«De mortuis nihil nisi bonum».
Proverbio latino

Considerazioni preliminari. Le virtù del plagio

Come entrare nell’opera di un autore che sembra sconfessare, fin dalle prime righe, la ragione di ciò che ha scritto? Leggiamo dall’Avvertenza del suo secondo libro: «La verità è che queste biografie, o piuttosto simulacri di biografie, sono frutto del caso: quello della mia biblioteca e quello della mia memoria, se non sono lo stesso. Non c’è nessun disegno. Non c’è ragione, neppure sufficiente, per cui in questo libro Marcel Proust debba convivere con Atahualpa, o mio padre venga dopo di me (giusto i capricci colposi dell’ordine alfabetico)»[1]. L’eterna diatriba delle teorie e delle scuole letterarie, divise tra quelli che pretendono di spiegare l’opera a partire dalla vita e quelli che rifiutano tale riduzione, nel caso di Eugenio Baroncelli, non ci è di alcun aiuto. Dai suoi libri e da internet ricaviamo un curriculum scarno: nasce a Rimini nel 1944, ma si trasferirà a Ravenna; è stato insegnante di italiano e latino; è stato ed è un fumatore di sigari; scrive testi sul cinema; ha una moglie, o una compagna, da cui si separa; il suo esordio come narratore (a 61 anni) è del 2005, con un libro (Outfolio. Storiette scivolate dal quaderno durante un trasloco) che oggi non è più in commercio; escluso il primo, tutti i suoi libri sono pubblicati da Sellerio. C’è condizione più imperscrutabile di quella del biografo, questo trafficante di vite? Se imboccassimo l’altra strada, guardando la sola opera, ci limiteremmo alla lettura del trittico di brevissime biografie che Baroncelli redige: Libro di candele. 267 vite in due o tre pose; Mosche d’inverno. 271 morti in due o tre pose; Falene. 237 vite quasi perfette.
Di fronte al bivio, restiamo perfettamente immobili. Il bivio prende le sembianze di un labirinto. Dal labirinto non si esce, se non (forse) abitandolo. Senza fare il minimo movimento, contempliamo. Tradotto in termini letterari, compiamo una specie di plagio. Non resta che prendere altre vite per descrivere l’opera di chi «si immischiò in molte vite per sbarazzarsi della sua»[2].

Roberto Saviano, scrittore coraggioso

Nasce il 22 settembre del 1979 a Napoli, città che, purtroppo o per fortuna, gli farà da destino. Il suo romanzo d’esordio lo rende tanto celebre da oscurare le stelle dei suoi colleghi. Se questi ultimi sono stelle fioche o sul punto di spegnersi, Saviano è un’intera galassia. Osservata come nessun’altra, abbaglia lo sguardo del grande pubblico, ma viene scrutata anche da lettori doppiamente interessati: i “colleghi” dei criminali rappresentati in Gomorra, e la torma dei loro discendenti e aspiranti mafiosi che scalciano per farsi strada per Napoli o in quel mondo, chiamato Sistema, per cui non esiste ancora (se mai l’avremo) una valida astronomia.
Cosa hanno da spartire il famoso scrittore combattente di Napoli con il dimesso e apparentemente mite scrittore di Ravenna? Sull’Espresso del 10 settembre 2012, Saviano pubblica un articolo che già dal titolo sembra rendere giustizia al paragone astronomico. Il titolo è Quanto mi piace quell’Italia minore. È una galassia che illumina una stella solitaria. Saviano scrive che i libri di Baroncelli sono «una delizia», come un «quotidiano ben scritto». Il trittico di biografie è un po’ il suo livre de chevet, legge ogni notte una biografia prima di addormentarsi. Come tutto ciò che riguarda Saviano, anche questo articolo brilla, ma per paradossalità, perché di politico o civile Baroncelli non ha niente. Persino nell’apprezzamento di uno scrittore, l’autore di Gomorra dimostra di avere coraggio.
Immaginiamo ora un incontro di boxe in cui Saviano debba affrontare lo scrittore che più gli è differente, il suo opposto ideale. Restando agli italiani – e concedendo almeno qui la possibilità di una resurrezione, essendo ogni vero scrittore il Lazzaro dei suoi libri – chiameremmo senza dubbio quel lucido fool di Giorgio Manganelli. La sfida si svolgerebbe a colpi dei rispettivi passi in cui i due espongono le loro idee sulla letteratura. Tutto chiaro. All’angolo rosso il difensore del titolo, Roberto Saviano, scrittore militante:

