Anna Maria Ortese nasce a Roma nel 1914. Tuttavia, se la patria è quel luogo che adempie al compito di «trattenere il proprio figlio o figlia presso di sé,  di minacciarlo/a  altrimenti di nostalgia o altre torture e, nel caso si allontani, di spezzargli il cuore e di continuare ad attrarlo nuovamente a sé»,[1] allora, senza alcuna ombra di dubbio, la patria di Anna Maria Ortese è Napoli.
Napoli è scenario delle sue più celebri opere: Il mare non bagna Napoli, Il cardillo addolorato, Il porto di Toledo. La città vi appare ora reale e dolorosa, ora trasfigurata e fantasmagorica, «ridente e terribile».[2]
Il mare non bagna Napoli (prima edizione: Einaudi 1953) è un raccolta di testi sulla Napoli del secondo dopoguerra, in cui la linea che separa narrazione visionaria e resoconto giornalistico è labile, in cui i personaggi e gli eventi sono visti attraverso quella lente scura della Ortese che tutto deforma e, al tempo stesso, esalta con una cupa e disperata luce.
Il libro nasce da una collaborazione della Ortese reporter con la rivista «Il Mondo» sulla quale era già uscito un suo pezzo dedicato ai Granili. Elio Vittorini a quel punto le propone di scrivere un libro su Napoli da pubblicare presso la collana ‘I gettoni’ di Einaudi: «Sarebbe splendida una Cronaca di Napoli fitta di visioni, come quelle di Forcella e quella dei Granili, che toccassero tutti gli altri segreti della città […]. E sono sicuro che sarebbe un libro di grande successo. Ci pensi, e non si lasci sollevare per aria dalla fretta».[3]
La Ortese scrive e il libro ha effettivamente successo, anche se dal retrogusto amaro poiché esso le costa – causa polemiche di natura politica e privata, in riferimento ai rapporti che aveva intessuto con i redattori della rivista “Sud” – l’esilio da Napoli. Sulla questione polemica, torneremo in seguito.
Ciò che ci preme ora, è comprendere quale fosse la condizione e la dolorosa immagine di Napoli sotto gli occhi della Ortese e degli altri intellettuali nel secondo dopoguerra attraverso una serie di testimonianze.
Dopo anni di guerra, di oppressione da parte del regime, di paura, fame e isolamento culturale, sbarcano a Napoli gli americani. L’occupazione alleata della città dura dall’ottobre1943 al dicembre 1944 e si rivela un enorme disastro. Così ne parla lo storico inglese Paul Ginsborg:

«Violenti bombardamenti dell’area vicino al porto avevano creato circa 200 mila senza tetto, e nell’autunno del 1943 il collasso della rete idrica e fognaria lasciò la città quasi del tutto senza acqua. Circa il 60 per cento delle merci scaricate nel porto furono dirottate sul mercato nero con la connivenza a più livelli del comando militare. Nel luglio 1944 solo il 3,4 per cento delle derrate esistenti a Napoli era disponibile per la popolazione sotto forma di razioni. La città acquistò un aspetto di degradazione e malessere quale non si conosceva dai tempi delle epidemie del XVII secolo. La maggior parte delle donne più povere fu costretta alla prostituzione, mentre gravi epidemie di tifo e di malattie veneree si propagavano tanto fra i civili quanto fra i soldati».[4]

Con gli ultimi esiti della guerra e l’arrivo degli americani, avviene un rovesciamento di tutte le leggi e dei codici normativi che tengono insieme una società civile. Tutto è caos, lacerazione e disperazione. Il corpo con tutti i suoi bisogni e appetiti prevale sull’anima: è il ritorno della peste a Napoli. Con la sola differenza che questa volta, «il morbo non corrompeva il corpo ma l’anima»[5] come scrive Curzio Malaparte nel romanzo La pelle (1949).
Una peste di ordine morale dunque, con la proprietà di «trasformare la coscienza umana in un orrido e fetido bubbone».[6]
La peste infesta Napoli il 1° ottobre del 1943, il giorno stesso in cui gli eserciti entrano in città. Il che fa sorgere l’atroce sospetto – è ancora Malaparte a scriverlo – «che lo spaventoso morbo fosse portato a Napoli dagli stessi liberatori. Sospetto che divenne certezza quando ci si accorse che i soldati alleati rimanevano immuni dal contagio. Lo schifoso morbo, infatti, mieteva vittime unicamente tra la popolazione civile, di mano in mano che gli eserciti alleati andavano faticosamente ricacciando i tedeschi verso nord».[7]

