Mi svegliai di soprassalto, spaventato. Il telefono stava squillando. Ah, era solo il telefono… Dove mi trovavo? Che ore potevano essere? E di quale giorno? Il telefono squillava ancora. Il suono mi era familiare. Ma certo! Era il suono che sentivo ogni giorno! Il suono del telefono di casa mia! Però il mio telefono è sempre stato in soggiorno… Perché lo sentivo così vicino? Ah, ma non stavo in camera da letto… Che ci facevo nel soggiorno? Perché avevo dormito lì, sul divano? Il telefono continuava a squillare testardo. Un raggio di sole polveroso filtrava attraverso le persiane semiaperte della finestra, come in tutti i romanzi che avevo letto. Chissà se anche io, questo, l’avrei mai scritto in un romanzo. Provai a muovere il braccio per prendere la cornetta del telefono e scoprire finalmente chi mi cercava con tanta urgenza. Ma non ci riuscii! Avevo i polsi incatenati al divano! Provai a muovere i piedi. Anche le caviglie erano legate al divano! Mi guardai intorno. C’era una pistola vicino a una delle mie mani! Tutto era immobile. Tutto sembrava esitare. Come il pulviscolo sospeso nella luce sonnolenta del mattino. Come i miei ricordi che avanzavano ciechi. Tutto tranne il telefono impaziente. Dovevo rispondere! Cercai di raggiungere con la bocca il telefono che stava sul mobiletto accanto, allungando il più possibile il collo. Riuscii infine ad afferrare la cornetta con le labbra e a farla cadere sul divano.

«Chi è?» domandai avvicinando l’orecchio alla cornetta.

«Ehi, amico! Come va? Mica stavi dormendo?»

«Sì, ma non fa niente. Dimmi.»

«Ti ho chiamato per sapere se ti va di fare un giro. Una passeggiata nel parco. Tanto per fare due chiacchiere.»

«Non posso uscire. Ho le mani e i piedi incatenati al divano.»

«Ah ah! Mi fai sempre ridere tu! Hai sempre la battuta pronta!»

«Non è una battuta. È vero.»

«Dai, smettila! Non fare tante storie! Usciamo!»

«Ti ho detto che non posso! Sono fisicamente impossibilitato a uscire! Sono completamente legato al divano!» insistetti.

«È una scusa per non uscire con me? Se non ti va più di vedermi, se ti sto antipatico, basta che me lo dici! Senza bisogno di inventarti queste balle!»

«Ma non ti dico balle! È la verità!»

«Non dici balle, ma dici la verità talmente male che sembra che dici balle!»

«Come vuoi che te lo dica!? È così! Mi sono svegliato stamattina in queste condizioni! Incatenato al divano! Sono riuscito a rispondere al telefono perché ho alzato la cornetta con la bocca!»

«Ma come incatenato!? Chi è stato!? Ti hanno fatto del male?»

«No, no. Tranquillo sto bene. Sono tutto intero. Non ho nessuna ferita» dissi cercando di tranquillizzarlo.

«Ma per quale motivo ti hanno legato!? Cos’è successo!? Cos’hai fatto!?»

«Adesso non ricordo esattamente, mi sono appena svegliato. Ma è tutto a posto. Tutto tranquillo. È solo che non posso uscire, mi dispiace.»

«Ma hai bisogno di aiuto? Vuoi che chiami la polizia?»

«No, no. Non ho bisogno di niente. Grazie lo stesso. Perdonami se non ti accompagno al parco. Ci sentiamo presto.»

Rimisi la cornetta a posto con la bocca. Lentamente la coscienza si stava liberando degli strascichi del sonno, e stava emergendo dal pantano di assurdità e confusione, per ritrovare tutta la logicità della mia situazione. Ecco! Ricordavo ogni cosa! Adesso sì che tutto era chiaro! Ora sì che tutto aveva senso! E anche la pistola aveva la sua spiegazione. Ora potevo stare tranquillo. Potevo anche riaddormentarmi.

