Era sotto una soffice coperta blu. Nel sogno qualcuno gli strofinava un mandarino sotto il naso. La faccia, prima indistinta, diventava quella di Norina che gli dava dell’ubriacone e lo rimproverava dei tradimenti. Poi i mandarini si materializzavano ovunque: tra le lenzuola, sul tappetino vicino al letto, spiaccicati al muro, a terra in corridoio, con le bucce schiacciate e il succo arancione che si spargeva a macchia d’olio.

Ettore Lupo si svegliò con la nausea. Gli facevano male i muscoli, andò in bagno a sciacquarsi la faccia, gli sembrava di avere la pelle di carta vetrata e la barba a scaglie. Lavò anche i denti. Sentiva ancora la puzza dei mandarini sotto il naso. Gli venne un conato e andò al balcone a prendere un po’ di aria fresca. Nel cielo si addensavano nuvole temporalesche. Si sentiva rodere dall’ansia. Voltò come sempre lo sguardo alla casa dei Lopez, una casa che sembrava sempre più deteriorata, come rosicchiata da topi. Sperava un giorno di non vederli più, i Lopez. Ma dove potevano andare? Sarebbero rimasti lì per sempre a rompergli i coglioni.
Era presto e tornò a letto a rifugiarsi sotto la coperta blu: voleva concentrarsi su belle immagini, ma non appena chiuse gli occhi gli apparve la faccia incazzata di Norina e sentì di nuovo la puzza dei mandarini. Quegli incubi dovevano essere il prezzo da pagare per non riuscire a mantenere una relazione idilliaca oltre qualche mese. Ettore era un buono che faceva cose buone, ma il suo cazzo lo cacciava nei pasticci ed era bravo a fare cose cattive.
Si rigirò due o tre volte dentro al letto. Prenditela con te stesso, si disse. Si arrese, preparò la colazione e andò al lavoro.
Nel tardo pomeriggio, Ettore tornò a casa con la pioggia.
Cazzo. Alfio sotto l’ombrello lo aspettava davanti al cancello di casa.

«Devo dirti una cosa.»
«Non sei obbligato a farlo.»
«Te la devo dire: nelle scale di casa nostra c’è un fantasma, ci chiama, ci spaventa, lo abbiamo sentito tutti. Ci devi aiutare.»
«Oh cazzo. Quindi c’è una entità invisibile che si aggira per le scale di casa vostra e vi parla? Oggi non ho né la voglia né il tempo di perdermi dietro alle vostre assurde stronzate.»

Dal nulla spuntarono fuori i tre meticci che da qualche settimana i Lopez avevano portato a casa per farne cani da guardia. Eccitati dalla pioggia uggiolavano e correvano su è giù per il marciapiede. Il più piccolo gli annusò la gamba. Ettore lo osservò con attenzione e non sapeva se esistessero cani ritardati, ma quel bastardino ne aveva tutta l’aria. Era tutt’ossa. Gli altri due lo fissavano con la lingua di fuori.

«Saranno i cani. Di notte sentite i guaiti e li scambiate per le voci dei fantasmi. Andranno avanti e indietro per le scale. Alfio i vostri cani sono magrissimi, cazzo ma gli date da mangiare? Il mistero è risolto. Date i croccantini ai cani.»
«Devi parlare con Gaetano, se non credi a me.»

Ettore era troppo stanco. Gaetano era come Alfio, erano fatti con lo stesso stampo, il vecchio Lopez li aveva marchiati tutti allo stesso modo, con loro era come parlare ai sordi. Sottovoce calmò Alfio: va bene, più tardi sarebbe andato a controllare i fantasmi che scalpitavano per le scale, sapeva che non lo avrebbero mollato.

«Ti chiamo io o vieni tu dopo cena?»
«Uguale.»

Rientrò a casa e avvilito si preparò un caffè.
Accese una sigaretta e controllò la mail.
Tutta la sua vita alla fine convergeva verso la casa dei Lopez, che trovava orripilante ma che era sempre lì, a fargli ombra funesta e inesorabile.
Si erano fatte quasi le nove, Ettore era disteso sul divano in uno stato di apatia. La sua pancia lottava con il gas delle birre che aveva bevuto per accompagnare gli hamburger. Tra gli incubi, l’impotenza e l’affaticamento per non riuscire mai a dire un no, decise che era ora di andare.
Sulle scale dei Lopez gli ritornò la nausea, c’era puzza di capre e di metallo. Con la faccia inebetita lo stavano aspettando in silenzio e quasi al buio. Ettore in silenzio e nella semioscurità decise di combattere i fantasmi. Prima di chiamare gli spiriti a uno a uno, invocò il cielo, gli occhi, gli uccelli, la morte, le lacrime, per dare un senso all’angoscia e alle insicurezze della famiglia Lopez. D’altra parte nessuno di loro dubitava delle sue doti intellettuali e delle sue tecniche sciamaniche.
Più tradì si trovò come al solito in mutande e con un gin tonic in mano. Perplesso e soddisfatto cercò sul web la parola «relativismo».

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In copertina: David Hockney, Bigger Trees Near Warter or ou Peinture en Plein Air pour l’age Post-Photographique, 2007, oil, canvas, 457 cm x 1219 cm.