Assemblea per l’ordinamento e la sollevazione dell’Accademia
rivoluzionaria, organo internazionalista permanentemente strutturantesi

Napoli, anno XI della Rivoluzione, 21 settembre
Comunicazione del Prof. Quintilio Fierro

 

L’Istoria dell’orbe è primariamente vicenda di popoli, il soggetto è generato poscia, ermeneutica recente, fatta salva l’occorrenza classica su cui non indugeremo oltre non essendo il loco. Esso soggetto è fenomeno de’ malaugurati tempi d’oggi, nostro coevo altrimenti detto, anco di noialtri che gl’avremmo sollazzevoli voltato il guardo, s’avessimo avuto il privilegio dell’arbitrio in simili faccende. In vece, sono precipuamente e soltanto i popoli ch’ànno fatto e diretto gl’accadimenti; essi sono, altresì, che rimembrano ovvero fanno obblivione nelle cronache dell’istoriografia. Essi sono gl’armigeri nell’acerrima pugna del postero iudicio degl’evi. Giacché anco lotte e ribellioni e rivolte sono vicende di popoli, giammai d’individui.
E bene, s’indugi sul nostro primo tropo: sono i popoli che fanno e dirigono l’Istoria. Tutta fiata l’Istoria, forra solcata da essi medesimi popoli, c’erudisce che nelle sue medesime intime midolla vi sono popoli e popoli, in ricorrente ed inconcluso guerreggiare: gl’individui, sia ribadito, sono soltanto carne che permane in guisa di nutrimento alla terra umida e bruna poscia ch’à conclusione il cimento degl’alterchi guerreschi e sanguinosi.
Tali per principio sùpero ed ontologico (posto il primato dell’immanente ch’asseveriamo senz’ambagi ulteriori) e per ontico statuto derivato, poiché è il conflitto che genera e move le fila dell’orbe, sia esso conflitto materiale ovvero culturale (pongasi in “culturale” puranco il fattore religioso; e si badi: non quello “alto” del Poeta, sic!), essi popoli rendono substantia l’incedere degl’eventi pel tramite assoluto della misura dicotomica ed ambigua implicita nella non coincidentia – mondana – oppositorum.
Posto tal secondo tropo nel novero de’ prolegomeni nostri, condiscendano Loro, probiviri di codest’Accademia adunata in consesso, a seguirci nel presente cogitare.
Sempre vi sono e vi sono stati, nel quadro del sanguinoso e fin ora non perituro ordine duplo cui ci riferiamo, popoli ch’ànno l’agio del primato e popoli che, per converso nonché lor malgrado, ànno lor istanza nel guazzo putrescente dell’isfruttamento. Non s’à da pensare a popoli nel senso di genìe colloidate da medesimo idioma e confine e cultura e religione, com’ànno a sostenere da più lustri le moderne assemblee di certuni dotti d’Accademia, per altro sovente nutriti col foraggio d’Apparati ed Amministrazioni. Nemmeno ci s’adegua, sia ovvio ché tal’è, alla pur celebre versione volontaristica a suggello dell’ispirito delle Nazioni, qual’ebbe a sostenere alcuni decennî or sono Ernesto Renan, moderno anch’egli. Popolo è, nel proposito che ci move, insieme d’anime (si badi: non quelle che sopravvivono al corpo loro!; o sia quelle proprie delle narrative dell’evo teologico e del metafisico, per dirla col Franco Augusto Comte) ch’ànno a condividere medesimo destino mondano: coloro ch’ànno primato; ovvero, di converso, immondo: coloro che guazzano nella mota asperrima dell’isfruttamento.