Mi svegliai di soprassalto, spaventato. Il telefono stava squillando. Ah, era solo il telefono… Dove mi trovavo? Che ore potevano essere? E di quale giorno? Il telefono squillava ancora. Il suono mi era familiare. Ma certo! Era il suono che sentivo ogni giorno! Il suono del telefono di casa mia! Però il mio telefono è sempre stato in soggiorno… Perché lo sentivo così vicino? Ah, ma non stavo in camera da letto… Che ci facevo nel soggiorno? Perché avevo dormito lì, sul divano? Il telefono continuava a squillare testardo. Un raggio di sole polveroso filtrava attraverso le persiane semiaperte della finestra, come in tutti i romanzi che avevo letto. No, io questo in un romanzo non l’avrei mai scritto. Provai a muovere il braccio per prendere la cornetta del telefono e scoprire finalmente chi mi cercava con tanta urgenza. Ma non ci riuscii! Avevo i polsi incatenati al divano! Provai a muovere i piedi. Anche le caviglie erano legate al divano! Mi guardai intorno. C’era una pistola vicino a una delle mie mani! Tutto era immobile. Tutto sembrava esitare. Come il pulviscolo sospeso nella luce sonnolenta del mattino. Come i miei ricordi che avanzavano ciechi. Tutto tranne il telefono impaziente. Dovevo rispondere! Cercai di raggiungere con la bocca il telefono che stava sul mobiletto accanto, allungando il più possibile il collo. Riuscii infine ad afferrare la cornetta con le labbra e a farla cadere sul divano.

«Pronto?» feci avvicinandomi al ricevitore.

«Allora!? Si è deciso!?» disse una voce misteriosa e sconosciuta.

«Chi parla?»

«Non mi riconosce più?»

Forse era l’uomo che mi aveva legato? Forse era l’uomo al quale dovevo dei soldi?

«No, guardi, mi sono appena svegliato, e non ricordo ancora perfettamente le cose» gli feci.

«Perché non è venuto all’appuntamento!? Noi la stiamo aspettando da un pezzo!»

Mi stavano aspettando!? Chi!? Ma allora, forse, qualcuno mi aveva incatenato per impedirmi di incontrarli! Per impedirmi di andare al loro appuntamento!

«Perché sono incatenato al divano» gli risposi.

«Ma con chi sto parlando!?»

«Sempre con me.»

«Lo so! Ma io vorrei sapere chi è lei!»

«Anch’io vorrei sapere chi è lei.»

«Sì, ma io vorrei sapere chi è lei perché mi sembra un tipo strano» disse.

«Anche lei che parla di appuntamenti misteriosi è strano.»

«Io parlo di appuntamenti normali. Lei parla di catene! E se lei non mi riconosce, allora significa che lei non è lei!»

«Be’, potrei dire lo stesso! Se lei non mi riconosce, allora anche lei non è lei.»

«E chi dovrei essere io?» mi chiese lui.

«Il tipo che avrei dovuto incontrare stamattina, se non mi avessero incatenato per impedirmi di farlo.»

«Mi scusi… ma lei non è il signor Ugo Tozza?»

«No. Io non sono il signor Ugo Tozza. Perché?»

«Ah, mi scusi! Ho sbagliato numero! Mi dispiace tanto! Arrivederci.»

Aveva sbagliato numero. Ma già! Che stupido! Io non avevo nessun appuntamento stamattina! E nessuno mi aveva incatenato per impedirmi di andarci! Adesso cominciavo a svegliarmi completamente e a ricordare tutto… Rimisi la cornetta a posto. Non avevo più sonno. Potevo iniziare a immaginare come si sarebbe potuta svolgere la mia giornata. Tutta dal mio divano. Potevo vivere qualsiasi storia. Qualsiasi avventura. Qualsiasi amore. Potevo diventare chiunque avessi voluto. Com’era bello svegliarsi la mattina e non doversi alzare! Non avere l’ansia e la fretta di fare le cose. Non avere più la sensazione di essersi svegliati sempre troppo tardi per farle tutte. Per immaginare non era mai tardi. Per fantasticare avevo tutto il tempo che volevo.