“Il cinismo che contraddistingue molta parte degli addetti ai lavori lascia intravedere sempre una sorta di diffidenza per tutto quello che vuole fare solo un buon libro, costruire una storia, limare le parole sino a ottenere uno stile bello e riconoscibile. È questo ciò che deve fare uno scrittore? Questo e nient’altro è letteratura? Allora, per quanto mi riguarda, preferirei non scrivere né assomigliare a queste persone.
Bisogno di distruggere tutto ciò che può essere desiderio e voglia: questo è il cinismo […].
Per me scrivere è sempre stato il contrario di tutto questo. Uscire. Riuscire a scrivere una parola nel mondo, passarla a qualcun altro come un biglietto con un’informazione clandestina, uno di quelli che devi leggere, mandare a memoria e poi distruggere: appallottolandolo, mischiandolo con la tua saliva, facendolo macerare nel tuo stomaco. Scrivere è esistere, è fare resistenza[3].”

All’angolo blu lo sfidante, Giorgio Manganelli, coerente ossimoro:

Non v’è dubbio; la letteratura è cinica. Non v’è lascivia che non le si addica, non sentimento ignobile, odio, rancore, sadismo che non la rallegri, non tragedia che gelidamente non la ecciti, e solleciti la cauta, maliziosa intelligenza che la governa […].
Scrivere letteratura non è un gesto sociale. Può trovare un pubblico; tuttavia, nella misura in cui è letteratura, esso non ne è che il provvisorio destinatario […].
L’opera letteraria è un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione[4].

Fosse Baroncelli a dover decidere l’esito della lotta, non ci sarebbero vincitori. Risponderebbe alle affermazioni dei contendenti con una doppia negazione. Avremmo così uno dei rari incontri di boxe in cui a finire al tappeto sarebbe non uno dei pugili, bensì l’arbitro, che è molto più vecchio di loro. Vedremmo i due lottatori chinarsi su di lui, portargli dell’acqua, rialzarlo con la cautela che si presta a una persona anziana. L’idea di letteratura del nostro è molto più ambigua. È rivolta tanto all’eroica fedeltà della testimonianza che alla libertà immaginosa dell’artificio. I personaggi delle sue biografie sono assolutamente reali, ma per raccontarli la sua immaginazione deve racchiuderli in un attimo, che sembra dilatarsi all’infinito.
A quell’angolo che è un centro della letteratura, Eugenio Baroncelli: «La verità, la meno temeraria verità, è che scrivere vuol dire invecchiare, una cosa che mi riesce benissimo senza bisogno di scrivere. Troppa grazia»[5].

