Leggo certi libri come se mi parlassero. Li ascolto. È da questa posizione che mi trovo a scrivere dell’ultimo di William T. Vollmann, Ultime storie e altre storie. Ho camminato in alcuni posti del mondo con sicurezza, mi è vicina l’immagine di Vollmann che passeggia con la sua fidanzata nera, in un quartiere senza bianchi, di notte a L.A., e la mano libera vicina a una calibro .38. C’è sempre un cammino nell’immaginario in Vollmann, reale, fatto con le proprie gambe. Un cammino che suggerisce di essere gentili e attenti e incoscienti in questo mondo, che la gentilezza e il coraggio e la bellezza potrebbero accompagnarci anche nell’altro. Ed è verso l’altro mondo che si va in questo libro: c’è un esplicito commiato e incontriamo un barbiere per i morti all’inizio e un barbiere per i morti alla fine.

Eventuali opere successive a me attribuite saranno state composte da un fantasma. Guardo il mondo che passa fuori e mi domando come avrei dovuto vivere. (p. 9)

Questo è il mio ultimo libro, dice chiaramente l’autore di capolavori immortali come Puttane per Gloria (1991, Mondadori, 2000), Venga il suo regno (1992, Alet, 2005), Come onda che sale e che scende (2004, Mondadori, 2007), Europe Central (2005, Mondadori, 2010). A lui, oltre la sua storia, si può ben credere.

DeLillo non descrive una Convergence in ZeroK?
Che vorrà quindi dire e lasciare W.T. Vollmann, uno dei più grandi autori contemporanei, con questa sua ultima opera? Non scrive della morte, ancora a un’età che va definita, il grande scrittore – come chiunque – morituro?
Sì, lo fa.  Scrivendo di fantasmi e magie, stregonerie e donne, vive e morte.
Si tratta di racconti, di volta in volta, giornalistici e autobiografici, bizzarri e macabri, estetica dei movimenti umani e icore lasciato dai fantasmi, non fiction e filologia nordica, tutto in un solo tomo. Una serie di storie che solo arrivando verso la fine mostrano un filo comune. Vollmann – che quasi ritorna a The Rainbow Stories (1989) con ancora più colori, in ambienti che ha visto e vissuto –,  vuole mostrare un altro spettro che è quello delle manifestazioni della vita e delle possibilità della morte, entrambe si intersecano, si ‘con-fondono’.

La creatura all’interno del vetro brunito non era in sé e per sé, almeno per quel che ne sapeva lui, maligna. Se si asteneva di parlarne con i preti, ciò dipendeva soltanto dalla loro meschina intelligenza. Quel che lui nascondeva – la cosa in sé, ma anche le malsane emozioni che quella malsana vigilanza suscitava – era meno importante della sua segretezza. (p. 142)

La ricchezza di generi, ambientazioni e metafore è abbondanza, folla e affollamento, che va come ordinata ogni volta che un racconto si conclude. Si nota, non appena lasciata una Sarajevo sotto assedio e i ricordi di giubbetti antiproiettile che sudati perdono potere d’arresto, che Vollmann sembra preferire la descrizione minuta e colorata di oggetti e persone alle metafore secche e potenti di altri e diversi suoi libri.
In questa che è una raccolta apparente di racconti ci sono dei segni che consistono in parole ricorrenti e questi indizi sono suggeriti proprio dalle descrizioni minute: un cormorano in una Norvegia mitica e in una casa di geishe, tanti tentativi di afferrare la morte con grandi e piccoli riti e pendagli nel Sacro Romano Impero come nell’impero coloniale del Messico, piccoli ragni neri ed enormi ragni guardiani, l’oro che protegge da spiriti malevoli e l’oro per comprare il piacere di una notte, ecc. Rintracciare queste piccole e nascoste pietre non è necessario per immergersi nella lettura, ma lo è per seguire un cammino quasi iniziatico. Medaglioni di sante, mercurio, bronzo e ottoni, Quebec e una Trieste degli esuli vittoriosi, le donne che si amano e quelle che si dovrebbe amare, mappe lunari e imperi coloniali e pelle di luna e frutti perlati, lune gialle e un seno verde, l’incertezza dell’amore in vita e la sicurezza dell’amore per e nella tomba. Pegni d’amore magici e incantesimi di morte. Abbondanza che va dipanata, leggendo e guardando.

