[Merano, 21 giugno 1920]
Lunedì

Tu hai ragione[1]: quando adesso – purtroppo ho ricevuto le lettere di sera tardi e domattina voglio fare una piccola gita a Bolzano con l’ingegnere – ho letto il rimprovero per quel “bimbetta”, mi sono detto per davvero: basta così, queste lettere puoi anche non leggerle oggi, devi pur dormire un po’ se domattina vuoi fare la gita. E ci è voluto un po’ prima che ricominciassi a leggere e a capire e la tensione si sciogliesse e, se tu fossi stata qui (non intendo solo una vicinanza corporale) avrei potuto poggiare la testa nel tuo grembo, sospirando. Significa che sono malato, no? Io sì che ti conosco, e so anche che “bimbetta” non è un appellativo così spaventoso. Anche io sto allo scherzo, ma per me tutto può diventare una minaccia. Se mi scriverai: «Ieri ho contato le “e”[2] nella tua lettera, erano tante e tot; come ti permetti di scrivermi “e” ed esattamente in tal numero?», allora io, se tu rimani seria, forse mi convincerò di averti offesa e sarò abbastanza triste. In fondo, potrebbe anche essere una malattia, è difficile da dimostrare.
Inoltre non devi dimenticare che, sì, scherzo e serietà in sé e per sé si differenziano facilmente, ma con persone così importanti che la propria vita dipende da loro, non è poi così facile, il rischio è così grande che uno si fa gli occhi come un microscopio e anche quando ci riesce, poi non ci si capisce più niente. A tal proposito, non ero forte neanche nel mio periodo forte. Per esempio al primo anno della Volksschule[3]. La nostra cuoca – piccola, asciutta, magra, col naso a punta e le guance cave, giallognola ma soda, energica e superiore – mi portava ogni mattina a scuola. Abitavamo nella casa che separa il Ring piccolo da quello grande. Da lì si andava innanzitutto oltre il Ring, poi in Teingasse e poi, con una specie di arcata, nel vicolo del mercato della carne e giù per il mercato della carne. E per un anno si ripeté la stessa storia ogni giorno. Mentre uscivamo di casa la cuoca diceva che avrebbe detto al maestro com’ero stato maleducato a casa. Ora, probabilmente non ero certo così indisciplinato, ma ero caparbio, inetto, triste, cattivo e da questo si sarebbe sempre potuto tirar fuori qualcosa di carino per il maestro. Io lo sapevo e pertanto non prendevo alla leggera la minaccia della cuoca. Subito dopo, io credevo che la strada per la scuola fosse mostruosamente lunga, che nel frattempo potessero accadere un sacco di cose (da quest’apparente leggerezza infantile si sviluppano, gradualmente, dato che le strade non sono mostruosamente lunghe, quella paura e quella serietà da occhi morti), e perlomeno finché non giungevo all’Altstädter Ring dubitavo che la cuoca, che era una persona rispettabile ma pur sempre una domestica, potesse avere l’ardire di parlare con il maestro, persona di rispetto cosmico assoluto. Magari anch’io dicevo qualcosa del genere, poi la cuoca rispondeva, come al solito in breve, con le sue labbra sottili e spietate, che non era necessario che io ci credessi: lei glielo avrebbe detto. Più o meno all’entrata del vicolo del mercato della carne – questo posto per me ha ancora un piccolo significato storico (dove hai vissuto tu da bambina?) – la paura della minaccia aveva il sopravvento. Già la scuola in sé e per sé era un terrore, ma la cuoca adesso voleva peggiorarmela. Cominciavo a pregarla, lei scuoteva la testa, quanto più supplicavo, tanto più prezioso mi sembrava quel che chiedevo e tanto più grande il pericolo, mi fermavo e imploravo perdono, mi strattonava, la minacciavo dicendole che i miei genitori mi avrebbero vendicato, lei rideva, allora era onnipotente, io mi tenevo alle porte dei negozi, alle pietre angolari, non volevo andare avanti, non prima che lei mi avesse perdonato, la tiravo per la gonna (non era facile neanche per lei) ma mi trascinava in avanti assicurandomi che avrebbe raccontato anche questo al maestro, si faceva tardi, la chiesa di San Giacomo suonava le otto, si sentiva la campana della scuola, gli altri bambini cominciavano a correre, io avevo sempre una paura enorme di arrivare tardi e adesso dovevamo correre pure noi e io sempre col pensiero: glielo dirà, non glielo dirà. Non glielo diceva, mai, ma ne aveva sempre la possibilità e di fatto una possibilità sempre crescente (ieri non gliel’ho detto, ma oggi glielo dirò di certo) e non la lasciava mai. E alle volte – pensa un po’, Milena – nel vicolo batteva i piedi dalla rabbia nei miei confronti e c’era una mercante di carbone che guardava da qualche parte. Che sciocchezze, Milena, e come ti appartengo io con tutte le cuoche e le minacce e tutta questa polvere enorme che si è sollevata in vortice per trentotto anni e si è posata nei miei polmoni.
Ma non volevo dire tutto questo o perlomeno in modo diverso, è tardi, devo smettere per andare a dormire e non riuscirò a dormire perché ho smesso di scriverti. Se vuoi sapere come stavo prima, ti spedisco da Praga la lettera chilometrica che circa mezzo anno fa ho scritto a mio padre e che non gli ho ancora dato.
Alla tua lettera rispondo domani o dopodomani, se domani sera si fa troppo tardi. Rimango due giorni in più perché ho rinunciato a far visita ai miei genitori a Franzensbad, ma non si può davvero dire «rinunciato» per un semplice restare sul balcone.

F

E ancora grazie per la tua lettera.

 


[1] Tradotto da F. Kafka, Briefe an Milena, erweiterte und neu geordnete Ausgabe, herausgegeben von Jürgen Born und Michael Müller, Frankfurt am Main: Fischer Taschenbuch Verlag, 2015¹⁵.

[2]Kafka intende le congiunzioni (ted. und). [NdT]

[3]Letteralmente «scuola popolare», equivale alla scuola elementare. [NdT]