Emmanuel Carrère, biografo glamour

Nasce a Parigi il 9 dicembre del 1957. Per farla finita con la letteratura d’invenzione e approdare ai libri-verità (o, se volete proprio l’etichetta, che significa tutto e niente, libri di non-fiction) scrive L’Avversario, ed è significativo che parli della vera storia di un bugiardo. Limonov, il suo libro più letto, che lo ha reso famoso in tutto il mondo, narra la rocambolesca vita dello scrittore Eduard Veniaminovič Savenko, detto “granata”, in russo appunto ‘limonov’. Il suo libro più maturo è Il regno che, a un primo livello, è la storia della (temporanea) conversione religiosa di Carrère, a un secondo livello è la biografia del biografo cristiano Luca, mentre a un terzo è una rassegna di personaggi ed eventi storici dell’età classica ritratti in un modo che assomiglia a quello usato dai rotocalchi per parlare dei vip.
Come giustificare la presenza di Carrère nel nostro album di famiglia? Facciamo una descrizione per contrappasso. A un primo sguardo, le somiglianze sono notevoli: sia Carrère che Baroncelli si servono del genere biografico, raccontano di personaggi noti o meno noti, ma realmente esistiti; entrambi sanno che lo “scrivere bene” non è poi tanto questione di stile, ma soprattutto questione etica; che il parlare di altri è forse il solo modo decente per parlare di sé. Tuttavia basta sfogliare i loro testi per accorgersi dell’enorme differenza fisiognomica. (Il rischio di ogni album è che diventi poi, una volta terminato, un album di estranei).
Chiamando Carrère biografo glamour esageriamo al tempo stesso il pregio e il difetto di uno degli scrittori più letti di questi ultimi anni. Vizio e virtù sono presto detti: rendere familiare l’ignoto. Usiamo allora glamour, quest’abusata paroletta che deriva da glam, ‘fascino’, in un senso un po’ traslato, costringendola a migrare dal suo luogo abituale. Siamo all’ufficio di collocamento delle idee. Ci troviamo di fronte questa ricca rifugiata, decisamente indispettita o sgomenta, ancora con gli abiti sfarzosi che ha sempre indossato. Le spieghiamo quale sarà la sua nuova, temporanea destinazione (non la solita rivista di costume, ma un discorso letterario). Ci guarda socchiudendo gli occhi (le sue vocali), accavallando le gambe (le sue consonanti), ma non sembra più così stupita. Uscendo con il passo di chi conosce a menadito la strada, ci fa capire che questa sua nuova casa non è poi così tanto nuova. Perché anche la letteratura piace, deve piacere – nonostante si tratti spesso, come scrisse Kant riferendosi al sublime, di un «piacere negativo». Se opponiamo qui glamour e letteratura, non è per un malcelato bisogno naïf: da una parte i divertimenti della “massa”, dall’altra la profondità di “ciò che veramente conta”. Al contrario, bisogna intendere ognuno dei termini nella sua precipua ambivalenza. La strada è probabilmente la stessa, ma percorsa in senso inverso: il fascino del glamour consiste nel familiarizzare l’ignoto, quello della letteratura nel mostrare l’enigma di ciò che già conosciamo.
Che si tratti di Philip Dick o di San Paolo, del suo nonno collaborazionista o della star Limonov, il processo di Carrère è un movimento di familiarizzazione, o somiglianza: «Sotto le sembianze di San Luca ho dipinto me stesso […]. Probabilmente il mio Luca non somiglia al vero Luca, ma almeno somiglia a me: meglio che niente. L’importante, credo, non è a chi si somiglia: quel che conta è essere somiglianti»[6]. Il movimento di Baroncelli è invece l’esatto opposto. È come se le sue biografie si nutrissero non di storia, ma di metafisica: nella mezza pagina o nelle poche righe in cui viene risolto il corso di una vita, il mistero non preesiste, nasce alla fine. Se la storia, con la sua presunta linearità, deve essere sempre somigliante, una vita è un segreto, e lo scrittore che si prende la briga di svelarlo sembra non vivere al pari degli altri: delatore del silenzio e di quelle ore mute che passano inosservate in un’esistenza, il biografo abita l’inferno o il paradiso dei traditori. Tra tutti i personaggi incontrati nei suoi libri, quello cui Baroncelli… assomiglia di più è Plutarco, l’uomo più solo del mondo:

“Scrisse: «Il fatto è che non scrivo storia, ma biografie». Cosa capita a chi racconta le vite degli altri? Qualcuno dice che in quelle, come in uno specchio, cerca e trova la sua. Io dico che la perde, e diventa l’uomo più solo del mondo. (Sono più risentito, ma ho i miei motivi). Lui, tutt’al più, si consolò raccogliendo laconici aneddoti, che una vita non fanno (il giorno delle Termopili, i soldati si lamentarono con Leonida: «Tanto son fitte le frecce dei barbari, che non riusciamo nemmeno a vedere il sole», e lui: «Meglio così. Vuol dire che combatterete all’ombra»), celebrando un altro mondo («Sembra che non imitò nessuno», scrive con deferenza della Musa Calliope), o deprecando gli «effeminati cinguettii» della musica moderna, quando si sa che la musica, a qualunque età, è il sistema degli addii[7].”

