È incredibile che il brodo possa bruciare.
Lascia una pellicola bruna sul fondo della pentola,
tanto scura da potersi leggere.

«Come un fondo di caffè nonna?»
«Sì, Horacio».
«E nel brodo puoi vederci il futuro?».
«Sì, certo. Ma solo quello buono».
«E a che serve allora?».
«A dimenticare l’altro».
«Quale nonna?».
«Quello che si vede nel caffè, Horacio».

 

A me e a Inés fu proibito anche solo di chiamare il caffè per nome. Mia nonna vi aveva visto qualcosa di male, e atterrita aveva gettato i fondi ancora umidi nella terra, frantumato i grani col pestacarne e cucito le polveri all’interno di buste di cotone grezzo. Aveva nascosto quegli involucri bianchi nei pertugi di casa, luoghi che ben presto divennero ignoti anche a lei e che solo di tanto in tanto, involontariamente, riscopriva.
Mi adoperai per trovare qualcos’altro che ne sostituisse gli effetti, consentendomi di vegliare alla luce del sole. Dacché ero ragazzo infatti, non avevo fatto altro che piegare la testa: sui banchi dell’ateneo, sul seno adolescente di Inés; avevo mani capienti dove addormentarmi e nessuna necessità di vincere la malattia del sonno di cui ero schiavo. Poi però era arrivato il caffè: la nonna aveva trovato l’antidoto, temporaneo ma efficace, ai miei sonni perenni e per la prima volta avevo goduto della freschezza dell’esser desti. Dei suoi chicchi, del suo aroma, ero a poco a poco divenuto dipendente e la sua assenza, ora, aveva su di me l’effetto di un’antica condanna: quella all’insostenibile buio da cui mi ero emancipato.

Come accadeva in molte altre faccende, mia sorella s’abituò in fretta a questa nuova condizione e, compiacendo la nonna, in poco tempo sostituì il caffè con le fave del nostro campo. Inés ne mangiava così tante che io sentivo di non mangiarne mai abbastanza e sapevo (ebbene lo sapevo ma all’inizio me ne infischiavo) che in cucina, con lei, sarei rimasto per sempre il secondo.
Ne chiedevo altre, ancora, tante, di continuo, ma mentre le chiedevo, Inés ne aveva già in bocca due volte le mie; la sentivo masticare, le erano venuti i denti apposta, e io volevo sparire per la vergogna di averne chieste altre (convinto di volerne, si intenda); il confronto mi faceva intravedere la sconfitta. Con lei che era così naturale. Inés era nata per le fave.

Giugno finiva e la nonna aveva solo cominciato a respirare male; lasciava andare la cucina, il brodo che bolliva fino a seccare; aveva i fili delle maglie che le calavano dalle maniche, annodati molli e non tagliati. Se la si guardava bene in volto, drittamente, senza far ballare lo sguardo, la decadenza si notava appena. Camminava dalla cucina al soggiorno, poi dal soggiorno alla camera da letto, trascinandosi appresso l’ombra sul muro e lasciando alle mie braccia quello che restava del suo peso. Presto smise di recarsi ogni giorno ai fornelli e s’adagiò per sempre sul letto, alleggerendo il tormento mio e di Inés, e liberandoci dal suo pensiero.

Inés prese a cucinarsi le fave da sé, con un’attitudine alla sopravvivenza che le invidiavo. Si curava di me quel tanto che bastava per sentirsi una donna utile. Mi si rivolgeva con quel tono di fittizia disinvoltura, di impercettibile irritazione che si ha per ciò che una volta si è troppo amato e che poi gli eventi hanno reso necessario e sgradevolmente imprescindibile.
Era accaduto anche a me, di sentirmi utile, ma la sensazione non era durata a lungo. All’università avevo una fissazione per le soluzioni e le quadrature. Ero abile di mani e di pensiero: e raggiungevo il risultato senza alcuna fatica. Se per qualche motivo questo non accadeva, la fisica prendeva il sopravvento: mi mostrava variabili inattese e ritardava di un tempo indefinito la chiusura dell’operazione. Al che la mia premura diveniva ansia ed ero invaso dallo sconforto. Mi lagnavo con Andrés perché mi aiutasse, lo pregavo di rimanere perché il processo che ogni nuova ipotesi richiedeva mi riusciva insormontabile. Così lui restava e si appassionava a ciò che io non ero stato in grado di risolvere. Accadeva che ciò che qualche giorno prima mi aveva tenuto sveglio la notte, adesso contava meno di niente; la disaffezione era istantanea e totale. Un’indifferenza che non aveva nulla a che vedere col modo con cui Inés passava sopra alle cose che la deludevano. Era un distacco che muoveva dal rancore di avere condiviso e reso pubblico qualcosa per cui non ero stato abbastanza: per Andrés come per Inés mi accorsi presto di non disporre di un briciolo di gratitudine.

