Gli sfondamenti operati da Nietzsche, in particolare a partire da Umano, troppo umano, hanno lasciato tracce fortissime in diversi ambiti – in letteratura, senza dubbio, seppure nessuno ancora si è accostato all’autofiction con la forza, lo spirito e la radicalità di Ecce Homo*; nella scienza umane (viene in mente la psicanalisi per prima cosa); nelle scienze dure (la massima “solo ciò che non ha storia si può definire” è una massima quantistica in tutto e per tutto).

Se sul primo punto ho già battuto una volta in questo luogo, e ne è uscito fuori che l’unica opera letteraria “nicciana” è L’uomo senza qualità di Robert Musil, mi interessa ora scavare nel terzo punto, quello delle scienze severe.
La mia crescente curiosità per le neuroscienze e per la fisiologia del cervello mi ha portato, di recente, a un pensiero ambiguo – un’associazione venuta fuori senza portare con sé una chiara conclusione, un bel nodo da sciogliere.

Così, per quanto le più complesse istanze del pensiero aforistico nicciano trovino incredibile corrispondenza negli sviluppi recenti della meccanica quantistica, c’è un pensiero di Nietzsche che invece pare completamente in disaccordo con le neuroscienze.  Dalla Gaya Scienza in poi, c’è una massima che il Baffo usa come un leitmotiv:

il mondo apparente è l’unico mondo vero. 

Ora, ciò che le neuroscienze ci dicono, in merito agli organi sensori dell’uomo e al sistema-cervello che ne organizza i dati in “rappresentazioni”, è che il mondo, per come è percepito dall’uomo, non è né l’unico possibile, né tantomeno è “vero”.
Il mondo (le cose “là fuori”) sono percepite, immagazzinate e reinventate secondo le caratteristiche proprie degli organi sensori e del cervello – ogni cosa: i colori, i sapori, le forme, i movimenti, passando per le categorie fondamentali dello spazio e del tempo, fino ai concetti e al pensiero razionale.
Per arrivare al fondo di questa opposizione, però bisogna fare almeno altri due passi. Il primo passo riguarda la tradizione dentro la quale si muovono le neuroscienze, il secondo quella in cui muove Nietzsche (contro cui muove) quando pronuncia quella massima ossessiva.

Il primo passo. 
L’ossessione di stabilire quali fossero le caratteristiche “vere” (essenziali, “reali”) degli oggetti percepiti percorre la storia della filosofia occidentale – dagli atomisti a Aristotele fino a Galileo e Newton per andare oltre.  In Galileo e Newton, in particolare (e in Cartesio) prende piede una differenziazione tra le qualità primarie degli oggetti (le qualità reali, indipendenti dagli organi di senso umani): forma, estensione, movimento; e quelle secondarie (quali il colore e il sapore tra le altre). Questa separazione, alla base del razionalismo, viene lentamente e progressivamente smontata da una serie di “scoperte” – nell’ambito dell’elettromagnetismo, della relatività ristretta e di quella generale, della biologia evolutiva e della meccanica quantistica. Oggi i neuroscienziati possono dire, cervello alla mano, che forma, estensione, movimento, spazio e tempo sono costruzioni degli organi sensori e della materia grigia – che non c’è niente di reale là fuori, che le stesse categorie della realtà, della ragione e del ragionamento concettuale sono solo una particolare maniera della percezione e dell’organizzazione dei dati immagazzinati, inscritte strettamente nelle caratteristiche biologiche dell’homo sapiens. 

Il secondo passo.
Non è difficile fare, a questo punto, un’associazione. La differenziazione, alla base del razionalismo, in qualità primarie e qualità secondarie delle cose è strettamente legata a quella differenziazione tra mondo noumenico e mondo fenomenico che è invece il fondamento della filosofia kantiana e che Nietzsche chiama semplicemente Platone.
Quando Niezsche scrive

il mondo apparente è l’unico mondo vero

il suo riferimento oppositivo è l’anti-mondo platonico-cristiano, la dimensione ideale – la “metafisica” nelle parole (qui imprecise) del Baffo. Niezsche dunque dice: esiste solo il mondo dei fenomeni e non quello dei noumeni. Per questo motivo Nietzsche dà del platonico (dell’idealista o del cristiano) anche ai socialisti e al loro mito del progresso, ai positivisti e al loro mito della “verità” della scienza. Il razionalismo è un’idealismo, dice il Baffo – e con questo s’iscrive direttamente in quella linea oggi occupata dalle neuroscienze, dalla biologia evolutiva e della meccanica quantistica.  Meglio ancora: è lui stesso a creare quella linea, quella tradizione.