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Caronte, nocchiere a pagamento

Figlio di due oscurità, Erebo e Notte, antelucani già nel nome, conduce la sua vita nell’ombra, o meglio, conduce alla morte le ombre. C’è chi lo vuole greco, chi etrusco. Dante lo volle per la sua Commedia, e noi così lo vediamo, bianco per antico pelo, mentre traghetta le anime oltre il fiume senza tempo. «Fin da Dante», notava Manganelli, «l’inferno ha una tendenza urbanistica»; non a caso Dite viene detta città. Umano è quell’essere che non vive in nessun ambiente specifico, ma che lo crea, e le città sono gli effetti o i sintomi del genere umano. L’efficacia del realismo dantesco sta nel restituire ai dannati, pur nel fondo del loro tormento, un respiro che è il nostro. La nostalgia che provano ricalca quella che abbiamo quando siamo lontani da casa. In quanto umani, il mondo (che si esprime in Dante) serba il loro ricordo. È invece degli ignavi che non abbiamo memoria. Di questi, cui non è permesso salire sulla nave di Caronte, non ricorderemo nulla. Di questi il mondo, da sempre, opera la sua lobotomia. Di questi nemmeno l’inferno saprebbe che farsene: Caccianli i ciel per non esser men belli, / né lo profondo inferno li riceve, / ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli.
Una delle operazioni più interessanti di Baroncelli è l’accostamento di personaggi arcinoti a completi sconosciuti o, se non proprio tali, dimenticati. Così è per Costance Fenimore Woolson, che morì senza rivedere l’uomo di cui era innamorata, Henry James, o per Marie Nizet, scrittrice che col suo vampiro, il principe Boris Liatoukine, diede a Bram Stoker l’idea per il suo, il conte Dracula. Così è anche per Eugenio Baroncelli, autore stufo di questo libro (che è Falene, l’ultimo del trittico): «Lui si mise a riempire le vite portentose e vuote degli altri uomini. Esauriti gli uomini, si diede alle biografie dei fiumi e delle stelle, vocazione comune agli infelici». Sotto stelle che, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno nomi più conosciuti dei nostri, attraverso fiumi che verranno nominati ancora dopo di noi, Baroncelli traghetta i morti verso la memoria. L’oblio è il vero inferno, al cui confronto l’inferno dei dannati sembra una qualunque delle nostre città. A leggere le pagine di questo nocchiere più compassionevole di Caronte, e a pensare all’infamia del vero inferno, è facile commuoversi. Chissà che tipo di riconoscenza hanno i morti, che pure hanno fatto un viaggio costoso: al posto dell’obolo, della moneta, questa memoria la pagano con la vita.