Quel giorno sarei potuto uscire. Avrei potuto indossare un vestito bello e costoso, come quello di qualche attore che dovevo aver visto in un film e che, sicuramente, avevo tanto desiderato indossare. Avrei potuto camminare più sicuro e meno incurvato del solito. La gente si sarebbe girata a guardarmi, incantata dal mio fascino. Sarei potuto andare, per prima cosa, a salutare la mia famiglia. Saremmo stati bene insieme. Avremmo potuto parlare di tutte le cose che non avevamo mai avuto il coraggio di dirci. Le incomprensioni passate. Gli errori reciproci. Ognuno avrebbe potuto ammettere le sue colpe e avrebbe potuto chiedere scusa agli altri. Ci saremmo potuti abbracciare e avremmo potuto mangiare insieme un’amatriciana fenomenale. Poi sarei potuto andare a correre nel parco. Con una giornata così bella! O sarei potuto andare in piscina a fare una rinfrescante nuotata. O ancora sarei potuto andare a fare un giro in bici lungo il fiume. O avrei potuto fare anche solo della ginnastica all’aria aperta. Sarebbe stato così rilassante e tonificante fare un po’ di sport. Mi immaginavo di fare le flessioni in modo talmente vivo che potevo sentirne lo sforzo e la tensione nei muscoli. Poi sarei potuto andare a una festa con i miei amici. Magari a una festa dove tutti avrebbero potuto dire di essere ubriachi per le troppe birre bevute lì, e noi avremmo potuto scoprire, però, che per sbaglio tutte le birre che i festeggiati avevano comprato erano analcoliche. E allora avremmo potuto ridere come matti tutta la sera. E ci saremmo potuti divertire un sacco. Poi uscendo dalla festa sarei potuto andare da solo in un locale carino con musica dal vivo. E lì avrei potuto incontrare lei. La donna della mia vita. Bellissima! Sarebbe stata qualche attrice che avevo visto al cinema. Oppure no. Non per forza. Perché anche se non fosse stata una stella del cinema, l’amore mi avrebbe fatto sentire comunque come se vivessi in un film. E ci saremmo potuti guardare a lungo negli occhi. Subito innamorati l’uno dell’altro. Senza bisogno di conoscerci. Senza bisogno di sapere cosa ognuno ne pensasse della vita. La musica avrebbe potuto rendere ancora più toccante questo momento. Qualsiasi canzone sarebbe andata bene uguale, perché qualsiasi canzone avrebbe cantato il nostro amore. Come una colonna sonora che avesse guidato i nostri movimenti e in nostri gesti. Come una musica extradiegetica che avesse scandito il montaggio delle nostre azioni. E avremmo potuto ballare. Saremmo stati, tra tutte le coppie danzanti, quella più in gamba. Tutti ci avrebbero ammirato. Sarebbe stato così emozionate. Avremmo potuto ballare senza vergogna e senza imbarazzo. Avvinghiati fino a sfiorarci le labbra. Poi ci saremmo potuti finalmente baciare e avremmo potuto iniziare a toccarci. Lo immaginavo così tanto che stavo iniziando a eccitarmi. Ma a un certo punto sarebbe potuto sopraggiungere un terremoto, e il locale sarebbe potuto crollare. Allora io avrei potuto usare tutto il mio coraggio, tutta la mia forza e tutta la mia destrezza, rischiando anche la vita, per tirare immediatamente fuori dalle macerie e portare in salvo lei, la donna della mia vita. E poi saremmo potuti andare insieme a casa mia. Dove avremmo potuto finalmente fare l’amore tra la paura, il sangue e l’urgenza di una passione ritardata.

