Di seguito, la traduzione di un passo dal capitolo LXXIV del Don Chisciotte di Cervantes.

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E rivolgendosi a Sancho disse:
«Perdonami amico mio per averti trascinato alla pazzia con me, inducendoti erroneamente a credere ciò che anche io ingenuamente ho creduto, e cioè che esistano e siano mai esistiti i cavalieri erranti».
«No!». rispose Sancho piangendo.
«Non morite, Vostra Grazia, non morite Signore mio! Ascoltate il mio consiglio e vivete ancora molti anni, perché la più grande pazzia che un uomo possa fare in questa vita è lasciarsi morire senza far nulla, senza che a porre fine alla sua vita non ci siano altre mani se non quelle della melancolia. Forza non siate pigro! Alzatevi da questo letto e andiamo al campo vestiti da pastori così come avevamo programmato; e, chissà, che dietro qualche siepe non troviamo la Signora Dulcinea guarita dalla maledizione, sarebbe una visione che farebbe scomparire tutto il resto! Se invece vi lasciate morire perché vi date per vinto, date a me la colpa e ammettete che è a causa mia e per aver fissato male le cinghie della sella a Rocinante, che siete stato disarcionato: voi sapete bene per i vostri libri di cavalleria che è cosa ordinaria scavalcarsi tra cavalieri: colui che oggi è vinto, domani sarà vincitore».
«Giustissimo», disse Sansone, «il nostro buon Sancho Panza è nel giusto, quello che afferma riguardo a questo tipo di accadimenti è del tutto vero».
«Signori», disse Don Chisciotte, «andiamo piano, il tempo cambia tutto e quello che fu in passato, ora è svanito: io fui pazzo e ora rinsavisco; fui Don Chisciotte della Mancia e ora sono come ho già detto Alonso Quijano il Buono. Possa il mio pentimento e la mia ammissione di colpa ridare il rispetto che di me si ebbe un tempo presso le vostre grazie; prosegua ora il signor notaro. Lascio tutta la mia proprietà recintata e chiusa dal cancello a mia nipote qui presente, Antonia Quijana, togliendo ciò che sarà necessario per compiere questi miei ultimi ordini: la prima cosa che voglio è che venga pagato il salario che spetta alla mia governante per tutto il tempo che ella fu a mio servizio, con in aggiunta venti ducati per una nuova veste. Designo come miei testamentari il signor prete e il signor baccelliere, Sanson Carrasco, anch’essi qui presenti. Inoltre è mia volontà che, nel caso Antonia Quijana mia nipote volesse maritarsi, lo faccia solo con un uomo che non sappia nemmeno cosa siano i libri di cavalleria, e questo dovrà essere accertato da subito, e se si venisse a sapere che invece costui ne dovesse avere qualche dimestichezza e ciononostante mia nipote lo volesse maritare, ella perda tutto ciò che io le ho lasciato. Solo in quel caso i miei testamentari potranno distribuire, secondo i loro voleri, il mio lascito alle opere pie. Supplico i suddetti signori, esecutori delle mie ultime volontà, che semmai il fato dovesse portarli a conoscere l’autore, che, dicono, ebbe a comporre una storia dal titolo Seconda parte delle gesta di Don Chisciotte della Mancia, gli porgano con tutta l’insistenza possibile le mie scuse per l’occasione che gli ho fornito, senza volerlo, di scrivere così tanto e così tante corbellerie come quelle che in essa appaiono, perché mi congedo da questa vita portando con me il cruccio che io stesso  gliene diedi motivo».
Con quest’ultima frase terminò il testamento e si distese lungo nel letto. Ci fu una gran confusione e tutti accorsero attorno al suo capezzale e nei tre giorni che egli visse, successivi al testamento, svenne di continuo.
Nella casa regnava un grande scompiglio; però, comunque e nonostante l’imminente morte, la nipote mangiava, la governante brindava e Sancho Panza in cuor suo gioiva. L’eredità ha il potere di far dimenticare o attenuare in colui che eredita, la memoria della pena che lascia il morente dietro di sé. Dopo aver ricevuto tutti i sacramenti e dopo aver maledetto con molte ragioni i libri di cavalleria, arrivò l’ultimo giorno per Don Chisciotte. Il notaro era presente e disse che in nessun libro cavalleresco aveva mai letto di un cavaliere che fosse morto nel proprio letto, così pacificamente e cristianamente come Don Chisciotte che, tra le lacrime e la compassione di coloro che ivi si trovavano, cedette il suo spirito e morì.

E il savio Cide Hamete disse rivolgendosi alla propria penna:
«Rimarrai qui, appesa con un filo di ferro a questa mestoliera, nemmanco voglio sapere se bene o se male appuntita, mia cara piuma; rimarrai qui, dove, se non sarai tirata giù e oltraggiata da storiografici presuntuosi e imbroglioni, vivrai per lunghi secoli. Prima che però arrivino a te, puoi avvertirli e dire loro senza reticenza alcuna:

Attenzione, attenzione,
vanagloriosi che non siete altro!
Che nessuno mi tocchi;
perché questa impresa, o mio buon Re
solo a me era serbata.

Per me sola nacque Don Chisciotte e io per lui; egli seppe agire e io seppi scrivere; ci apparteniamo l’un l’altro a dispetto e malgrado il tordesigliesco scrittore dal falso nome che osò o oserà scrivere, con una indegna e malamente appuntita piuma di struzzo, le avventure del mio valoroso cavaliere; le sue spalle non potrebbero sopportarne la levatura, così come non potrebbe esserne all’altezza il suo arido ingegno. Tu lo ammonirai, semmai riuscirai a conoscerlo, di lasciare riposare in pace le stanche e oramai putrefatte ossa di Don Chisciotte, che non lo voglia trascinare, sfidando tutte le leggi della morte, nella Vecchia Castiglia, facendogli abbandonare la fossa dove finalmente giace completamente disteso e da dove non può uscire per condurre un’altra spedizione cavalleresca; giacché per farsi burla delle tante imprese condotte dagli erranti cavalieri bastano quelle due che egli condusse e per le quali ricevette dalle genti che seppero delle sue gesta, tutta l’approvazione sia nei nostri regni che al di fuori di essi.
E così facendo compirai con la tua cristiana missione, consigliando bene a chi ti vuole male e io resterò soddisfatto e orgoglioso di essere stato il primo, come del resto ho sempre voluto, a godere del frutto dei tuoi scritti, dacché non ho mai avuto nessun altro desiderio se non quello di porre in guardia gli uomini dalle false e assurde storie dei libri cavallereschi che di fronte alle vere peripezie vissute da Don Chisciotte cominciano a incespicare e dovranno presto cadere del tutto, senza alcun dubbio».

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 La traduzione è apparsa per la prima volta nel terzo numero di Ô Metis, Raggiro/Ritorno.