Danilo Kiš, enciclopedista

Forse Baroncelli è davvero Caronte, che è anche quest’altro. Nato nel 1935 a Subotica, in Serbia, ereditò dal padre, ebreo ungherese scomparso durante la seconda guerra mondiale nei campi nazisti, un orario ferroviario internazionale, e dalla madre, che fino a vent’anni lesse romanzi per poi abbandonarli definitivamente, la diffidenza verso le «mere invenzioni». Da Borges ereditò quell’arte ipnotica che consiste nel giustapporre finzione e documento in modo tale da rendere inventato il documento, reale la finzione. Da Andrić, la speranza, la fiducia, la fede che fanno una promessa: verrà il tempo delle letterature jugoslave. Da Flaubert, la facoltà di condensare le frasi fino a farle quasi sparire. Da Cetinje, città piovosa per mesi e mesi, la pioggia. Da Belgrado, un «sogno di evasione dalla provincia». Da Parigi, dove morì a 54 anni, la solitudine.
Il racconto che dà il titolo a Enciclopedia dei morti parla di un’opera scritta «da coloro che si sono assunti il compito, difficile quanto degno di lode, di registrare […] tutto ciò che è possibile registrare su coloro che hanno compiuto il proprio viaggio terreno e si sono diretti verso i sentieri dell’eternità». Gli inizi dell’Enciclopedia risalgono, scrive Kiš, «a qualche anno dopo il 1789». Storia collettiva e destino individuale sono rappresentati nella loro reciprocità, ma il resoconto di una vita è da considerarsi assolutamente completo: gli odori, la particolarità di una stagione, il clima, i colori e i paesaggi, gli stati d’animo e le più piccole variazioni di ogni esistenza, tutto viene riportato e descritto. L’irragionevolezza di un lavoro del genere scompare non appena ci viene rivelato quello che è più di un semplice dettaglio, e che è invece il motivo fondante del progetto: «L’unica condizione […] per entrare nell’Enciclopedia dei morti è che la persona menzionata in essa non figuri in nessun’altra enciclopedia». Alla base dell’opera c’è «una visione ugualitaria del mondo dei morti – senza dubbio ispirata da una delle premesse bibliche – e che si propone di correggere l’ingiustizia umana e di dare a tutte le creature di Dio lo stesso posto nell’eternità»[8].
In questo racconto di Kiš c’è l’eco, o meglio la prefigurazione, della scrittura del nostro Caronte terreno. Nei libri che seguono il trittico di biografie, Baroncelli imbocca nuove strade. In Pagine bianche. 55 libri che non ho scritto, il tema portante non è più la biografia. Queste Pagine bianche sono davvero libri non scritti, dei quali  restano però l’idea, la prefazione o l’incipit, l’indice dei capitoli, a volte solo una breve frase. Sembra paradossale, ma per Baroncelli non valgono nemmeno le consuete successioni cronologiche formazione / maturità / vecchiaia. Per lui che è come formato da secoli, la maturità coincide con la vecchiaia avanzata. Nel libro successivo, Gli incantevoli scarti. Cento romanzi di cento parole, il tratto avanguardistico si traduce in tonalità più pacate. Certo, viene da pensare al Manganelli di Centuria, eppure i virtuosismi qui non sono mai fini a sé stessi. La “gabbia” delle cento parole sembra dare a ciascun romanzo la sensazione di una fuga.
Le strade che Baroncelli ha abbandonato in questi due testi si ripresentano, ma sotto una diversa prospettiva: che trattino di uomini e donne realmente esistiti o di personaggi di fantasia, tutti i suoi libri non sono altro che libri-elenchi. Bisognerebbe riflettere a fondo sul concetto di elenco. Lungi dall’essere questione da avvocati d’ufficio, è un tema linguistico, ossia eminentemente pratico, al cui studio dovrebbero confluire le più diverse discipline. È noto che le prime testimonianze della parola scritta, prima che la poesia o il mito, sono di ordine amministrativo: contare o misurare i beni posseduti, rendere conto delle transazioni eseguite. In un passo intitolato La lieta lista. Elenco dei miei elenchi preferiti, è lo stesso Baroncelli a rendere perspicuo quest’interesse per la sostanza dell’elenco:

“So cosa state pensando: che gli elenchi sono un di più, e leggerli è una noia. Già. Sono testardi, prolissi e ordinari, fino a quando non arriva a interromperli quel momento originale che chiamiamo morte. Be’, non assomigliano alla vita, che magari voi trovate divertente? Gli indici, nel loro piccolo, fanno lo stesso: chi scrive è più scrittore che mai quando compila quel mortorio che sono gli indici.
Borges, se non sbaglio, parla del piacere che ci procurano le enumerazioni. Si può aggiungere qualcosa sulla realtà degli elenchi: la congettura secondo cui sarebbero meno reali degli uccelli, degli alberi o delle stelle che enumerano mi sembra per lo meno stravagante[9].”