Un’altra impietosa testimonianza ci è data da Norman Lewis che si trovava sul luogo durante l’occupazione alleata:

«Napoli era come una puttana malmenata da un bruto: denti spezzati, occhi neri, naso rotto, puzza di sporcizia e di vomito. […] I bambini offrivano sorelle e madri in vendita. Di notte, durante l’oscuramento, dalle case sbucavano a frotte i topi e se ne stavano semplicemente lì, a guardarli con occhi rossi, senza muoversi. Si camminava evitandoli. Gli uomini e le donne di Napoli erano un popolo diseredato, affamato, disperato, disposto a fare assolutamente tutto per sopravvivere. L’anima della gente era stata stuprata. Era veramente un città senza dio».[8]

Questa è la Napoli del Mare, questa è la Napoli della Ortese che torna in città nel ‘45 e esprime tutta la sua indignazione e il suo dolore iscrivendosi per un beve lasso di tempo al PCI; come lei, così fanno alcuni intellettuali della rivista «Sud» cui la scrittrice ha collaborato attivamente.
Pasquale Prunas, nato a Cagliari nel 1924 è il fondatore della rivista, edita a Napoli dal 1945 al 1947. La redazione annovera scrittori e giornalisti quali Luigi Compagnone, Samy Fayad, Giuseppe Patroni Griffi, Raffaele La Capria, Ennio Mastrostefano, Vasco Pratolini, Francesco Rosi, Rocco Scotellaro, Domenico Rea e altri.
Sud è una “confraternita laica” formata da giovani poco più che ventenni che vivono in maniera precaria, è una testata all’avanguardia, ricca di notevoli contributi: si scrive di politica, letteratura, cinema, si traducono i poeti inglesi e gli esistenzialisti francesi. Difficile stabilire il loro orientamento politico, il dato certo è rappresentato dal fatto che a tutti stanno a cuore le sorti di Napoli, la sua rinascita culturale e politica.

Una questione napoletana photo

Parla Anna Maria Ortese:

«Si era formato un gruppo di nuova cultura, in quel tempo, a Napoli. Promotore, voglio dire, di nuova cultura, contro la vecchia, immensa – e anche la tenera – che aveva vegliato per secoli il sonno di Napoli […].»[9]

Per la prima volta questi intellettuali guardano Napoli nelle sue crepe, sotto un lume nuovo, estirpandone stereotipi e sentimentalismi; criticandone inoltre il linguaggio con il quale veniva celebrata. I redattori della rivista «Sud», a proprie spese e senza alcun appoggio politico, hanno l’ambizione di strappare Napoli all’isolamento culturale riconnettendola alla cultura italiana e europea. Sono persuasi del fatto che fare letteratura significhi assolvere ad un dovere sociale, svolgere un’azione educatrice; ribaltare quella divisione crociana tra etica ed estetica in nome di una letteratura che è anche azione morale, manifestazione di un engagement politico. L’impegno ideologico tuttavia, non si trasmuta mai in settarismo politico o difesa di un partito: la rivista diviene infatti scomoda sia per la cultura ufficiale di stampo reazionario che per il PCI. Quest’ultimo, infatti, seguiva una linea essenzialmente storicistica e non vedeva di buon occhio l’apertura alle avanguardie europee e americane della rivista. «Sud» ha vita breve: vengono pubblicati solo dieci numeri.
Intrinsecamente legate alla rivista “Sud”, dicevo, sono la genesi e la polemica de Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese.
La scrittrice dipinge un mostruoso affresco della città, ne restituisce un’immagine disincantata, lacerata e allucinata, in linea con quelle che erano le intenzioni degli scrittori di «Sud»: ovvero di dissolvere quell’aura fiabesca e folkloristica che aleggiava sulla loro terra. Sì, proprio le intenzioni di coloro che hanno poi condannato la Ortese considerando Il Mare un libro contro Napoli. Le contraddizioni intorno alla questione sono molte. Gli intellettuali partenopei “umiliati e offesi”  vengono descritti nel racconto Il silenzio della ragione, nel quale viene dipinta la crisi e l’affievolirsi dei loro entusiasmi politici e culturali.
Da un lato la Sinistra critica il Mare ritenendolo un libro privo di sensibilità morale, dall’altro, il versante conservatore tende a difendere l’immagine “idilliaca” della città; mentre l’attacco più duro proviene dall’ambiente dei comunisti napoletani. In sostanza, la scrittrice viene stroncata perché rea di aver rifiutato le “sorti progressive” che il partito vedeva realizzarsi nella capitale del mezzogiorno.