Squilla di nuovo il telefono. Mi impegno ancora per raggiungere la cornetta con le labbra.

«Sì, chi è?»

«Sono io. Che fai di bello? Ti va di andare a teatro insieme oggi?»

«Sono bloccato a casa.»

«Influenza?»

«No. Catene.»

«Cos’è? Una nuova serie tv?»

«No. Non posso uscire perché ho delle catene intorno al corpo che mi legano al divano» feci io.

«Ma ti sei fatto un acido?»

«No. Sono realmente incatenato.»

«Vuoi che venga a liberarti?»

«No. Ho una pistola qui con me, a portata di mano.»

«A cosa ti serve una pistola?»

«A sparare chiunque cerchi di slegarmi per portarmi via di qui.»

«Ma perché sei legato?»

«Perché ho deciso di non uscire più.»

Avevo davvero deciso di non uscire più. E mi ero legato al divano per paura che alla fine qualcuno potesse convincermi a desistere dal mio proposito. Ma mi ero incatenato anche perché, così, non mi sarei sentito in imbarazzo a rifiutare un incontro con chicchessia. Nessuno si sarebbe potuto offendere se non fossi uscito perché ero legato! Perché ero impossibilitato a farlo! Non avrei fatto del male a nessuno in questo modo. Avrei avuto una buon motivo per non uscire. Nessuno avrebbe potuto dubitare della mia sincerità. Mica dicevo di avere mal di pancia! O di dover lavorare al computer! Quello lo dicono tutti. Io mi ero legato con tanto di catene al divano! Mica è una cosa da niente! Mica poteva essere una scusa! Mica poteva essere una bugia! Le bugie devono essere credibili, sennò sono verità! Non poteva mica essere un pretesto per nascondere il fatto che non mi andava di uscire! Mi andava eccome di uscire! Solo che non potevo assolutamente farlo perché avevo deciso di incatenarmi al divano di casa mia! Per sempre! E mi ero incatenato!

«Ma per quale motivo hai deciso di non uscire più?» mi chiese.

«Perché ho sempre desiderato stare tutto il giorno a casa a suonare.»

«Ma tu non sai suonare!»

«E quindi!? Non posso nemmeno desiderare di stare tutto il giorno a casa a suonare!?»

«Allora perché non ti sleghi e non impari a farlo?»

«Per quale motivo dovrei!? A che serve che io impari a suonare, se poi una volta morto è come se non lo avessi mai fatto?»

«Ma che fai tutto il giorno in casa legato, scusa?»

«Immagino di fare le cose.»

«Ma perché non esci e le fai, invece di immaginarle!?»

Ma a cosa sarebbe servito farle? Anche se le avessi fatte sarebbero comunque finite. A cosa sarebbe servito bere, mangiare, innamorarsi, fare l’amore, andare alle feste, essere felice, ridere? Se tutte queste cose sarebbero comunque dovute finire? E una volta finite, sarebbe stato come se non le avessi mai fatte? Come se le avessi soltanto sognate? Che cosa restava della birra buona che avevo bevuto? Dell’amatriciana ineguagliabile che avevo mangiato? Dell’amore grande che avevo vissuto? Dell’orgasmo che avevo provato? Delle feste? Delle risate? Della felicità? A questo punto era meglio restare a casa a immaginarsele le cose. Cosa cambiava? Immaginazione e realtà, una volta finite, erano la stessa cosa. Di entrambe non restava niente. Ma almeno nell’immaginazione non soffrivo mai. Dei sogni andati del giorno prima non sentivo mica la mancanza! E così avevo deciso di vivere chiuso in casa. Incatenato. Avevo deciso di vivere prima delle cose. Avevo deciso di vivere le cose prima che avvenissero. Prima di quel momento vuoto che ci sarebbe stato quando fossero finite. Avevo deciso di viverle prima nella mia immaginazione, così che mi bastassero. Così che non sentissi il bisogno di viverle poi nella realtà, dove avrei potuto affezionarmi a loro e soffrire per la loro fine. Avevo deciso di vivere sempre prima. Avevo deciso di vivere a ritroso. Perché, per poter vivere bene dopo che le cose fossero finite, avrei dovuto fare sempre cose brutte e noiose. Quelle cose che uno, quando le faceva, non vedeva mai l’ora che finissero. Come per esempio lavorare. Oppure pulire. Cose che uno faceva solo perché potessero finire. E le faceva cercando di finirle il prima possibile. E il piacere stava proprio nella loro fine. E avevano senso solo perché una volta finite rendevano tutto più bello. E più era faticoso lavorare, più era bello finire di lavorare e tornare a casa. E più era sporco il pavimento, più era un piacere finire di pulire e guardare il pavimento che brillava.