Infreddolito dalla sua mancanza, la guardavo allontanarsi dai fornelli e tornarvi a cadenze regolari: lasciava il mestolo appoggiato sul marmo; di tanto in tanto il brodo colava a terra, formando una chiazza scura sulle piastrelle di cotto e infilandosi nelle fughe che avevano perso il bianco originario. Quanto a me, potevo anche fare a meno di mangiare; il mio stomaco non era più quello di quando ero ragazzo, s’era raggrinzito e, superati i quarant’anni, andava mescolandosi con la carne attorno. Il vapore, soffice agli occhi, diveniva presto una pellicola unta che aderiva alla mia pelle e, riscaldandola, la soffocava.
Per scrutare ciò che restava delle donne di casa, tagliai due buchi a una maschera nera, di stoffa spessa, con cui a Lumezzane si fanno le tende. La indossai legata stretta sulla nuca, e non la levai più; l’età divenne un accidente e il mio viso, sveglio o assopito, l’enigma che Inés rinunciò di sciogliere. Col passare dei giorni indurii lo sguardo e lo appoggiai solo su mia nonna, distesa a letto, con l’odore del brodo bruciato che da sotto le porte invadeva la stanza. Lentamente, mi dimenticai delle fave, della decadenza, di Inés.

Quando serviva facevo qualche lavoro in casa, ma si trattava di piccolezze poiché la malattia del sonno poteva sopraggiungere in ogni momento e fin da bambino mi aveva condannato a una vita controllata. Nei campi non ci andavo mai. Lasciavo che Inés si occupasse di tutto. Passava lunghi pomeriggi piegata; rientrava a casa con le braccia cariche e il viso arrossato; si riappacificava con i fornelli e la cucina rimasta al buio, serrata con due giri di chiave; e con la pentola che bolliva da ore, come se il brodo non potesse mai evaporare del tutto a causa dell’anima sporca che restava sul fondo della pentola.
Con la maschera attorno agli occhi, mi sdraiavo accanto al tronco maculato di un platano, e leggevo, leggevo le poesie di Borel e il teatro di Artaud fino a perdere la vista. Sfruttavo l’ombra che superato mezzogiorno mi sfuggiva da sotto la schiena. Allora mi alzavo nel sole verticale e mi rifugiavo al capezzale della nonna, con gli occhi allucinati e il collo fradicio di sudore.
Passavo in quella stanza ciò che restava del pomeriggio, ascoltando le mosche sbattere contro i vetri. Per tenermi desto lisciavo con le mani i quadri imbottiti della trapunta che mia nonna teneva sotto i talloni, perché con le gambe sollevate l’ossigeno le rinfrancasse la testa, appoggiata su una lastra di ghiaccio. La sera, quando il cuscino si infradiciava e il blocco diveniva acqua, Inés lo sostituiva con una lastra nuova; ma ora che la calura incalzava sarebbe servito farlo più spesso.
Non era compito mio, io colpivo la trapunta zuppa col pugno, ci passavo sopra la mano aperta, premendo il dorso di una con il palmo dell’altra. Eliminavo con cura ogni imprecisione. Una volta dovetti scucire uno dei quadri imbottiti per poi ricucirlo più largo (perché le pieghe non se ne andavano); quella faccenda mi occupò l’intero pomeriggio e stentai a restare sveglio.