A mio avviso, la verità sul libro può essere rintracciata solo nelle parole della scrittrice e più specificatamente, nella prefazione della seconda edizione, quella del ‘94:

 «Aggiungo che l’esperienza personale della guerra (terrore dovunque e fuga per quattro anni) aveva portato al colmo la mia irritazione contro il reale; e lo spaesamento di cui soffrivo era ormai così vero, e anche poco dicibile – perché senza riscontro nella esperienza comune – da aver bisogno di una straordinaria occasione per manifestarsi. Questa occasione fu il mio incontro con la Napoli uscita dalla guerra. […] Qualcuno aveva scritto che questa Napoli rifletteva una lacera condizione universale […] E se all’origine di tale lacera condizione, vi era appunto l’infinita cecità del vivere, ebbene, era questo vivere e la sua oscura sostanza, che io chiamavo in causa. […] Il Mare era solo uno schermo, non proprio inventato, su cui si proiettava il doloroso spaesamento, il male oscuro di vivere, come poi venne chiamato, dalla persona che aveva scritto il libro».

Il male di Napoli è quello della Ortese, Ortese è Napoli, Ortese è specchio infranto del lutto della patria napoletana.
All’origine del libro vi è dunque l’esperienza di un male profondo che dalla coscienza dell’autrice si espande a macchia d’olio sulla città, sulle sue vie, sulla sua gente. L’origine di questo male ha un solo nome: metafisica; ovvero, nel lessico della Ortese, il rifiuto del reale come fondamento della realtà e, forse, l’utopia di un mondo in cui regnino giustizia, abbondanza e amore per l’intero universo.

«Perché questo e non altro, con tutto il mio cuore desideravo. Che i Borboni, la loro ombra, la “morale” che di essi restava, il loro Editto silenzioso: “ Tu non crescerai! Tu non muterai! Tu non sarai mai persona, ma cieco e sordo e doloroso istinto, tu, Popolo! – in quanto a te, Scrittore – tu non lo dirai, – questo Editto fosse rovesciato, e la dignità umana – che è sola libertà, ma libertà di divenire, – rifluisse, come un fiume, anche in questa terra desolata.
Non avevo voluto che questo. Ma seppi, bruscamente, che non era possibile, la voce si strozzò anche a me, non parlai più. E me andai, e non rividi più Napoli».[10]


[1]Monica Farnetti, Tutte Signore di mio gusto, Milano, 2008, p. 159.

[2]Anna Maria Ortese, Il Mare non bagna Napoli, Milano, 1994, p. 100.

[3]Lettera di Elio Vittorini a Anna Maria Ortese, 2 gennaio 1952.

[4]Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, traduzione di Marcello Flores e Sandro Perini, Torino, 1989, pp. 45, 46.

[5]Curzio Malaparte, La pelle, Milano, 1987, p. 27.

[6]Ivi, p. 26.

[7]Ibid.

[8]Norman Lewis, Napoli ’44 (1998), Adelphi, p. 41.

[9]Luca Clerici, Apparizione e visione, vita e opere di Anna Maria Ortese, 2002, Milano, p.258.

 [10]Ivi, p. 263.

* L’immagine è un lavoro di Ciro Monacella, detto El Muna