Lei terminò di disegnare la nave con il gesso e gli tese la mano. S’imbarcarono in un batter d’occhio, bidimensionalmente, correndo tra muri e pietre come scarafaggi, con teschi d’argilla nella loro scia mentre navigavano nella terra nera come la notte, finché non furono di nuovo fuori, nella luce di Veracruz, e veleggiavano tra file di giovani banani con i caschi di frutti gialli che già pendevano verso terra, e pesci dalla coda biforcuta che guizzavano, e fantasmi tutt’intorno a loro, come cani che trotterellavano annusando. (p. 405)

Ci si trova in una fiaba norrena fuori tempo massimo (Lo stretto passaggio), alla ricerca dell’amore per streghe e vampire, per splendide bosniache che fumano mentre intorno cadono colpi di mortaio.  C’è un uomo e sempre, nonostante l’incanto, emerge la prospettiva ultima della morte e vari e diversi tentativi di conquistarla.

Turid era sulla soglia e sorrideva, con una spilla a forma di serpente sul colletto della morbida sottoveste grigia. Aveva un seno bianco e un collo fiero da chiesa lignea norvegese… Con il tempo mi diede un’intera covata di bambini-uccello, e la nostra vita insieme divenne umida come il vento marino sopra le tombe coperte di dolci erbe.  (La tomba della regina, p. 481)

Ci sono tantissimi fantasmi in questo libro, entità che uscite dal mondo dei vivi si ritrovano a scalare montagne inaccessibili per un corpo e che poi si trasformano ancora.
Vollmann spazia dal racconto gotico de Una moglie fedele a quelli di avventura come Diciotto Giugno e Due Re a Zinogava degni del miglior Voltaire. Spettri come personaggi e lo spettro della narrazione. I personaggi si trasformano in fantasmi anche se forse già lo erano, poliziotti si trasformano in mostri per infiltrarsi in cimiteri e tra gang di mostri e demoni, si apprendono esorcismi e stregonerie, giovani spendaccioni indagano misteri per poter spendere ancora in vecchiaia, gloriose dinastie serbe si perdono appena si lasciano sfuggire i misteri dell’immortalità in forma di Eldritch abomination uscite dal miglior Lovecraft che non a caso viene citato due volte.
Ci sono tanti elementi mistici e magici, troppi a volte, e alla fine pare di scorgere il senso della ricerca condotta da questo uomo e scrittore e avventuriero. Leggere questi 32 racconti sembra una scalata lenta ma inesorabile da Sarajevo al Giappone, anelando a una suggestione estetica sempre più perfetta, per poi ritornare a un racconto quasi autobiografico ma totalmente sublimato: Quando avevamo diciassette anni.

“Ogni uomo” afferma uno psicoterapeuta tedesco “attraversa un’età critica in cui dice addio alla giovinezza e all’amore.” Questa età ha inizio con la morte. Io, però, bloccato nel mio sviluppo tanatosessuale, rivivo continuamente la mia vita, cui non mi preoccupo di dire addio, almeno per ora. Sono un giovane fantasma. (Addio, p. 710)

È una grande opera creativa questo Ultime Storie, ricorda Fragile Things di Neil Gaimann per generosità di suggestioni, ma in Vollmann la metafora è una e il Piano e il senso sono superiori. Un senso che va decodificato rimanendo sulle parole e seguendo le suggestioni di sesso, amore e morte di cui il libro è pieno, gli indizi confusi nella narrazione fiabesca, di orrore e di avventura, lingue e incantesimi e tanti cimiteri e letti di donna; questo libro appare a chi vi scrive un incantesimo in cifra e codice per ottenere la vita eterna. Se così fosse, questa non sarebbe una recensione ma una breve ed effimera guida.

William T. Vollmann
Ultime storie e altre storie (2014)
trad. it. di Gianni Pannofino
Milano, Mondadori, 2016
pp. 747