[Praga, 18 settembre 1920]

Milena[1], tu non puoi capire con precisione di cosa si tratti o di cosa si sia in parte trattato, io stesso non lo capisco, tremo per l’impeto, mi torturo fino alla follia, ma cosa sia e cosa voglia sulla distanza non lo so. Soltanto cosa voglia da vicino: silenzio, buio, il rintanarsi, questo so e questo devo perseguire, non posso fare diversamente.
È una sfuriata e passerà, in parte è già passata, ma le forze che l’hanno provocata continuano a vibrare in me, prima e dopo, anzi la mia vita, la mia esistenza, si compone di questa minaccia sotterranea, se essa cessa, cesso anch’io, è il mio modo di partecipare alla vita, se finisce rinuncio alla vita, semplice e ovvio come chiudere gli occhi. Non è sempre stata lì, da quando ci siamo conosciuti, e mi avresti guardato anche solo di sfuggita se non ci fosse stata?
Ovviamente non la si può porre in questo modo e dire: ora è passata e, nella mia nuova condizione, non sono che calmo, felice e grato. Non posso dirlo sebbene sia quasi vero (del tutto vera la gratitudine […][2] solo in un certo senso la felicità e mai la vera calma) perché farò sempre paura, soprattutto a me stesso.
Tu menzioni i fidanzamenti e cose simili, certo è stato molto semplice, il dolore non è stato semplice ma il suo effetto sì. È stato come se avessi vissuto la vita in modo dissoluto e all’improvviso fossi stato catturato e punito per tutta la dissolutezza e adesso venissi con la testa in una morsa, una vite alla tempia destra e una alla sinistra, e, mentre le viti si stringono lentamente, dovessi dichiarare: «Sì, rimango alla mia vita dissoluta» o «No, la lascio». Ovviamente ho urlato «no» fino a farmi saltare i polmoni.
Hai ragione quando poni ciò che ho fatto adesso in correlazione con le vecchie cose, io posso essere sempre e solo lo stesso e vivere ciò che ho già vissuto. Diverso è solo il fatto che ho esperienza, che per gridare non aspetto che mi si mettano le viti che servono a estorcere la confessione, ma comincio a gridare già quando le portano, grido già se qualcosa si muove in lontananza, così vigile è diventata la mia coscienza – no, non vigile, neppure sveglia a sufficienza. Ma anche un’altra cosa è cambiata: posso dirti la verità, per amor proprio e tuo, come a nessun altro, posso venire a sapere la mia verità direttamente da te.
Ma quando tu, Milena, parli con amarezza di come io ti abbia pregata di non lasciarmi, mi fai un torto. In questo allora non ero diverso da oggi. Vivevo del tuo sguardo (e non è una speciale divinizzazione della tua persona, in un simile sguardo chiunque può essere divino), non avevo un vero e proprio suolo sotto di me; mi spaventava così tanto, senza conoscerlo con precisione, che non sapevo affatto a che altezza fossi sospeso sulla mia terra. E ciò non era un bene, né per me né per te. È bastata una parola di verità, una parola di inevitabile verità e già mi ha buttato giù per un pezzo, e un’altra parola e un altro pezzo, e infine non c’è più alcun appiglio e cado giù e la sensazione è che sia ancora troppo lento. Volontariamente non faccio esempi di queste “parole di verità”, serve solo a confondere e non è mai la cosa giusta.

Per favore, Milena, inventati un altro modo perché possa scriverti. Spedire cartoline bugiarde è troppo stupido; e non so sempre neanche quali libri mandare; infine, il pensiero che tu possa andare alla posta inutilmente è insopportabile, inventa per favore un’altra possibilità.

 

 


[1] Tradotto da F. Kafka, Briefe an Milena, erweiterte und neu geordnete Ausgabe, herausgegeben von Jürgen Born und Michael Müller, Frankfurt am Main: Fischer Taschenbuch Verlag, 2015¹⁵.

[2]11 parole sono state rese illeggibili.