«Perché uscire e fare le cose è sbagliato» gli dissi.

«Ma che discorso è mai questo!? Tutti sbagliamo! Sbagliamo sempre! Nessuno fa mai la cosa giusta! E sai perché? Perché la cosa giusta non esiste! Tutti facciamo soltanto quello che ci sentiamo di fare! Ciò che è necessario per noi! E non potremmo fare altrimenti!»

«Ma io proprio per questo mi sono incatenato. Per fare altrimenti. Per non fare quello che mi sento di fare. Per non fare quello che mi è necessario. Perché le cose più necessarie sono quelle che finiscono prima.»

Riagganciai il ricevitore, sempre con le labbra. Mi riaddormentai. Fui svegliato qualche ora dopo dalle sirene della polizia. Allarmato, provai ad alzarmi per andare alla finestra a vedere cosa potesse essere successo. Ma mi resi conto che tutto il mio corpo era legato al divano con delle catene. C’era anche una pistola vicino a me. Però adesso non potevo soffermarmi su questi particolari irrilevanti. Dovevo più che altro cercare di capire cosa stesse urlando il poliziotto dalla strada.

«Polizia! Lei è circondato! Esca di lì immediatamente! È meglio se fa quello che le dico! Altrimenti non farà che peggiorare la sua situazione!» urlò il poliziotto.

Nessuno nel quartiere gli rispose. Con chi ce l’aveva? Mi ero per caso addormentato nel bel mezzo di in un film d’azione dove ero io il protagonista? No, non stavo girando un film. Che idiota! Mi ricordai di essermi legato da solo. Forse, allora, dei ragazzi stavano giocando a guardie e ladri giù per strada? Poverino, l’aveva lasciato da solo questo qui! Evidentemente gli altri gli avevano fatto uno scherzo, e mentre lui continuava a giocare, loro se ne erano andati via. Doveva essere l’emarginato della comitiva. Quello preso in giro da tutti. La vittima di quel bullismo impietoso che andava tanto di moda.

A un tratto dei proiettili esplosero attraverso la finestra. Forse non era un gioco. Oppure la tecnologia applicata ai giocattoli doveva aver fatto passi da gigante.

«Allora che fa? Esce o preferisce che veniamo a prenderla noi?»

«Ma ce l’ha con me?» gli chiesi io incredulo.

«Non faccia il finto tonto! Esca di lì!»

«Non posso. Sono legato.»

«Ma non ce l’ho con lei! Sto dicendo al terrorista!»

«Ma sono da solo! Glielo assicuro! Non c’è nessun altro essere umano in questa casa! Non c’è nessun terrorista!»

«Senta! Lo so che è difficile! Ma deve sforzarsi di considerare anche gli stranieri come essere umani!» fece comprensivo il poliziotto.

«Ma non c’è nessuno straniero qui! Non c’è nessuno! Sono solo!»

«E chi è stato a legarla?»

«Io!»