Seduto accanto al grande orologio a pendolo facevo da guardia che Inés non tornasse. La nonna l’aveva sistemato al posto dell’armadio; lo aveva addossato alla tappezzeria, ma ogni tanto lo spostava perché non si imprimesse la forma sul muro. Mi sedevo con la schiena addossata al legno affinché il mio corpo potesse percepire il ticchettare delle lancette: contavo i secondi, li confondevo con i battiti del mio cuore, sentivo il tempo languire nel sangue come se il ritmo stesso del mio sopravvivere fosse esso stesso misurato da qualcosa che non ero io. Lontano dall’orologio, il cuore senza ritmo rischiava d’impazzire.
Da quando la malattia aveva rovinato gli arti e la schiena della nonna, l’orologio era rimasto dov’era e si era come assopito. Le ore avevano cominciato a passare lente e il mio orrore a dilatarsi senza che niente riuscisse a distrarmi. Anche la poesia aveva perso il suo potere: non mi provocava più alcuna euforia e il sangue era come raggelato. Sconsolato, cantavo alla nonna certe canzonette puerili che lei aveva lungamente propinato a me, quando da adolescente soffrivo di solitudine. Laddove anche le note cominciavano a mancarmi, mi issavo con un colpo di reni sul materasso e mi sdraiavo accanto a lei, finché ogni parte del mio corpo non la sentisse aderire. Restavo lì a raffreddarmi e a guardarla da vicino, attraverso la maschera. Appoggiavo le labbra sulle macchie violacee delle sue gote, le sentivo tumefarsi e gocciolare dentro di me. Avvertivo gli zigomi disfarsi. Poi una calma inconsueta cominciava a scorrermi dentro e, mescolata al flusso del sangue, mi addormentava.

Mi affeziono di rado alle persone. Finché nonna me lo permise il caffè restò il mio solo amico e amuleto. Per questo, quando scoprii il tesoro che l’orologio conteneva, non faticai a tenere il segreto per me; piuttosto fu difficile frenare la brama di averlo tutto in corpo, subito, senza dover centellinarne le dosi.
Era durante il tramonto, che per ore è tramonto e poi subito crepuscolo, che aprivo l’orologio. Lo spostavo di qualche millimetro e ne spalancavo la piccola anta. Un odore compatto, quasi di cerimoniale, traboccava da quella tomba. La polvere e il legno non bastavano a guastare l’aroma del caffè, così denso da potersi toccare. Rapiva le mie pupille, e supplicava la mia lingua di sporcarsi e ritrarsi subito, insieme all’anima, dopo aver baciato il diavolo.
Ogni giorno, prima di sdraiarmi accanto alla vecchia, mi concedevo questo momento sacro, come a suggellare la fine del mio orrore pomeridiano: il bacio del diavolo mi scaldava, ridestando in me ogni energia, e permetteva alla mia coscienza di affrontare il cominciamento del buio senza che il sonno sormontasse la veglia.

Un pomeriggio che non erano ancora le sei, Inés mi chiamò dal cortile; la sentii perché nonostante le tende tirate, la finestra era aperta.
«Horacio!», il cortile risuonò grave del mio nome, che dal selciato risalì lungo tutta la grondaia. Inés aveva la bocca piena. Potevo riconoscerle il bolo a destra, impastato dalla saliva, che formava un tutt’uno con i molari e i premolari rivestiti da quella pellicola scivolosa e attutente con cui i legumi foderano ogni cosa che li spogli.
«Horacio! La posta!», ripeté, spinse la chiave nella toppa e rientrò, colma di apprensione che il brodo in sua assenza avesse cambiato colore.

Andrés era un vecchio compagno di studi, scriveva da Arezzo e aveva notizie strabilianti: diceva di aver riportato il cerchio al centro delle scienze. Aveva bisogno di un assistente ed era smanioso di avermi con sé. Io non avevo nulla da perdere. L’unico mio pensiero andava alla scorta di caffè che si faceva di giorno in giorno più esigua e all’orrore che i pomeriggi rallentassero il ritmo, fino a uniformarsi al cuore della nonna. Andrés sapeva della mia malattia, e non era la prima volta che ricevevo una sua missiva; avevo notato che accadeva sempre in occasioni funeste, in cui lo spirito in apnea non aveva la forza di stare al passo degli eventi. Era in questi momenti che Andrés si ricordava di me, come se la nostra giovinezza potesse riaffiorare solo tra le fenditure più cupe dell’esistenza.