È pur vero che molti c’ànno preceduti in tali conclusioni, e costoro ànno tratto dagl’istudî loro le medesime invarianti, le quali licenziosamente adegueremo al presente ragionare. Illustre esempio ne sia il Carlo Marx, il quale col suo Capitale à edificato, fuor di metafora, entrambi gl’argomenti di tali nostre riflessioni, invero viepiù miserevoli. L’egregio Treviriense, nella sua ben nota materializzazione dell’hegelismo, dimostrò che l’Istoria è passaggio progressivo d’epoche e sentieri tracciati appunto da popoli (nel senso nostro, ch’egli tutta fiata nomava classi, die Klassen), che il solo confliggere carreggia seco. Esso conflitto alberga in Marx, come risaputo, nella discrasia della proprietà de’ mezzi produttivi, ergo agendo positivamente nell’agone economico, o meglio primariamente in esso. Successivi e recentissimi contributi che dal Marx traggono sostenimento, vogliono che tal conflitto non sia esclusivo, né invero primario, del campo economico e materiale, ma che bensì possa, ed indi debba al guardo analitico di noialtri studiosi, emergere anco in regioni diverse dell’umano novero. Trattasi de’ contributi degl’altrettanto Teutoni Massimiliano Weber e Guarniero Sombart e Giorgio Simmel (quest’ultimo, a parer nostro, ingiustamente fatto reprobo dall’Accademia, financo ad Aidelberga, invero e ciononostante faro luminoso del sapere). Essi studiosi, uomini di senno superno, fanno obbietto delle scienze dette “dell’Ispirito” (Geisteswissenschaften, genericamente; Kulturwissenschaften, pel Weber; Kulturphilosophie, pel Simmel) non soltanto l’economico, estendendo il conflitto generativo dell’Istoria, o meglio della Società (Gesellschaft), com’essi forse preferirebbero (e come d’altronde preferirebbe lo stesso Comte, a cui supra ci siamo appellati), alla riproduzione simbolica e della cultura. Gl’istudî che pongono legame tra l’etica Calvinista e l’Ebraismo urbano, ergo variabili d’ordine culturale, ed il cominciamento dell’afflato economico del capitalismo qual’oggi lo conosciamo, ergo variabile d’ordine materiale, ne dimostrino, per tutti, l’essenza (si badi ancor: non quella maiuscola degl’idealisti ovvero de’ fenomenologi).
Si tragga in tal modo da costoro, qual terzo nostro tropo, sì fatto adeguamento del pensiero marxiano. Sicché s’estenda il conflitto de’ popoli, la bifida tendenza ch’accompagna l’incedere dell’Istoria con cui abbiamo principiato, dal dato economico anco al dato immateriale, o sia detto igualmente culturale. E s’estendano or dunque le ragioni conflittuali sopra più punti, al modo d’una ragna distratta e confusa ch’abbracci l’orbe coi suoi filamenti di contrasto: ogni filo di tal ragna, s’immagini, descrive uno specifico e determinato conflitto dando comunicazione tra l’un punto, quello proprio di coloro che praticano l’isfruttamento, e l’altro, quello proprio di coloro che l’isfruttamento patiscono inerti.
Dunque, poste simili premesse, s’à la necessità, per svolgere in via ulteriore la matassa del discorso, d’una momentanea sinossi retrospettiva:

(1) I popoli fanno l’Istoria.
(2) Essi popoli configgono, dividendosi in primi e secondi, in isfruttatori ed isfruttati (ovvero qual’altra formula vogliasi usare), carreggiando seco conflitti plurimi ed indistinti ed onnipresenti ma purchessia sempre binari.
(3) Essi conflitti alimentano la forgia dell’Istoria, ovvero, ancor meglio, la sua macchina, come si direbbe ne’ tempi nostri, oltremodo apostoli di velocità ed ingenio.
(4) Esso conflitto tra popoli, da quinci innanzi semplificato metonimicamente nella forma singolare, determina orbene l’Istoria (fin ora pre-Istoria, per dare agio al Carlo Marx).

