Il presente. Qui il primo. Buona lectura et crápula. (El potrero y la pelota no se manchan).

Io oggi sono tornato a casa prima, dall’ufficio, di dieci minuti, giusto perché i mezzi erano puntuali, oggi. La bicicletta l’ho vista poggiata al pino, lasciata così in fretta come quando Giulio torna a casa solo per andare a bere. Però poi la piglia e se ne va di nuovo con quella distrazione che fa da specchio a tutto ciò che gli si dice. I bambini sono estasiati quando tornano a giocare più di quando ci vanno per la prima volta, come se dovessero mantenere la concentrazione, il ricordo delle norme che fondano quel mondo. Poi sono entrato, chiamato, nessuno ha risposto…
Stanza 22. Stanza numero ventidue, con numeri dorati, ma di rame, asimmetrici.

Quella donna è matta m’ha detto oggi pomeriggio mio figlio, quando l’ho trovato che aveva dei graffi sulla faccia, proprio dove la sua guancia si fa cicciotta come la avevo io alla sua età, ma poi si sfina, gli dico, ti viene fuori questa bella mascella come papà, sei contento? Sei contento? Perché non rispondi, gli chiedo, perché? Quella donna è matta, mi fa.

Ed io ho ripensato a quella volta che eravamo al mare. Già da un mese stavamo assieme, e sulla spiaggia prendemmo il sentiero verso la scogliera. Anche adesso ci penso, esattamente come qualche ora fa. Cambia solo che le mie mani sono ora rosse. Quei sentieri puzzano sempre di cacca e di sole, e di grilli e cicale che sudano male perché forse si nutrono delle scappatelle dei bagnanti. Gli steli sono rigidi, sperticati, e le foglie di tutte le piante hanno come tumescenze e spine. Non c’è fili d’erba, al posto di quelli palline di spine che s’attaccano ai piedi per non farteli poggiare a terra: è la logica della mina antiuomo. Pure i fiori, per quanto vivaci siano nei colori, hanno una corona offensiva sul capo, fatta di punte e scossoni. Ma questo di lato al sentiero. E’ legge. La vegetazione non invade mai il cammino, nei posti difficili, per una sorta di rispetto e menefreghismo per cui io non tocco te e tu non tocchi me. E i calabroni te li manda solo perché qualcuno ci si è andato a pulire l’intestino. Questa è vendetta, è la posizione del più forte.
Stanza 22, quest’uscio nero coi numeri finti.
Raggiungemmo la torre saracena. C’erano due tedeschi anziani con la pelle rosa forte e i cappellini, e gli occhiali di vent’anni fa, e i calzoni da esploratori al saldo di Rommel. Volpi, questi qui: a settant’anni scalano le scogliere in riva al mare che a me, a trentasei, mi mozzano i polmoni. Ma se ne andarono quando ci videro, borbottando le loro parole di ferro e bosco.
-Andiamo nella torre, dai.
-Andiamo, risposi.
La torre era una stanza, al primo piano, che la porta per salire al secondo era chiusa con travi oblique. Una finestra dava sul mare portando luce azzurra all’interno, luce intarsiata di sfumature mobili. Lei amava l’aspetto delle cose, e sapeva travestirsi in anime diverse a seconda della sua voglia. Si mise lì, davanti alla finestra, dandomi le spalle. Era una massa nera coi contorni celesti, immobile come se dormisse sui fondali, e solo il copricostume sollevato, e il costume bianco stretto fra le natiche, mi dicevano che se proprio era una sirena doveva aver smesso la coda per quel po’ di minuti sufficienti a farmi morire in lei.
-Che qui sia così fresco, e là fuori bollente e senza aria, mi dà l’idea di essere immortale.
E mentre lo diceva scandiva gli accenti delle parole con i fianchi, ondulando, e allargando i riflessi del mare che il suo corpo proiettava nella torre.
-Stiamo sott’acqua?
Non ancora, disse lei.
-Non ancora?
-Dipende da te. Io sono sull’onda, con gli occhi sull’onda, con le gambe sull’onda. E l’onda te la do di seconda mano. Ma se tu mi spingi bene ti porto dove le meduse si inoltrano a morte, tant’è senza fondo.
Con le mani, senza voltarsi, come una faretra di ghiaccio, si sfilò il costume e riprese a oscillare e a fare luci e ombre. Le fui dietro e dentro, con la forza che ogni volta mi dava l’obbedienza alla sua carne dittatoriale, una leggerezza come di compito da svolgere, arricchita dalla mia voglia taciuta, tenuta sotterranea rispetto alla sua che era il motore della nostra unione.
Stanza 22, il futuro è buio finché non prendo la maniglia. Poi la luce m’illuminerà anche alle spalle.
Si sentirono dei passi, come dita a tamburellare fra sabbia e sassi. Anche una, due voci, di timbro maschile ma appena accennato, di quelli che grattano l’udito ma non lo riempiono. Pensai che questo fosse metafora della capacità fallica. Sara forse no. Le voci non le sentivo più, adesso, coperte dai sospiri di lei che più provava piacere più si rilassava nella schiena, sosteneva con più fiato i gemiti, e si chinava dandomi il mare di fronte, dalla finestra, perché quando prometteva era la prima a crederci. Si piegava ancora fino a poggiare il collo sul muretto. Fu allora che vidi due uomini giù, dalla finestra, coi capelli bagnati e la sfrontatezza d’indossare occhiali da vista. Ecco, io ero senza dubbio il maschio, ancor più in quel frangente ma, tecnicamente, era lei ad avere la forza del maschio, specialmente in quel frangente.
-Sara, le dissi, ci guardano.
Mi guardano.
-Sara, io non so se…
Ma il corpo mi smentiva, e comunque lei mi stava ignorando le parole, e m’aveva contraddetto ancora prima che io parlassi. Ero superfluo con lei, ogni mia espressione spariva quando le ero accanto, perché la gravità dei testicoli, il loro pendere, non è più legge al cospetto dei buchi neri… e Sara mi annulla portandomi in lei, in posti le cui meccaniche ignoro, che forse non esistono neppure. Questo solo è certo: che ne ero inghiottito e lieto d’esserlo, come la realizzazione effettiva di un desiderio di ritorno imprecisato che avevo sempre percepito, fin da piccolo. Impreciso come il mio perdermi in lei.