Sarei partito l’indomani, di mattino presto, perché il pallore dell’alba non ridestasse in me il ricordo bianco delle cosce di Inés. Inés per cui ero tornato a essere un fratello minore e della quale non riuscivo più a godere. Affondai un’ultima volta le labbra nella polvere segreta. Baciai la bocca della nonna; lasciai che il caffè scivolasse dalle mie labbra alle sue, restituendole la grazia che lei stessa mi aveva concesso per tutta una vita.
Barcollai come un cieco fino alla stazione, con gli arti rinfrancati dall’entusiasmo del mattino. Durante il viaggio sentii l’umore migliorare grazie al lento animarsi delle colline e il pensiero eccitato di Andrés bastò a tenermi desto. Lo attesi accasciato all’ombra, sotto un portico che esauriva il fresco trattenuto dall’inverno. Un fetore di piscio aveva invaso ogni angolo e tentai invano di fuggirne. Poi lo vidi.
Camminava sul limitare di un cono d’ombra finissimo, era alto, avvolto da un drappo informe che ne rendeva l’equilibrio precario. Avanzava titubante sui ciottoli, in direzione del portico. Gli sorrisi da sotto la maschera.
«Horacio! Mi venga un colpo. Horacio!», mi abbracciò.
«Accidenti amico, sei gelato! Che razza di liquido ti scorre nelle vene…», con uno spasmo mi liberai delle sue braccia e arretrai.
«Il brodo di Inés evapora in così poco tempo, riesco di rado ad averne più di una scodella. Tu piuttosto, hai buone notizie per un buon amico?».
«Le giudicherei ottime, optimus Horacio».
«Ebbene. Hai di che brindare?», Andrés raggiante annuì e insieme risalimmo la via che piegava all’ombra, diretti al laboratorio di anatomia.

Sotto una luce misera che a tratti ci abbandonava, lasciammo scivolare una grappa al ginepro in una grossa pentola. All’interno il caffè di Andrés ribolliva liberato dal coperchio, cosicché il vapore acqueo non ne alterasse il sapore. Lo bevemmo in boccali larghi e tozzi e il sonno ci vinse solo verso mezzogiorno. La sera ci svegliammo entusiasti come quando ci eravamo incontrati. La maschera nera aveva smesso di sfregiarmi il volto, schernita da entrambi era scivolata sul fondo della pentola. I miei occhi, liberi di ballare, non scorgevano alcuna decadenza ora, al cospetto di Andrés, dove il mio spirito rinfrancava la giovinezza di cui riuscivo a godere ancora.
«C’è un’altra corrente, Horacio, una che porta il sangue dalla periferia al centro, al cuore. Il caffè ne aumenta la velocità e diminuisce il tempo del mio sperimentare. Per provarlo ho bisogno di un cadavere, e che sia di pochi giorni».
Il sangue non defluisce dal cuore verso i limiti del corpo né dai limiti del tempo al cuore. Non una sola direzione, né un’unica via che allontana il fluido dal centro e ne disperde le gocce in superficie. Piuttosto un cerchio che, com’è andato, ritorna, che come scalda raffredda, che dapprincipio sporca e infine redime.
«Un ciclo continuo Horacio, potenzialmente senza fine».
Bevevo caffè e liquore, caffè amaro e dolce, caffè e miele… da giorni. Ero al limite del godimento. La compagnia di Andrés mi rendeva livido in volto e incapace di ragionare. Al centro di un elastico, finalmente potente. Per questo mi misi in ridicolo e non compresi l’immensità della scoperta di Andrés.
«Uccidimi, fratello. Se è una rivoluzione falla sul mio corpo, tu mi vedi ma è come se fossi morto. Metti al centro dell’universo il cuore e levaci il sole», e bevvi e risi e mi accorsi, tardi, che Andrés non rideva.
«Te ne racconto una buona, amico», provai.
«Inés ha ubbidito alla vecchia. Ha sostituito il caffè, con le fave. Me, con le fave, Io, me con…», bevvi, ma il bicchiere era vuoto. Cercai la grolla con gli occhi. Era là, pesante di grappa accanto ad Andrés, che non rideva. Non solo non rideva, ma non mi guardava neanche più.
«Vedi, mi maschero Andrés. Temo che lei me lo legga negli occhi che io non ho smesso. Nemmeno per rispetto, per la vecchia, per…», persi le parole, la gola annodata si sciolse. Le lacrime mi alterarono il volto fino a renderlo irriconoscibile. Dai miei occhi bagnati vidi Andrés come da una lente: era trasformato, distante.
Mi lasciò solo, seduto con l’addome riverso sul tavolo. Si accese un sigaro, aprì la porta e si appoggiò allo stipite. Io mi sdraiai sul letto col viso rivolto al muro e una veglia eccitata mi accompagnò per tutta la notte. Sentivo la caffeina scorrere sui lembi delle palpebre e nelle vene accanto all’inguine. Andrés rimase sull’uscio, con l’aria infilata nel collo che raffreddandosi guadagnava il mattino. Era un medico del corpo e della mia anima corrotta non sapeva che farsene.