Vezzo dell’evo a noi contemporaneo, unico suo pregio a nostro modo di sentire, è la tensione igualitaria che, a partire dal Marx, anela al superamento del conflitto acciocché s’abbia il raggiungimento d’un evo successivo, immoto in quanto a tensioni tra popoli ovvero tra classi, per dirla col medesimo Maestro. L’afflato del bolscevismo volge giustappunto verso tale lido dell’Istoria, benevolo ed auspicabile attracco dell’umana ulisside specie. Ma anco all’interno medesimo de’ bolscevichi, nostro e lor malgrado, s’è aperto, restando tutt’ora inconcluso, un aspro dibattito circa l’internazionalismo della Rivoluzione, o sia della liberazione de’ popoli dall’isfruttamento. Quinci siamo col Leone Trotskij, sostenendo ch’essa Rivoluzione debba sortire dall’angustia dell’ambito nazionale, giacché è esso stesso Apparato di separazione de’ popoli, ergo vettore privilegiato dell’isfruttamento loro. Perché i popoli che quivi consideriamo, ovvero nella fattispecie bolscevica le classi degl’oppressi, debbono moversi in concerto oltre i confini che frustrano l’orbe facendone territorî, o sia luoghi avvezzi alla pratica del terrore padronale, anzi da essa generati, come sostengono certe lodevoli proposte iuris-filologiche cui vogliamo adeguarci, e non soltanto per complicarne proditoriamente l’etimo. E siamo convinti, come convinto è lo stesso Leone Trotskij, che sì fatto ordine generalizzato di sollevazione, permanente com’egli auspica, possa carreggiare con favore l’Istoria, placet omen, verso un evo rinnovato ed igualitario.
Indi contestiamo anco il nostro esimio collega ed amico Roberto Michels, invero mente eccelsa e dal séguito piuttosto denso, quand’egli, fissando la sua “legge ferrea” a statuto universale del convivere de’ popoli (quest’ultima formula, si badi, lo stesso Michels rifiuterebbe, come ò da ammettere per la stima ch’ad egli m’avvince), ebbe a sostenere, come tutt’ora egli continua e com’anco sostengono i suoi epigoni elitisti, che saranno sempre taluni, superiormente potenti per nascita e tradizione, a dominare e governare su talaltri, inferiormente di debil destino ascrittivo. Tale legge, continua il Michels, essendo affatto inalienabile al modo d’una costante, farebbe invalido qualsivoglia proposito rivoluzionario, dunque frustrerebbe ogni nostro sforzo e proposito e desiderio.
Ma l’incombente necessità dell’intendimento che ci move e pur rifiuta la legge del Michels, s’aggiunga, non alberga in maniera esclusiva nel progetto internazionalista, almeno non qualora esso non riconosca da par suo, com’all’attuale momento non fa, l’interezza de’ popoli dell’orbe com’essi fossero abitanti d’un’unica Nazione senz’Apparato, ergo di una non-Nazione ubiquamente situata a spregio del concetto di confine. Molti di tal popoli, pur nell’invero nobilissimo intento de’ bolscevichi, nostri primi ispiratori, veggono tutta fiata misconosciuto il lor diritto d’appartenere a’ moti della Rivoluzione, ed indi veniamo al principe argomento nostro.
Esistono in fatti popoli al mondo, da intendersi senza preliminare distinzione interna, che pur sussiste e sulla quale si tornerà brevemente infra, a’ quali quivi si dà l’umbratile e generico nome di Popoli delle Latebre, poiché ivi costretti in nascondimento perpetuo e sempre più serrato da quando si mossero, nei primordi della civiltà, i passi infantili della specie.
Come fossero solfanello, sull’onda del bolscevismo de’ trotzkisti, mondato tutta fiata dagl’eccessi dell’ortodossia economicista che riduce alle sole classi l’identità de’ popoli, le nostre riflessioni chiedono di rischiarare tali latebre, portando albedine laddove v’è soltanto misura spaziale atramente rattratta su sé stessa, ombra viepiù fonda delle notti in novilunio.
Seguono orbene necessarie questioni che rivendicano scioglimento:

Primum: qual’è l’ordine biologico cui sottendono i Popoli delle Latebre? Sono essi congreghe d’ominidi ovvero consessi d’uomini ovvero di bestie? Sono essi d’ulteriori biologismi intermedî? Sono annoverabili nell’alveo de’ fenomeni antropologici?
Deinde: il loro riconoscimento nonché sollevazione provocherebbe disagevoli effetti alla sovrastante causa internazionalista?
Denique: com’oprare in esso riconoscimento e sollevazione e come trarne fibra utile a tessere l’arazzo necessario della Rivoluzione?

Si proceda coll’ordine dovuto.