Chiamavo e nessuno rispondeva oggi pomeriggio, e la casa giocava con le mie parole scoppiettandole fra le ante di credenze piene, fra una tazza e l’altra, e sotto i divani rallentandole con la polvere. Feci le scale che ancora echeggiavano i nomi di lei e di mio figlio. La porta della nostra camera era aperta e il letto sfatto, e Sara non c’era. La porta della stanza di Giulio era socchiusa, la testa staccata di un orsacchiotto in riso isterico, una ruota di una ferrari in bilico sul pavimento. Entrai.

I due di sotto, fra i mattoni e lo strapiombo a mare, li vedevo a scatti, se la ridacchiavano, però poi si facevano concentrati: anche lo spettatore ha delle inibizioni da bruciare via, perché il godimento di una scena lo si nota dall’espressione distaccata dal volto, come non gli appartenga già più: quindi niente ghigni se si partecipa. Sara era quasi all’orgasmo, quando fece come altre volte aveva fatto.
Sai che – tremandole la voce – quando ero al liceo… c’era questo ragazzo: mi passava le soluzioni d’algebra… per gentilezza, io, nell’intervallo… rimanevo in aula mentre lui faceva gli esercizi… e con la mano gli frugavo nei pantaloni… e lui continuava a scrivere, epperò gradiva… come te adesso… e un giorno entrò l’insegnante di Storia… : quello venne, così, sporcando tutto, pure i fogli… io andai dal professore… mostrandogli la mano chiesi di andare in bagno…
-Poi?
-Poi il giorno dopo il professore di Storia mi interrogò… di fianco alla cattedra fa più caldo, il sole ti batte la schiena… sudavo… asciugavo le gocce di sudore con la lingua, vicino al labbro… quello mi faceva domande che non capivo con quel caldo, e mi guardava come uno che dagli occhi neri capisce anche il silenzio per affinità… e teneva una sigaretta all’angolo della bocca, spostandola da sinistra a destra lentamente, con precisione, poi se la strusciava sui baffi duri… ed io non pensavo ad Annibale, ma alle Alpi… mi si fecero deboli le ginocchia… quattro mi mise, giusto in tempo: stavo per svenire…
-Allora, dai continua!
-Quando andai a posto pareva mi fossi immersa in una vasca di latte fresco… ero tornata nel mondo… quello mi guarda e mi fa “signorina, lei ha bisogno… ha bisogno di un certo… un certo numero di lezioni private”…
Sara toccò l’apice e subito crollò reggendosi al muretto della finestra, e già i due di sotto non c’erano più: anche lo spettatore, bruciata l’inibizione, ha una soglia oltre la quale non può reggere più sentendosi mistione di esterno e interno alla scena: deve scegliere. Io, per quanto mi riguardava, ero meno di uno sputo di polline, che sarà pur vero che feconda e crea, ma è il vento o l’ape a notificarne la forza, e a dirigerla.

