[1 maggio 2014 – Chi crede al lavoro crede nei fantasmi della Rivoluzione d’Ottobre, come crede in Dio]

Da Gli esordi, di Antonio Moresco. Mondadori, 2011. Pag. 462-463; 465.

«[…] Tornava verso Lenin, sorrideva camminando verso di lui con la ciotola di zuppa. La vedevo passare, ritornare. Camminava verso la carrozzella come dentro una punta di luce che si apriva. Sorridevano entrambi. Non lasciava cadere un istante quel sorriso, anche mentre la cameriera lo incominciava a imboccare, la sua boccuccia si deformava un po’ attorno al cucchiaio, un po’ di zuppa gli scorreva sulla barbetta, sui vestiti, la camerierina gliela doveva asciugare di tanto in tanto con il tovagliolo. […] La porta della stanza si apriva. La camerierina andava sorridendo verso la carrozzella, le sue gengive si liberavano completamente delle labbra. Lenin faceva ciondolare un po’ la testina, sorrideva.
“Qual è il tuo nome, compagna camerierina?” sentii che le stava chiedendo un giorno, con quella vocetta.
“Sono Anastasia Nikolaevna Romanova!”»

«[…] Tornavo nello stanzino segreto. “Dov’è andata a finire la carrozzella?” domandavo. “Dove sono andati a finire i piedini di quella ragazza, di Anastasia?” perché non li vedevo più sopra la linea dove di solito vanno a posare le persone. Scorgevo appena, da dietro, la testina tuta puntata di Lenin. “Guarda cos’ho preparato per te…” gli sussurrava Anastasia, “vieni qui a mangiare…” Si sollevava la veste, gli prendeva quella zucchina pelata, tra le mani, se la portava di colpo contro il ventre… “Questo passaggio non me lo sarei davvero aspettato!” sentivo mormorare di tanto in tanto il professore. “Cosa aspettiamo ad agire?” lo incalzavo. Il professore corrugava la fronte. “Chi può mai dire se con questa davvero straordinaria attività della sua lingua non stia operando uno di qui suoi passaggi furiosamente sfalsati, anticipati…?” Restava con quella sua barbetta tutta girata di lato, tutta appiccicata, quando Anastasia faceva infine un passo all’indietro, si staccava. Usciva con la scodella dalla sala. Il tempo passava, si può sempre dire…»