che riuscivi a raccattare per l’inverno, carbamazepina acido valproico amotrigina barbiturici gabapentina benzodiazepine topiramato tiagabina felbamato fenitoina vigabatrin remacemide levetiracetam primidone etosuccimide milacemide gabapentin lamotrigina oxcarbazepina clonazepam diazepam lorazepam, un intero arsenale di anticonvulsivanti, l’unica arma davvero sensata nella giungla dei signori della rete predatori della psiche kamikaze delle animazioni lampeggianti destinate a scatenare convulsioni nelle sempre più frequenti vittime del cancro iridescente, rivedo Bock nella Goldener Saal del Tacheles di Berlino tra le mura divorate dal salnitro, c’è una strana eccitazione nei suoi gesti mentre arresta il mio studio statistico per ricondurre il discorso alla tua volontà d’acciaio, alla tua mutazione in corso, era il migliore nel suo campo ma prima del tuo arrivo i plutocrati della capitale non avevano mai preso seriamente il suo progetto, lui creava dal nulla, tu avevi aperto la strada a infinite possibilità, avevi già manipolato a lungo il tuo contenitore fisico e ti servivano valute per gli ormoni, a lui le valute non sarebbero mancate se avesse avuto la materia su cui lavorare, di notte mi dormiva accanto, registravo il respiro metallico che gli squassava il petto, sognava di te,  Shantenaz, lo vedevo, e tossendo mi toccava con la mano, era caldo, io non sognavo mai, riorganizzavo i tuoi capelli, quel magnifico innesto di piume d’acciaio in grado di ondularsi al battere del vento, ora sento la voce di Bock ridotta a un ronzio, quella ragazza dice, quella ragazza è la chiave, un coacervo di virus, una vera e propria bomba digitale, all’apparenza inoffensiva ma recante al suo interno una serie di condensatori pronti a scaricarsi nel sistema della vittima prescelta per provocare danni di natura irreversibile, si riferiva a te come a un hardware, se glielo facevo notare lui citava il suo libretto di istruzioni, poi Dio disse facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, e abbia dominio sui pesci del mare sugli uccelli del cielo sul bestiame e su tutta la terra, Dio ha trasmesso a noi uomini la sua facoltà di creare dice Bock, ci ha creati come lui e noi abbiamo creato le macchine con informazioni di seconda mano, allo stesso modo in cui io ho creato il mio mondo con le informazioni che ricevevo da te,  Shantenaz, non ti ho mai chiesto la tua biografia fattuale perché conoscevo quella che tu avevi elaborato, una bizzarra anomalia, più simile a un lungo elenco di assenze, alle opere che avevi pubblicato preferivi quelle rimaste incompiute, ai nomi dei signori che avevi sedotto preferivi la gente comune che avevi visto morire, alle istantanee dei tuoi giorni sostituivi gli scarti semiotici delle allucinazioni altrui, eri l’essenza della Rete che tutto condivide e non dimentica mai nulla, ti inseguivo e tu ti rinchiudevi in un silenzio sofferente, sfuggivi e sfuggendo mi insegnavi il desiderio, non è quello che avresti voluto, dicevi che certe emozioni sono state la rovina della vostra specie, non ero io a dover diventare come te, questo dicevi, non conoscevo neppure il tuo nome,  Shantenaz, che era come ti chiamavo, significava «addio» in allucinese, ma nella lingua dei bassifondi, che univa tutti i linguaggi del mondo, suonava come «l’assoluta pace interiore di chi sa di essere amato», il Sommo Algoritmo aveva usato la stessa parola per un eccesso pubblicitario in endometrica plagiaria declinandola nell’accezione del tutto arbitraria di «rabbia di uccello», era perfetta su di te, più di qualsiasi altra cosa l’estinzione dei volatili non ti era andata giù, dicevi che gli uomini avevano sbagliato cercando di alterare flora e fauna del pianeta quando invece avrebbero potuto semplicemente ridisegnare loro stessi, era il mio virus che agiva su di te, non lo sapevo allora, lo so adesso, anche questo ho imparato da te, devi aver avuto un figlio a un certo punto, ho registrato interruzioni e cali di tensione provenienti dal tuo canale come se un programma stesse caricando, ti desidero ora, ti vedo davanti alla congregazione riunita, ottanta cloni identici di uomini d’affari giapponesi e tu ti sfili le spalline dell’abito di policarbonato a rivelare la cromatura eseguita di fresco sulle spalle, sulla schiena, sui tuoi fianchi stretti e dritti di bambino, le cose che hai fatto al tuo corpo, dovevano servire a deturparlo e invece ti avevano resa ancor più affascinante, la creatura del futuro, la macchina quasi perfetta, ti pagavano per quello, per guardarti, sfogliavano i tuoi layer, si eccitavano svuotando la tua cache e frugando nella tua cronologia estraendo informazioni per ridistribuirle in nuove configurazioni, più ti arricchivi più mutavi più loro ti desideravano più tu li disprezzavi,  Shantenaz, quel tuo pazzesco utero meccanico e tentacolare allacciato ai miei circuiti, dentro di te vedevo fasci di luce e filamenti polimerici, l’interno di vecchi garage, la folla che si agitava come un’onda attorno alla stazione di Alexanderplatz, non ero in grado di piangere né di eiaculare ma sapevo cosa significava perché tu lo ricordavi, ricordavi la vita com’era stata un tempo su questo pianeta, prima che gli uomini spazzassero via gli animali e il cancro iniziasse a spazzare via gli uomini, portavi dentro la ferita di un mondo ormai prossimo a sparire, la colmavi con droghe e ormoni volti a cancellare la tua umanità, quello scomodo legame con una specie che avevi rinnegato, nel tuo rifiuto della vita c’era un amore immenso per la vita, la fiducia che il caso avrebbe trovato la sua strada così come tu avevi incrociato la mia e trovato me, mentre io e Bock pensavamo di aver trovato te, vedo il sangue rappreso sui tuoi capelli d’argento, sangue umano, l’espressione di stupore sui volti dei plutocrati un attimo prima che la fiammata ingoi i loro orgasmi, li hai fatti fuori tutti,  Shantenaz, era quello che volevi, essere al centro del grande mutamento, Bock è morto, l’ho ucciso nel sonno, l’ho fatto per te, ora è freddo come freddo ero io quando lui mi ha creato, tu sei morta,  Shantenaz, non rimane più nulla, solamente la memoria, e quel figlio che insieme abbiamo generato, una sequenza di bit senza alcun significato, se non quello di avermi amato –

 

tratto da “Guida42” n. 2: cyborg (settembre 2018)
testo: Sara Mazzini
illustrazione: Nora