Il presente

Quella donna è matta.
Avesse speso più parole, non dico quindici, ma almeno sei, tipo un forse, un quasi. Se m’avesse detto una circostanza, disegnato un’ipotesi, per quanto personale fosse stata l’avrei almeno azzannata, l’ipotesi. Invece. Quella donna è matta. Talmente condanna che assolve pure, come una testa che mi rotola in petto, ed io boia. Eppure sul ponte era stata davvero un po’ matta. E pure al matrimonio della sorella, quando balzò nella fontana e prese quel pesce, e lo lanciò allo sposo urlandogli di provare ad usarlo.
Cos’è, non ti piace? m’aveva chiesto la prima volta che mi vide, sul ponte. Io ne fermai la faccia dentro di me, lo farebbe chiunque catturando il frizzare di una stella. Meschino! Sempre più facile è dell’acqua, questo frizzare. E dell’acqua è l’amor di sé. E nell’acqua la guardavo di nascosto, nei toni verdi quando la laguna non è presa dal riflesso di una costruzione, sennò diventa chiara, e pare sporca. E’ che c’era il vento che le spostava i connotati assieme ai capelli, sotto ai capelli. E la faccia, matta, non la fermai affatto, ma l’illusione d’arrestare qualcosa è talmente fondata, impalata, che resta tale fino alla morte. Di chiunque, anche di sé.
-No, non è che non mi piace… è che…
-Tu, devi guardare come se fosse la prima volta.
-Io guardo per la prima volta.
Così risposi. Sentendo la proprietà di quella risposta meno che nulla. Ma ero depresso, si diceva allora. Scavato nella nicchia. Trasbordavo di finzioni, e sprecavo parole monche per ogni invisibile fitta.
-Quanto adori le parole?
-Quanto basta.
-Allora basta così, mi disse.
No, era matta e lo sapevo. Mi suggerì di guardare giù dal ponte senza tenere i piedi a terra. Ed a pensarci, non bene ma, pensarci, era così che camminava: coi sandali slacciati, e i piedi neri di carbone sotto. Quando era nuda era nera, carbone che striscia i muri.
-Come? senza toccar terra? Intendi…?
-Non ti piace la vista perché non corrisponde a ciò che di norma ti piace, per canoni? Oppure non corrisponde a quanto t’aspettavi di vedere da quassù?
-Non ti seguo.
-Non devi seguirmi. Io sono ferma. Mi ti dedico: potresti ringraziarmi semplicemente ascoltandomi. E quella paura che ti suggerisce canali di frasi già fatte, seppelliscila. Io, sono nuova.
Lei era nuova. Mio figlio, m’avesse detto un forse, un quasi matta. No, un bambino non ha repliche, né soffre il chiuso. Vede in grande perché in grande vive, come da lassù si vede azzurra questa terra marrone: ma non è un’aggiunta: è che per essere terra deve avere l’azzurro, altrimenti una luna qualsiasi. Quella donna è matta.
-Ecco, l’oggetto già c’era, e te ne arrivava la fama. No?
-Sì.
-Qualche parente c’è stato prima di te, un reportage d’arte, roba del genere, no?
-Sì. Giornali, tivvù. Anche film.
-E tu cosa le fai, alla fama?
-Cosa le faccio?
-La ignori. La fama non sei tu, né i tuoi occhi. L’hanno fatta gli altri, i maggiori, quelli con gli occhi a catinelle e le bende sopra: per la fama non sono necessari gli occhi, ma la voce grossa, e grassa.
Scoppiò a ridere. Era stata la parola. Le scivolò un sandalo, nell’acqua.
-Ma tu chi sei?
M’allungò la mano, come accarezzando una risacca, lunga.
-Sara.
-Michele.
Sara – aggiunse – e Anna, e Maria. E Katia.
Quella donna è matta, m’aveva detto ingoiato dalle lacrime mio figlio, con la faccia rigata di rosee pesche, e un’unghia conficcata nella guancia. Ed ho perso il controllo e …
-Che dici? Tanti nomi?
-Il mio nome è poco, anche il tuo. Michele, cos’è? Tre sillabe sembrano tanto ma sono solo tre suoni, lo sai? La sinfonia che mi renderà musica manco Wagner l’ha concepita. Michele, cos’è? Un’eredità? Una faccia che devi mettere sulla tua testa? E quanto dentro? Questo Michele che dici, ti tocca dentro? Sotto?
Lasciò che un occhio scivolasse fra le mie gambe. Poi si mise di fronte a me, buttandomi i suoi riflessi in faccia che se fosse mancato il sole la mia ombra non m’avrebbe pianto.
-Io sono quattro, quattrocento, milioni di volte più di un nome.
Ad essere stato più sveglio le avrei risposto che per me anche, idealmente, non contava un cazzo. Né sapevo contarli i nomi, né mai l’avevo sognato un calcolo del genere. Io sapevo fare palazzine di tre piani, scale a chiocciola, una volta pure un palazzetto dello sport, che poi era venuto giù col terremoto, ma dissero che era sul punto spaccato dell’epicentro, e poi certe colonne rimasero. Ma lei:
-Cosa non ti piace di questo posto?
-Non dico che non mi piace. E’… strano… il palazzo dico, è compatto. Ecco me l’aspettavo più..
-Più cosa? E perché aspettavi?
-Beh, è normale: vai in un posto e richiami alla testa quello che hai sempre pensato, immaginato, di quel posto, prima di vederlo, e… confronti. Certo, l’immagine è questa e si sapeva e non cambia, ma m’aspettavo che avesse più forza la facciata, quasi da ringhiarmi addosso. Poi ti trovi a confrontare…
-Confronti? Tu confronti con la tua testa?
-Non esattamente, ma è normale, credo.
-Non è normale un bel niente, ma se vuoi, io vado.
S’alzò e fece sinfonie lei stavolta, con la sua gonna, piegandosi come immagini possano fare i riverberi di un improvviso e categorico silenzio. Ma c’era vento, e non la vidi bene. Questo devo ripetermi per non piangermi in mano. Il vento camuffa, ti invade le pupille costernandoti. È l’altro che t’invade. Ma tanto l’avrei rivista.