La scena in tre atti del romanzo Per me scomparso è il mondo Emiliano Ereddia appare semplice.

Sappiamo del protagonista che è un musicista, ha una figlia e l’attenzione dei media. È l’Italia ed è oggi.  Porta con sé piccoli segreti e tra questi uno più rilevante, uno di quelli in cui il sangue forma e si contiene in una pozza. Sappiamo che Boss è l’unico epiteto che il protagonista si è meritato, come portatore di metafore può benissimo non rivelare il suo nome.

Si sa ed è chiaro che il Boss si muove spesso in gruppo, quasi sempre è al centro delle azioni e considerazioni di molti. Uomini insignificanti, donne, giornalisti e musica ruotano intorno al Boss, ai suoi vizi e attendismi. Così non potrebbe non essere, il Boss è il leader di una band e qualcosa in Italia ancora vuol dire. Ha la sua crew di diavoli custodi: sanno che il Boss è nei guai, una rottura per tutti dato che di solito il boss e il suo gruppo sono i guai. C’è un video segreto che sta per venire fuori, un filmato solo all’apparenza scabroso che scatenerà un circo mediatico e che è solo il finto motore che porta il Boss, subito all’inizio del romanzo, a decidere la sua scomparsa dalla scena optando per l’epica minima del suicidio.

Il romanzo è una guerra narrativa in ogni capitolo. Questa brutta bestia rara di autore che è Emiliano Ereddia infatti non accetta compromessi: ha un arsenale tecnico da scrittore completo e lo usa tutto. Ogni capitolo mostra una tecnica differente pur rimanendo coerente con lo svolgimento della trama. Flusso e flussi di coscienza, dialoghi diretti e indiretti, uso spregiudicato della terza persona e perfetti passaggi dal discorso diretto a quello indiretto e indiretto libero, una congrua e corretta impersonalità narrativa fanno di questo romanzo dallo svolgimento semplice ed efficace una potente espressione dell’arte di scrivere. La guerra è prima nella forma che nelle azioni descritte, ma non si conclude lì.

“Io amo De Gregori. Noi a De Gregori dobbiamo l’evoluzione  della specie. Un po’ anche a Paolo Conte. Ma lui è un sistema chiuso come solo i piemontesi sanno essere [lerci, invidiosi, maledetti piemontesi puzzolenti]. A De Gregori noi invece dobbiamo di più. Lui ci ha insegnato l’amore. Ci ha insegnato la civiltà, l’impegno civile e le figure retoriche usate a cazzo di cane.

De Gregori poi è responsabile della morte di Mia Martini. E questo lo rende in un sol colpo migliore di tutti quelli che con una canzone volevano cambiare il mondo. Lui con una canzone ha ucciso una persona. De Gregori: sei il migliore.”

È un romanzo che fa i conti con l’immaginario culturale, sfasato, dell’Italia dei Sessanta e Settanta, e lo fa in maniera violenta, attingendo anche ad artifizi della letteratura ‘figa’ internazionale. C’è poi un assalto non generazionale a temi e valori degli anni Ottanta. A lettrici e lettori smaliziati e ingordi — una specie, si dice, in regressione statistica — non potranno non apparire chiari i modelli di Ereddia. Lo scrittore siciliano si appoggia poco o nulla al mainstream italico e molto conversa con mostri come DeLillo, il giovane vecchio Bret Easton Ellis e il fu molto affilato Irvine Welsh. C’è il grande Burroughs e il fantasma di una Beat Generation che qui non è mai stata.

“Eravamo delle grucce per abiti firmati, dei servi-muti per status symbol. Nani sulle passerelle dei concorsi di bellezza lungo la riviera e messaggi subliminali nei saggi di fine anno delle scuole di danza classica. Cani bavosi abbandonati al palo delle tv commerciali. Mostriciattoli con la testa di Craxi che mangiavano merda e cacavano soldi con tanto di garofano rosso all’occhiello.”

In questa personale guerra il Boss dà tutto se stesso pur avendo tutto — figa, soldi, fama — ma nella coscienza aumentata dal vivere, esposti, in questi tempi, il mondo non basta e le conseguenze sono chiare. Un romanzo che ha più a che fare con un canone sorrentiniano che con molta letteratura  — ho detto provinciale? — che tanto si fa finta che in Italia vada. Ereddia scrive un film, apprezzabile da molti e comprensibile da pochi. C’è un messaggio da cogliere oltre i festini e i dialoghi esasperati tra i personaggi.

La trama è semplice e per questo emerge più chiaramente il sottotesto critico. Una critica lancinante e spietata al lessico, alle scelte di repertorio della lingua, che Ereddia fa sulle canzoni dell’Italia ma che è metafora di una povertà del senso che è generale e sotto gli occhi dei molti, aperti o insensibili che siano. Il cammino della parola che il Boss ci propone è infatti sempre sulla grande musica anglofona, per un Great Jones Street senza possibile frontiera, un ultimo appiglio per il senso poetico dei tempi.

Non c’è spazio per compiacimenti fini a se stessi o a una facile scrittura pop da ‘maestrini’ della narrativa nostrana. C’è un tentativo, riuscito, di adeguare e attualizzare temi migliori fino alle estreme conseguenze. Il protagonista, in un nichilismo attivo compiuto, si nega allo stare nel mondo e, così, scompare.

 

Edito da Corrimano Edizioni