Nella stanza di Giulio giocattoli sparsi quando ho aperto la porta, e un odore di partita di pallone interrotta, e un calore di persona presente. Giulio! chiamai, avvertendo d’improvviso il suono gracchio delle sue adenoidi. Lui si alzò da dietro al letto, lento come gli mancassero le gambe, appendendosi alle lenzuola che lo assecondavano e venivano giù e fuori dal materasso. Era goffo, e sulla faccia una tavolozza di colori. Solchi di lacrime asciutte, che si fanno vene d’argento e di sale, e lacrime fresche per aver visto il padre, più scuri i solchi, come fiumi, ma pure più impetuosi, che cancellavano tutto tranne il rosso di graffi a rastrello a cinque denti, da un lato, quattro, dall’altro, dove c’era un’unghia conficcata nello zigomo che sarebbe stata il quinto dente.
-Giulio! Che ti sei fatto?
-Quella donna è matta, rispose lui.

Infatti quando uscimmo dalla torre con ancora i liquidi nostri sui corpi, io me ne stavo zitto a fingere di saper tradurre gli strilli dei grilli. Un aereo è passato come un tuono nel sonno, che hai appena visto in faccia una strega che t’ha previsto una tragedia, ma quel tuono, che pure ti ha svegliato, ora t’impedisce di riconoscerne i presagi, di quella tragedia. Poi l’aereo era già sparito davanti alla lesione bianca, tutto blu, sopra gli strilli di quelle bestie che mi dicevano di concentrarmi, di osare una concentrazione di forze, e parlarle. Ma io non ero più depresso appena da un paio di mesi, ero uscito dalla nicchia, ma da poco, e le parole ancora mi mancavano dai polmoni. Fu lei allora, che dal modo in cui muovevo le mani mi leggeva sempre come uno spot pubblicitario, ad introdurre l’argomento.
-E’ il fatto che tutto ciò non ti sconvolga a sconvolgerti?
Sara non apriva la bocca per raffreddarsi l’animo. E, purtroppo, nemmeno io. Altrimenti lo avrei sicuramente fatto in quei momenti, come questo, in cui ciò che diceva, e suo il modo combusto di farlo, mi tagliavano in due da perderci le budella.
-Io sto con te, Sara, perché tu sai.
-Cosa so?
-Anche questo, ad esempio. Come sai che con ciò che mi hai appena chiesto ti sei messa troppo più in alto di me, e che qualunque risposta ti darò sarà comunque più limitata della tua vista, da lassù.
-So dell’altro.
-Cosa sai?
-Che c’è qualcosa che vuoi sapere, ma l’ignoranza la stai vivendo come una mancanza di mascolinità. Eppure sai che ti conviene questa, mancanza, a quella che temi ne venga dalla mia risposta.
-Risposta a cosa?
-Alla domanda che non mi farai.
Lei diceva questo mentre coglieva uno di quei fiori di spine, e lo annusava, e trovandolo neutro decideva di metterselo sulla spalla, premendolo, facendosi pungere. E questo rimaneva lì, nell’odore di frutta dei suoi capelli, e sulla sua pelle che incanta.
Stanza 22, questo numero che ancora non parla mi rapisce come la sua pelle.Ma Giulio oggi pomeriggio m’ha detto che è matta, e che non l’ha mai chiamata mamma. Che la sua mamma è solo quella morta, quella della foto nel salone, vicino al delfino d’argento della prima comunione, quando mamma era da poco morta. Che stanotte l’ha sognata.
-Io ero per strada, in bicicletta, apposta per stamattina doveva essere perché poi delle cose sono successe uguali, o quasi. Io ero in bicicletta, tornavo dalla scuola perché era mancata l’acqua e ci avevano mandati a casa. Stavo nella strada, quella che va di fianco alla villa comunale, e mi sono dovuto fermare perché avevano montato un passaggio a livelli, e le sbarre scendevano. Ma non capivo a che serviva quel passaggio a livelli, perché il treno non c’era, e non è passato. Però le sbarre restavano giù. Allora ho preso la bici in spalla e ci sono passato sotto. Solo che, appena che ero di là, s’è sentito il treno. Io mi sono girato ma non c’era niente, solo un tombino un po’ aperto. Mi avvicino. Faccio per aprirlo, ed esce una testa che vedevo solo i capelli e la punta del naso. Ma non avevo paura perché non era cattiva. Mi ha detto “sono la mamma, non mi vedi in faccia perché sei piccolo, e non puoi, però sono io, guarda l’anello”. Io ho preso la sua mano: aveva un dito tutto molle, come plastichina. “’E’ la malattia” m’ha detto. Ma l’anello non l’ho trovato, e ho deciso di correre a casa per cercarlo nella vecchia cassa.
-Giulio ma è un sogno, è normale che succedano delle cose che non hanno spiegazione.
-Papà, ti sbagli. Questo sogno le ha, ed è per questo che io ora sto così.
-E quale sarebbe la spiegazione?
-Che stamattina sono successe certe cose del sogno.