«E lei chi è? Il terrorista?»

«No! Sono sempre io!»

«La vittima?»

«Non sono la vittima!» feci io, esasperato.

«Lei deve smetterla di giocare! Noi non abbiamo tempo da perdere qui! Mi deve dire se lei è la vittima o il terrorista!»

«Nessuno dei due!»

«È Terrorizzato?»

«No.»

«Allora è il terrorista!»

«Ma no! Non sono né l’uno né l’altro! Lei si sta sbagliando!»

«Senta! Lei deve essere per forza o la vittima o il terrorista! Non può non essere nessuno dei due! Sennò che attentato è?» mi disse il poliziotto, fiero della sua logica inconfutabile.

«Ma non c’è nessun attentato!»

«E allora perché è legato?»

«Che c’è di strano nel fatto che sono legato!?»

«Senta. Noi siamo qui per salvarla.»

«Ma io non voglio essere salvato! Io non vi ho chiamato!»

«Ci ha chiamato un suo amico per dirci che lei era in pericolo di vita, e che era stato incatenato al suo divano.»

«Ma non è vero! Mi sono legato da solo! Di mia volontà! Non sono in pericolo!» feci io, implorante.

«E per quale motivo si sarebbe legato?»

Gli dissi che non volevo più uscire. Gli dissi che avevo paura di tutto. Perché tutto poteva finire da un momento all’altro. Perché tutto era destinato a finire. Gli dissi che avevo una paura matta dei grattacieli. E fuori era tutto così pieno di grattacieli. Gli dissi che avevo una paura matta di uscire e di stare in mezzo a quegli enormi e incombenti edifici che sembravano stare lì soltanto per crollare. Gli dissi che i grattacieli mi davano un senso di catastrofe imminente, come se le catastrofi potessero avvenire esclusivamente dove ci fossero dei grattacieli, e non dove ci fossero solo delle capanne fatte con la paglia. Perché dove non si costruiva niente di rilevante non poteva esserci una catastrofe. E allora era meglio questa immobilità, questo nulla di emozioni, questo rifiuto di qualsiasi attività precaria. Questo vuoto anticipato che avrebbe trovato nella morte la sua legittima continuazione, e che quindi non sarebbe mai finito.

Il poliziotto adesso fu certo di avere a che fare con il terrorista. Ma fu anche certo che io stessi attentando a qualcosa di più grande che non la vita di una sola persona legata a un divano. Io stavo attentando alla vita di tutti. Alla vita del mondo intero. Alla vita in generale. Alla vita in sé. E fu certo che io non stessi attentando ai simboli del potere, ma al potere stesso. A qualcosa che era molto vicino alla radice del potere. Io, in questo modo, non stavo facendo altro che terrorizzare la gente! Non stavo facendo altro che spingerla a non uscire! A restare a casa! A non fare più niente! A non comprare più! A non mangiare più! A non bere più! A non consumare più! A non scopare più! A non procreare più! Dove saremmo finiti così!? Cosa ne sarebbe stato del mondo!? Le forze dell’ordine non potevano permettere una cosa del genere! Dovevano salvare l’umanità da questo attentato! Loro mi avrebbero slegato e mi avrebbero impedito di mettere in atto il mio proposito! Loro mi avrebbero costretto, d’ora in avanti, a uscire e a fare tutte quelle cose che sarebbe stato necessario fare perché il mondo fosse continuato nello stesso identico modo di sempre. Senza che nulla fosse mai cambiato.

Gli agenti irruppero nella mia casa, dopo aver sfondato la porta a suon di calci. Presi la pistola che avevo a portata di mano, e la puntai su di loro. Non ci pensarono due volte a spararmi, e a uccidere in questo modo l’uomo che aveva minacciato il mondo intero incatenandosi al divano di casa sua.

***

In copertina: Prometeo, incisione xilografica, Barthélemy Aneau, Picta Poesis, Lione 1552.