Sia detto senz’ambagi: i Popoli delle Latebre, per conformazione antropometrica e per attributi cognitivi e coscienziali, com’avrebbero a dire gl’apostoli dello Husserl (sic!), appartengono ad ogn’effetto alla famiglia dello Homo, alla quale apparteniamo noi e l’illustre platea che quivi campeggia dimostrando d’intelligere i motti nostri. L’utilizzo della parola, o sia l’abilità del linguaggio che allo Homo attuale s’attribuisce, fa di loro nostri paralleli e fedeli coevi evolutivi, dato sì che d’essi s’à memoria e testimonianza financo quici nella Vecchia Europa, e fino a che, giustappunto, il ricordo à termine nell’obblivione. Il linguaggio de’ Popoli delle Latebre, seppur predilige l’utilizzo comunicativo del silenzio scrutatore ovvero dell’aspra gestualità ovvero talvolta del grugnito, s’approssima al nostro qual’è sempre stato. Detto in termini alternativi, i Popoli delle Latebre parlano ed ànno parlato, nell’Istoria, per quanto al modo ch’ad essi meglio si confà, il nostro medesimo idioma, evolvendosi con esso come noi abbiamo fatto.
Vanno dunque rigettate a bella posta le teorie da cui s’è avuto l’ardire di dimostrare, per loro, natura belluina. Essa natura è in vece stigma a suffragio manifesto dell’isfruttamento cui essi Popoli sono subbietti nel tratteggio ferino del loro profilo simbolico; tal profilo è perspicuamente testimonio d’imposta subordinazione. È di fatti noto ch’all’isfruttamento de’ popoli, generalmente intesi, s’accompagna una degradazione d’essi popoli nella scala dell’umano, come d’altronde avrà da confermare chiunque abbia confidenza cogl’istudî recenti, invero anch’essi d’Apparato, degl’etnografi Britanni intenti a proseguire nelle loro verbigerazioni fintanto che l’opra coloniale darà frutti succulenti all’isola d’Albione (si badi: non diverso è il caso degl’etnologi Franchi). Sicché affermiamo, ponendoci saldi nella prospettiva offertaci dal nostro geometrale: siccome i selvaggî sono sottomessi al giogo de’ coloni, e siccome i lavoratori sono sottoposti al nerbo de’ capitalisti, e siccome i contadini sono sottostanti al capriccio de’ latifondisti, i Popoli delle Latebre sono sottoscacco di noialtri diurni, eziandio e soprattutto a partire dalle nostre abitudini pedagogiche, pel motivo e cagione di cui tosto si dirà.
Tali come lavoratori e contadini e selvaggî e colonizzati, i Popoli delle Latebre ànno in tal guisa da guadagnare anch’essi liberazione, com’imposto dall’imperativo rivoluzionario che ci sprona in lochi come codesto ch’or c’alberga in fertile consesso.
S’obietterà che essi Popoli costituiscono soltanto parvenza, e che non sono altro che residui (si badi: non quelli dell’illustre e compianto Pareto) dell’evo “teologico” e del “metafisico” ancor presenti nelle nostre credenze popolari, ed indi inadeguati per l’ordine positivo ch’impongono e concedono le scienze nostre. Essa obiezione cavillosa e tendenziosa, sia detto sine ira et studio, non tiene in buon conto del reale in sé. Poiché fin da quando nascemmo, com’individui singolari e anco come specie generale in senso esteso ed onnicomprensivo, e si torni brevemente a quanto suaccennato, fummo pedagogicamente abituati ed avvezzi al terrore per essi Popoli delle Latebre, i quali in principio vennero prezzolati (invero viepiù scarsamente) da’ padroni, ch’allora erano congiuntamente secolari e temporali, al fine di tenere in continuo timore ed isgomento intere comunità ovvero singole persone ed individui. Degl’isfruttati, indi, messi a polizia d’altri loro congeneri, ergo testi d’un altro e grave conflitto riposto. Come que’ Negri muniti di randello dell’odierna Africa Equatoriale, insomma, ch’al magro soldo di Francia vessano gl’altri loro simili, sedando ogni resistenza indigena all’odiosa impresa coloniale.