Prendemmo il treno del tardo pomeriggio e giungemmo a Lumezzane che era di nuovo notte. Il cortile era lievemente illuminato; si sentivano i grilli frinire e Inés macinare con i denti le fave più tenui, quelle appena colte. La porta di casa era aperta ma entrando mi sentii soffocare, tanto era forte l’odore del brodo. Tastai la maschera sul mio volto per essere certo che fosse al suo posto, perché Inés non riscoprisse, dal livore innaturale delle gote, il mio corpo caldo per il caffè che mi scorreva in corpo.
La vecchia giaceva aurea sul letto, nel buio della stanza. Domandai a Inés del ghiaccio, così violentemente che la donna prese a masticare le fave con una veemenza tale da mordersi il labbro. Mentre l’aiutavo a sistemare altre tre lastre intorno al cadavere, una goccia di sangue caldo le cascò dalla bocca, ricavando nel ghiaccio una conca ovale. Andrés si spazientì e chiese a Inés di andarsene. Era così notte che non desideravo sapere che ora fosse.

Ordinai gli attrezzi di Andrés sulla cassapanca, cercando di immaginare la successione temporale con cui li avrebbe usati. Tagliò il lembo di pelle che copriva la parte superiore del busto della vecchia. Lo incise appena, come fanno le sarte che abbozzano col gesso una sagoma sulla stoffa. A mani nude scoperchiò l’inguine, i polsi, i gomiti, le caviglie. Notò il cuore marcire sotto lo scheletro e con un bastone uncinato lo penetrò. Simulò sistole e diastole; con un movimento verticale, ciclico e continuo; poi un’espressione supplicante ottenne l’effetto sperato: dapprima, legando le vene all’altezza delle caviglie, vide affiorare un livido di sangue accumulato; poi, stringendo il laccio attorno alle vene del polso, osservò l’edema formarsi in egual modo. Sorrise e mi guardò.
«Dalla periferia al centro. Il sangue trova un ostacolo, si ferma. La vena si gonfia».
Senza indugio abbassò lo sguardo e tagliò una vena, all’altezza dell’inguine. Il sangue zampillò scuro, il ghiaccio divenne palude, la luce infuocata della stanza era tanto calda che pareva il falò dell’inferno; quando il sangue divenne rosso e nuovo, vidi i suoi occhi stringersi e vincere. Gli passai tremante ago e filo e Andrés ricucì la ferita.
Sentivo la fronte madida e il sudore sostare sulle rughe. Con un movimento maldestro spinsi una delle lame che Andrés usava per le incisioni fin dentro la trapunta. La polvere di caffè cominciò scivolare a terra, sibilando sinistra, come una clessidra.
Dunque era lì che la vecchia l’aveva nascosto!
Cominciai a tastare forsennatamente la trapunta. Non tutti i quadri contenevano la polvere: solo alcuni, ma erano a decine. Una risata improvvisa mi scosse il torace, risi convulsamente con le mani che accoglievano quella cascata di veglia. Poi il riso finì e il sonno malato tornò a farsi sentire, perché nel riso come nel sesso, quando la coscienza si abbassa, si fa largo la debolezza.
Feci appena in tempo ad aprire l’orologio a muro, agguantare la ciotola cerimoniosa e a riempirla del caffè sgorgante. Affondai il volto nella polvere. Quando riemersi vidi che la maschera era rimasta nella ciotola. Attorno agli occhi il caffè s’era come addensato, aderiva – complice il sudore – al mio volto paonazzo, che non avrebbe mai più dormito.

Lasciai Andrés in quella stanza ferrigna, Inés, invece, guaiva in cucina accanto al rumore del brodo; triturava nervosamente le fave con i denti, le ruminava come una bestia e non le deglutiva. Le cadevano dalle labbra ferite, e con le mani le rimetteva in bocca. Il bolo restava bolo e uscendo e rientrando, lentamente si ossigenava. Quando mi vide smise di piangere; smise anche di masticare. Mi accarezzò gravemente la fronte e le palpebre con una mano abituata a toccare il corpo e non il volto. Il caffè non veniva più via. S’era come incastonato in me, pareva un arabesco più che una cicatrice. La mia fronte era un mosaico, i miei occhi due finestre sporche attraverso cui non era possibile guardare fuori. Eppure io la vedevo. Inés era la bambina che beveva il caffè al posto dell’acqua solo per farmi sentire normale. Era l’adolescente che mi ascoltava leggere ad alta voce immobile, tra le lenzuola e la coperta, strappandomi al sonno perché continuassi. Era la donna che avevo avuto accanto da sempre senza doverla cercare, la cui forza mi attraeva e insieme atterriva. Finché un giorno, considerandomi guarito, s’era dimenticata di me.

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