47) Al cominciare del freddo – era il 1° ottobre del ’43 – gli eserciti dell’Asse erano entrati con 2/3 delle loro forze in quella sciagurata città, pisciando sulla statua di Abraham Lincoln e defecando agli angoli della Casa Bianca. Erano comandati dal generale Clark, figlio del Reich e della vitamina “H”, guida del Corpo di fascistizzazione e, dopo essersi accampati, cominciarono subito a devastare la terra dei liberi e dei giusti. Sebbene fossero sbarcati solo da pochi giorni, quando il morbo cominciò a manifestarsi per la prima volta, e nonostante si dicesse che si fosse manifestato anche prima in molti altri luoghi, e poi in tutti gli Stati Uniti, non si ricordava ci fosse stata una pestilenza simile, né un tale scempio di uomini.
Nulla potevano i medici, per fronteggiare quel morbo ignoto, né era servita altra tecnica umana; per quanto si formulassero suppliche ai templi o si ricorresse all’oracolo I-Ching, tutto si rivelò inutile e alla fine rinunciarono, vinti dal morbo funesto.

48) Dapprima, a quanto si dice, la “peste” incominciò dalle parti di Trenton, New Jersey. Poi si espanse in Pennsylvania, North Carolina, fino a raggiungere lo Stato di Washington. Le forze dell’Asse avevano vinto la Seconda guerra mondiale e l’America era ora divisa in due parti – una asservita al Reich, l’altra ai giapponesi. Roosevelt, allora, era già stato assassinato.
L’atroce sospetto che lo spaventoso morbo fosse stato portato a Washington D. C. dagli stessi nazisti era certamente ingiusto: ma divenne certezza nell’animo del popolo americano quando si accorse, con dolorosa meraviglia e scientifico terrore, che i soldati tedeschi rimanevano immuni dal contagio. Alcuni dicevano che avevano avvelenato i pozzi, come avevano fatto in Africa precedentemente, ma io non gli credevo.
Volevo bene ai tedeschi, agli spagnoli, agli italiani, ai giapponesi, agli ucraini e ai rumeni, perché avevano un’anima più complessa, più rigorosa della nostra. Perché credevano di essere uomini veri, e che tutti i popoli d’America fossero, al contrario, degli imbecilli. Perché credevano che un popolo vittorioso nasce dal sangue, che un popolo vittorioso è un popolo di eroi, e che la gloria sia un fatto naturale, un atto di superiorità.
In poco tempo la “peste” giunse fino alla città alta. I cieli rosso porpora si mescolavano al giallo dello smog e la disperazione dilagava nelle strade. Dica dunque riguardo a questo, ciascuno a seconda delle sue conoscenze, sia medico o profano, da che cosa era probabile che essa fosse sorta, e quali cause di un simile capovolgimento ritenga siano capaci di avere una forza tale da provocare un cambiamento così repentino nella coscienza degli uomini.
Io invece dirò quale fu e in base a quali sintomi uno, dopo un’attenta osservazione, sarebbe massivamente in grado di riconoscerla, sapendone in precedenza qualcosa, se mai scoppiasse un’altra volta; mostrerò quei sintomi, perché io stesso ne fui affetto e li vidi negli altri malati.

49) Quell’anno, com’era riconosciuto da tutti, era stato, in misura eccezionale, immune da altre malattie: ma sebbene ne erano state contratte delle altre, confluivano in questa. Tutti gli altri invece, senza nessuna motivazione apparente, d’improvviso, mentre erano sani, venivano presi dalla rabbia più cieca, da onniscienza e da un’insana voglia di esprimere subito la loro opinione, ovunque si trovassero, a qualunque ora del giorno o della notte. Si nominavano, a loro dire, i “cittadini”, e tutto era in loro potere. Che fosse offendere o urlare, perfino uccidere se necessario: non si fermavano di fronte a nessuno, neppure il Papa in persona, e affermavano di essere gli unici vivi, mentre chi dissentiva era, di colpo, misteriosamente morto.