Tutti, fin dall’età di pargoli, di fatti, quando la mano autoritaria del padre ci puniva non bastando tutta fiata a soffocare le nostre infantili intemperanze, eravamo sovente richiamati alla disciplina ed alla riflessione pel tramite degl’abitanti del Popolo delle Latebre e della loro somma tristitia. Rimembriamo, siccome rimembreranno Loro al nostro cospetto, l’Orco ch’aveva albergo in cantina e l’Ombra che faceva sua dimora nell’armadio ovvero nella credenza e l’Uomo Nero che frequentava la botola e il Babau che s’appartava negl’anfratti più infimi del sottosuolo. Rimembreranno anco ch’esse minacciose presenze, invero, com’abbiamo avuto modo di sostenere supra, di fattezze antropomorfe e di linguaggio ed idioma corrente seppur votato favorevolmente al silenzio ed al lamento, sono quivi rimaste senza mai uscirne (in cantina ed armadio e botola e sottosuolo) fin quando l’età del raziocinio, invero subdola formula a mascheramento della ben più concreta ed amministrativa disciplina, Li raggiunse. Tal raggiungimento corrisponde invero all’estinzione del singolo rappresentante del Popolo delle Latebre per ognuno de’ diurni pedagogicamente utilizzato, alla sua perpetua assenza d’utilità sociale, ergo: null’altro che morte viepiù atroce della morte stessa.
Possono Loro dichiarare d’averli nottetempo uditi? Certamente.
E possono Loro affermare d’averli igualmente veduti? Giammai.
Ad essi quattro esemplari rappresentanti del Popolo delle Latebre cui s’è fatto cenno (Orco, Ombra, Uomo Nero, Babau) vanno tutta fiata aggiunti innumeri ulteriori schiavi a’ quali, anco nel tortuoso volgere de’ millennî, è stato imposto profilo disumano atto al raggiungimento della disciplina di noialtri Sapiens da Apparati ed Amministrazioni: com’Apparato che chiunque di Loro à conosciuto è, invero, la famiglia stessa per suo intimo statuto. Rientrino così nel novero de’ Popoli delle Latebre, rintracciandone esemplari financo nell’evo classico, le tristi Lamie e le fameliche Momò e le ingannevoli Empuse (“ingannevoli” sia detto beneficiando del dubbio, l’epochè de’ fenomenologi) e le furiose Arpie (col medesimo dubbio riguardo l’epiteto loro). Le Banshee ed i Troll, appartenenti alle regioni de’ Sassoni ed alle loro cronache e didattiche, fanno igualmente parte di tal schiera delle Latebre, di tal Popolo mesto. Vi sono poscia, non v’è da rammentarlo, i gotici Licantropi e Vampiri, le cui fattezze viepiù cangianti e pur sempre antropomorfe s’adeguano in maggior grado a’ tempi nostri ed alle nostre narrative. Essi pure, siccome risaputo, ben dotati, nelle suddette cronache ad uso didattico, d’esemplare ed indomita nequitia. Anco costoro, per loro ingiusto debito e per l’isfruttamento ch’esso debito unilaterale impone, appartengono al Popolo di cui si va dicendo e che, in quanto popolo ed in quanto negletto e vessato e tormentato, abbisogna di riconoscimento e liberazione conseguente.
Esso Popolo, sarà dunque chiaro a Loro ch’ànno compiacenza d’ascoltarci, à subìto negl’evi il peggiore de’ supplicî che iurisprudentia umana abbia generato, quella che nomeremmo e che nomiamo, ché tal’è, damnatio ad obscuritatem.
Ebene, quivi sosteniamo che sciogliere sì fatte maglie d’umbrifore catene, per restituire i Popoli delle Latebre all’essenza diurna ed alla nostra fratellanza, ergo al Sole della Rivoluzione, è compito ch’appartiene ad un programma che voglia dirsi internazionalista, con ciò travalicando anco il più infimo confine posto tra l’isfruttatore e l’isfruttato.
Convogliare il conflitto generativo di tal’ultima separazione antropologica nonché politica ed amministrativa è indi passo necessario per l’ottima riuscita dell’afflato rivoluzionario che ne’ tempi ormai maturi che viviamo c’à avocati a sé. Com’adeguatamente oprare acciocché possa trarsi beneficio alla causa nostra da riconoscimento e sollevazione de’ suddetti Popoli delle Latebre, è questio ch’andrà ulteriormente discussa.