Le più svariate tradizioni letterarie sono affette da quest’ossessione enciclopedica. Una parte non trascurabile di questo studio generale sull’elenco potrebbe riunire, come in un ricco erbario, una collezione di campioni secchi. Dall’elenco delle navi nell’Iliade, o da quello delle cose create nella Genesi, si passerebbe al primo progetto di enciclopedia, pensata da Plinio il Vecchio, fino alle sue diramazioni moderne, Diderot e d’Alembert; avrebbe un suo posto di diritto il Gargantua e Pantagruele di Rabelais, le cui radici toccherebbero quelle di Perec o di Gospodinov; alcune foglie cadrebbero lungo il deserto di Sonora e sulla città di Santa Teresa, Ciudad Juarez, volteggiando insieme a quelle dei censimenti o dell’elenco telefonico o dei numeri scritti sul polso delle vittime dei lager.

Augusto Monterroso, dinosauro magro

Nacque a Tegucigalpa nel 1921, morì a Città del Messico nel 2003. In questo arco di tempo, relativamente lungo, trovò il modo di restringersi. Maestro della forma breve, intuì che certi scrittori non lottano contro la morte, bensì, come i dinosauri, contro l’estinzione. Proprio Il Dinosauro si intitola il suo testo più famoso, considerato il racconto più breve di sempre[10], composto da sette parole. (Per chi non lo avesse già letto, non sveleremo il finale). Scrive Baroncelli che esiste «una sola specie di scrittori: quella che sfida la promettente tentazione di scrivere e, quasi sempre, sarà la vanità, sarà perché resistere a una tentazione non fa che alimentarla, perde. Restano dunque due sottospecie di scrittori: i magri e i grassi». Siamo a una sfilata di scrittori, o nella testa di un dietologo sovrappeso. Ecco Chrétien de Troyes: «è obeso. Vegliò mille e una notte e sciorinò novemila versi regolati per raccontare la storia di un uomo». Avanti il prossimo: «l’argentino Enrique Banchs, è un fil di fumo. Nel giorno di Natale del 1911, poeta di sonetti meticolosi, all’improvviso si azzittì. Sarebbero seguiti cinquantasette anni di meticoloso silenzio». Siamo a una terapia di gruppo di anoressici. Scorgiamo, fra gli altri, Gustave Flaubert e Quim Monzó: «Stanno nella famiglia dei pentiti, tutti e due grassi ma non ignari delle virtù della magrezza»[11]. Inutile dire da quale famiglia proviene Monterroso. Le foto che lo ritraggono ci mostrano un uomo decisamente grasso. Eppure fu, senz’ombra di dubbio, magro.

Robert Walser, l’uomo che entra in tutti i suoi libri

Come la scrittura di Baroncelli, anche questo articolo va accorciandosi. Il miracolo sarebbe che sparisse poco a poco sotto i vostri occhi, ma non siamo capaci di tanto. Non può scomparire nel bianco come fece Walser. Di tutto il nostro album, è l’unico a comparire esplicitamente nelle opere di Baroncelli, dato che entra in tutti i suoi libri. Ma non rischieremo certo di compromettere quest’articolo (compromesso in partenza) con la descrizione di un uomo che non voleva essere ricordato né lasciare tracce, e che dopo aver smesso di scrivere sperò che i suoi libri fossero come impronte sulla neve. Il destino lo volle svizzero. Lui per tutta risposta si volle pazzo. I suoi critici migliori furono due tedeschi: Walter Benjamin, W. G. Sebald. Quest’ultimo notò che una sua prosa, una meditazione sulla cenere, «non ha equivalenti in tutta la letteratura del ventesimo secolo, nemmeno in Kafka»[12]. Eccola:

