l'occhio non perdona la vista

l’occhio non perdona la vista

 

 

 

Ecce homo, di F. Nietzsche: uno dei libri più pericolosi che l’Occidente conservi.

Perché è pericoloso? Semplice: è un gioco di specchi, di maschere. Qui ci si inventa illusionisti, ci si imbatte nell’inganno dell’Io (e la psicologia ringrazia o dovrebbe farlo, ‘sta stronza!). Qui l’uomo nasce di nuovo, diventa novecentesco (bisognerà attendere ancora qualche altro decennio dalla pubblicazione del libro, ma hic et nunc accade la fecondazione). Insomma, senza Ecce homo di che cosa si sarebbero fregiati gli intellettuali del Novecento? Questi falsi dispersi, che in virtù della consapevolezza della dispersione chiedevano: io chi sono?, ma volevano intendere: io sono un disperso e uno che disperde, chi mi segue è perso allo stesso modo, fin dall’inizio. Qui, ormai, non c’è scampo. E dunque: genealogie infinite per romanzi e poesie dai confini talvolta impronunciabili, talvolta così ripetitivi che stordiscono. E non è forse rintracciabile in queste genealogie una necessità di verità ad ogni costo (non di una, ma di mille e una verità) e non è tale l’eredità di questi dispersi, di coloro che volevano che noi ci smarrissimo per il loro buon esempio? – Sì, è così.

Questo libro che si presenta come una gioia, come un risanamento per il Baffo polacco, è nel suo stile un’arma nucleare, capace di annientare tutto quanto è esteriore e sta per sublimarsi nell’interiore, costringendo chi non ha orecchie all’assordamento – e di qui all’illusione che, in fondo, l’Io sia la sola via d’uscita. Ne siamo certi? Nietzsche non ripete continuamente, come il vero leitmotiv dell’opera, “sono stato compreso?”: un invito e insieme l’inganno per la festa di ciò che sta dentro (e detto en passant: la condanna del cristianesimo è condanna dell’interiorità!). E ora, dopo più di un secolo, si può dire che non è stata certo la festa dell’Io!

Ciò che quei baffi stavano dicendo, trasvalutando, riguardava l’Io, ma parlava della sua solitudine e distanza, dell’amore e del disprezzo per l’Io stesso, preannunciando la teatralizzazione di ogni arte, di ogni pensiero – e in nuce dell’umanità. Ancora un volta stava mettendo in guardia l’umanità, ma stavolta col sorriso dionisiaco, con l’ebbrezza di una pienezza di spirito (si legga per spirito: quella cosa lì) traboccante e di lì a poco traboccata, finita, distrutta. Ecco ancora una volta da che cosa metteva in guardia Nietzsche – e in Ecce homo egli stesso ne è l’esempio: dall’uomo Frederich, che altro non era che la maschera del filosofo dionisiaco e insieme di Zarathustra.

A volte, nell’opera, pare che la sua voce sia così limpida, ma che sotto di essa risuoni un più cupo sghignazzo misto di tristezza e dolore, ed è forse proprio il riso di quell’uomo seppellito che più non visse, soffocato dalla sua stessa maschera. Come? Il filosofo ingabbiato dal suo stesso pensiero? Si può domandare. Ma a me pare che sia così per ogni filosofo. E dunque, anche colui che voleva disingannare l’umanità è caduto nella rete dell’inganno ultimo , il più terribile? L’inganno dell’Io come maschera e non come soluzione ad essa, questo si dice, di questo si soffre – eppure così volle!