50) Era quella una peste profondamente diversa ma non meno orribile di quella che devastò Atene durante la guerra del Peloponneso o l’Europa durante il Medioevo. Lo straordinario carattere di questo nuovissimo morbo era questo: che non corrompeva il corpo, ma l’anima. Sia la faringe sia le parti interne rimanevano, infatti, integre, ma dentro l’involucro della carne sana l’anima mutava forma, si trasformava.

51) I primi a contrarla furono gli uomini: brandivano la bandiera americana, chiedevano lo scalpo dei politici e dei corrotti, sfogavano il proprio odio contro lo straniero.
«Non date retta a La cavalletta non si alzerà più, non date retta alle favole: noi siamo i vivi e voi siete i morti. Siete circondati» dicevano, «anche agli ateniesi toccò di portare la civiltà a Roma dopo essersi lasciati elegantemente invadere. Non opponete resistenza e non vi accadrà nulla.»
Poi fu il turno delle donne, che facevano a gara per stirare camicie e lasciavano dichiarazioni su quanto fosse necessario lasciare agli uomini il comando, e che fermare l’immigrazione era sacrosanto.

52) C’erano ancora dei sopravvissuti, che avevano maggiore compassione per chi stava morendo o era malato, poiché ne avevano fatto già esperienza ed erano più fiduciosi, ma diminuivano di anno in anno. E oltre al male già esistente, li opprimeva per di più l’afflusso di corpi giunti già morti dall’Atlantico.
Tutto ciò che gli ufficiali delle SS toccavano, tuttavia, si lucidava. Gli infelici abitanti dei paesi occupati, non appena stringevano la mano ai loro invasori, cominciavano a splendere, a odorare di buono. Bastava che un soldato tedesco si sporgesse dalla sua jeep per sorridere a una prostituta, per carezzarle fugacemente il viso, perché quella, serbatasi fino a quel momento impura e leziosa, diventasse all’istante una brava madre di famiglia. Bastava che un bambino mettesse in bocca uno dei cetriolini offertigli da un ufficiale, perché quello iniziasse a tendere il braccio, ubbidiente.

53) Gli stessi tedeschi erano atterriti e commossi da tanto consenso. Forse era scritto che la ricchezza dell’America dovesse nascere non dalla fine della guerra, ma dalla peste. Anche in altri campi la malattia segnò l’inizio, in città, di uno stato di maggiore illegalità. Nessun timore degli dei o legge degli uomini ci tratteneva, poiché giudicavamo che non vi fosse differenza alcuna tra onorarli o meno, e che fosse opportuno godere della vita.
Io volevo bene ai tedeschi, agli spagnoli, agli italiani, ai giapponesi, agli ucraini e ai rumeni, perché erano i soli a comprendere che questo paesaggio non era la faccia di Cristo, ma l’immagine di un mondo senza Dio, dove gli uomini sono lasciati soli a combattere gli uni con gli altri per la sopravvivenza.

53a) †Quella notte, io e il signor Tagomi ascoltavamo una voce, la voce che nasce da una zona misteriosa della natura dell’uomo, dove ha radice quel senso profondo che è la vita stessa.
L’aria era tersa e dolce alle labbra.
«Non c’è bontà» disse Tagomi, «non c’è pietà, in questa meravigliosa natura.»
«È gelosa delle sofferenze degli uomini» risposi.
«Io credo» disse Tagomi, «che la peste sia impenetrabile alla ragione. Ed io sono cartesiano.»
«Credi forse che la ragione cartesiana possa aiutarti a capire Hitler?»
«Perché proprio Hitler?»
Allora io gli narrai quel Witz di Heildeberg, che molti studenti delle università tedesche si tramandavano ridendo. In un congresso di scienziati, a Heildeberg, dopo lunga discussione tutti si trovarono d’accordo nell’affermare che si possa spiegare il mondo con il solo ausilio della ragione. Alla fine della discussione un vecchio professore, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, con un cilindro calcato sulla fronte, si levò e disse: «Voi che spiegate tutto, mi sapreste dire come mai stanotte mi è spuntata questa cosa in testa?». E togliendosi lentamente il cappello mostrò un sigaro, un vero sigaro Havana, che gli spuntava fuori dal cranio calvo.
«Ecco. Hitler è come quel sigaro.»
«Ha ha ha. Buona questa. ‘Hitler è un sigaro’. Ha ha ha.» †