“In effetti di questa materia all’apparenza così poco interessante si possono osservare, andando per così dire un po’ più in profondità, cose che di scarso interesse non lo sono affatto. Questa, ad esempio, che se soffiamo sulla cenere non c’è assolutamente nulla in essa che opponga resistenza per non volarsene via in un baleno. La cenere rappresenta in sé l’umiltà, l’insignificante, l’assenza di valore. E, ciò che è ancora più bello: essa stessa è pervasa dalla convinzione di non valere nulla. Si può essere più inconsistenti, più deboli, più inetti della cenere? È davvero difficile. Si può essere più arrendevoli e più pazienti della cenere? Certo che no. La cenere è priva di carattere, e dal legno di qualsiasi essenza è ancor più lontana di quanto non sia lo scoramento dall’euforia. Dove vi è cenere, non vi è in fondo proprio nulla. Metti il piede sulla cenere, e quasi non ti accorgerai di aver calcato qualcosa.”

Questo passo è forse il vero ritratto di Baroncelli, il cui unico peccato capitale è una disperata umiltà. La cenere è l’elemento in cui si ritrovano i vivi e i morti. Mercoledì delle Ceneri.

Il vecchio e la Morte

Un giorno un vecchio, dopo aver tagliato della legna e trasportandola sulle spalle, camminava lentamente per una lunga strada. A causa della fatica per il cammino, deposto il suo fardello, invocava la Morte. E subito la Morte apparve e domandò per quale motivo l’avesse chiamata. Il vecchio rispose: «Per sollevare il mio fardello».

Così Esopo. Immaginiamo una variante: Un giorno la Morte, dopo aver bruciato la legna e trasportando le ceneri sulle spalle, camminava lentamente per la strada senza fine. A causa della fatica per il cammino, deposte le ceneri, invocava il vecchio. E subito il vecchio apparve e domandò per quale motivo l’avesse chiamato. La Morte rispose: «Per sollevare le mie ceneri».

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Bibliografia e crediti:

Baroncelli, Eugenio
Libro di candele. 267 vite in due o tre pose, Sellerio 2008
Mosche d’inverno. 271 morti in due o tre pose, Sellerio 2010
Falene. 237 vite quasi perfette, Sellerio 2012
Pagine bianche. 55 libri che non ho scritto, Sellerio 2013
Gli incantevoli scarti. Cento romanzi di cento parole, Sellerio 2014
Risvolti svelti. Breviario amoroso di vite altrui capitolate, Sellerio 2017

Carrère, Emmanuel
Il est avantageux d’avoir où aller, 2016 (trad it., Propizio è avere ove recarsi, Adelphi 2017)

Kiš, Danilo
Enciklopedija mrtvih, 1983 (trad. it., Enciclopedia dei morti, Adelphi 1988)

Manganelli, Giorgio
La letteratura come menzogna, Adelphi 1985

Saviano, Roberto
La bellezza e l’inferno, Mondadori 2009

Sebald, Winfried Georg
Logis in einem Landhaus, 1998 (trad. it., Soggiorno in una casa di campagna, Adelphi 2012)

La traduzione della favola di Esopo Il vecchio e la Morte è di Luca Mignola.

La riproduzione vietata della Riproduzione vietata è di René Magritte.


[1] E. Baroncelli, Libro di candele. 267 vite in due o tre pose, Sellerio 2008.
[2] E. Baroncelli, Gli incantevoli scarti. Cento romanzi di cento parole, Sellerio 2014.
[3] R. Saviano, La bellezza e l’inferno, Mondadori 2009.
[4] G. Manganelli, La letteratura come menzogna, Adelphi 1985.
[5] E. Baroncelli, Pagine bianche. 55 libri che non ho scritto, Sellerio 2013.
[6] E. Carrère, Propizio è avere ove recarsi, Adelphi 2017.
[7] E. Baroncelli, Falene. 237 vite quasi perfette, Sellerio 2012.
[8] D. Kiš, Enciclopedia dei morti, Adelphi 1988.
[9] E. Baroncelli, op. cit., 2013.
[10] Ma non più breve di quello di Hemingway sulle scarpe da neonato.
[11] E. Baroncelli, op. cit., 2014.