Fin qui, dunque, non pare darsi opposizione.  Eppure proprio ora si pone la questione: qual è  il mondo apparente? Quello dei sensori e del cervello umani o quello, più vero e meno vero allo stesso tempo, che la scienza riesce a descrivere e la cui configurazione nega costantemente i dati fornitici dai sensori umani?

Il terzo passo (un-dos-tres-un-pasito-bailante-maria)
Il terzo passo – il cuore stesso dell’opposizione – ha a che vedere con il linguaggio, con l’arte e con la finzione (illusione).
Uno potrebbe semplicemente dire che la scienza contemporanea si fonda su certe aperture di Nietzsche e con questo, protraendosi in avanti, supera le posizioni di quest’ultimo – e non avrebbe torto. Eppure la cosa è più complessa.
Infatti, quando Nietzsche dice che esiste solo il mondo dei fenomeni e non quello dei noumeni,  lo dice da una prospettiva prettamente umana. Il resto – il fatto che il mondo dei fenomeni percepito da un macaco o da un fangoso maialino d’india possa essere diverso da quello percepito dall’uomo – diventa irrilevante.  Ora, questa differenza non è irrilevante.

Nel prendere le distanze dall’idealismo e dal razionalismo, in nome della fisiologia dell’estetica, per salvare “il divenire dall’essere”, Nietzsche opera una drastica riduzione. Con questa semplificazione, nel vortice ascendente delle ultime opere, il Baffo nega, o classifica come subordinati, i metodi propri del razionalismo. Ma è attraverso questi metodi che oggi si può dire che i concetti, i numeri e il discorso razionale sono della stessa natura dei colori, degli odori e dei suoni – un’idea che il Baffo stesso abbozza quando descrive la sua fisiologia dell’estetica.  Dietro (a fianco o di lato) il mondo apparente di Nietzsche, ci dice la scienza, ce n’è un altro, e non è un’idea, un noumeno o un anti-mondo; è semplicemente non-umano.

Così, la natura di questa opposizione viene a affondare nell’arte della finzione e nella posizione dell’uomo rispetto a questa – una tensione paradossale che è iscritta intimamente nel metodo aforistico. Pur avendo scritto, sceverato e descritto – come mai nessuno prima, probabilmente – la fine del “mondo ideale” e la conseguente libera insignificanza del mondo apparente, il Baffo si trova, alla fine, a cercare una giustificazione, una direzione, una soluzione per quest’insignificanza. Così i greci, “i superficiali per profondità” diventano idoli di un savoir vivre che fa della propensione all’arte e alla finzione un antidoto al fatto che il “mondo apparente è l’unico mondo vero” – idoli interpolati e non del tutto veritieri, costruzioni dell’immaginario mitico del Baffo stesso. 

C’è un luogo, dunque, dove Nietzsche resta impantanato, e questo luogo è la necessità di dare un senso all’intero gioco – al mondo apparente che è il mondo degli uomini. Questa necessità è il luogo dell’arte e della finzione – dal punto di vista letterario, è la necessità di chiudere l’aforisma, di dargli forma compiuta – una drastica riduzione, una soluzione “metafisica” secondo le stesse parole del Baffo.
Se c’è un luogo dove Nietzsche rimane con un piede nella “metafisica” e l’altro fuori è la scrittura – e Ecce Homo ne è la più esplosiva e evidente traccia. In qualche modo, fino alla fine, l’uomo resta il centro. Questo è il nodo.

Oggi la scienza ci dice che la scrittura – la capacità di comunicare per sistemi di segni sempre più complessi – è una delle caratteristiche fondanti che hanno guidato l’homo sapiens nella sua abitazione della terra, ed è iscritta nei tessuti nervosi così come la capacità di percepire suoni o distinguere  forme. E allo stesso modo, ci dice che l’illusione (la finzione e l’autofinzione) è alla base delle strategie evolutive più efficaci.

Senza stare a chiedersi quale  ne sia il senso, quale l’utilità o la giustificazione, oggi c’è una prospettiva che si apre. Ce la apre la scienza poggiando sugli sfondamenti e sulle chiusure di Nietzsche. Questa prospettiva ha a che vedere con la scrittura, e ci indica di togliere l’uomo di mezzo. Una scrittura senza-io, che si fa pieno carico del carattere biologico-evolutivo dell’espressione umana, della sua “finzione” – che con questo sradica l’uomo dal piedistallo. Chiedersi dove questa possa portare è veramente l’ultima delle nostre preoccupazioni.

 

*C’è chi pensa a Così parlò Zarathustra come all’opera più “letteraria” del Baffo – chi lo pensa è fuori strada di molto. Ecce Homo è la prima opera in cui l’autore applica il metodo mitico a sé stesso senza filtri di carattere teologico-religioso (Dante?) – la più bella di Nietzsche e una delle più uniche nella tradizione scritta della specie homo sapiens.