È una geografia singolare, familiare e al contempo inconsueta, quella che Davide Morganti delinea in Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato, Wojtek, gennaio 2019.
Due fratelli siciliani, trasferitisi nella provincia di Napoli (Napoli nord), sono morti; il cadavere dell’uno è stato ritrovato immediatamente, quello dell’altro, di Nino, non ancora. L’io narrante ha il compito di cercarne il corpo: è un inganno, non c’è alcuna indagine, nessun caso Sciarra da risolvere, cui sembrerebbe invece alludere il titolo del libro. L’inchiesta, se c’è, si risolve in un andare avanti senza sosta all’interno della casa dei fratelli Sciarra, di stanza in stanza, alla ricerca di un cadavere che non si trova. Fermarsi, farla finita o semplicemente uscire dallo stabile sono possibilità che non si danno.
Nulla sappiamo dei due fratelli, eccetto che l’uno era cieco e che l’altro gli leggeva dei libri; nulla sappiamo dell’uomo che cerca il corpo di Nino: chi egli sia esattamente, perché abbia questo macabro incarico o chi gliel’abbia affidato; non riusciamo a ipotizzare le cause della morte dei due, il come e il quando: sono morti insieme? sono stati uccisi?; siamo colti anche dal dubbio, è il narratore a suggerirlo, che Nino Sciarra sia effettivamente morto.
La casa dei defunti fratelli, pur collocandosi tra Qualiano e Lago Patria, sembra un luogo che non c’è, un luogo fantasma, se non proprio un cimitero: abitato da non-vivi e non-morti, occupato da presenze sfinite, segnato dalla non-vita dei libri in cui la voce narrante inciampa o che cadono dal soffitto, come accadeva nella soffitta di Hanta in Hrabal[1].
Eppure tutto questo – il corpo sottratto, il susseguirsi labirintico delle stanze – ha un valore relativo: la ricerca messa tra parentesi e rinviata, in un certo senso, fa sorgere il sospetto che la voce che si muove nella casa sia in realtà già dentro il cadavere di Nino, ne stia, per così dire, esplorando la geografia: il corpo è ogni libro, ogni autore, ogni frammento di opera citata.
Insieme ai testi, ci sono gli insetti, le carcasse di animali, il cibo avariato e oggetti di ogni sorta che attraversano le pagine del Nino Sciarra segnandone l’incipit e ritornando come leitmotiv dell’opera insieme all’introvabile cadavere.

E allora cosa accade esattamente e dove. I libri chiamano, come cadaveri insepolti che reclamano vendetta, e sono corpi sanguinanti, che sussurrano e talvolta minacciano, nell’attesa di essere ancora riaperti e letti: a quel punto e solo a quel punto rivelano la loro luminosità, meglio: il loro lato luminoso e il loro lato oscuro.
L’atmosfera del Nino Sciarra, come la sua singolare geografia, è infatti cupa e macabra: ci si muove tra oggetti e fantasmi, carcasse di libri, dorsi, copertine consumate dall’umidità, pagine sparse, presenze che inquietano. “La letteratura è uno strano cimitero” scrive Morganti, “mette dentro vivi e morti, e a stento si riconoscono”; una Spoon River dei letterati dimenticati, com’è stata ragionevolmente definita.
Qui si intende suggerire una pista complementare, forse, ma differente. Il Nino Sciarra è ascrivibile allo stesso genere dei perduti Pinakes, di cui Callimaco figlio di Batto (Cirene 305 a.C. ca) fu l’iniziatore[2]. Sono tavole bibliografiche quelle che il lettore osserva: le numerosissime tavole custodite nella distrutta biblioteca di Alessandria d’Egitto, tavole che dovevano contenere presumibilmente il nome dell’autore, qualche elemento biografico, il titolo, la citazione del primo verso (nel caso del Nino Sciarra alcune parti della narrazione), il riassunto dell’opera, annotazioni critiche.

Un esempio:

Stanza 6 (p. 21):

Ho trovato un libro tutto rotto, robaccia buona per la spazzatura come molte altre cose in questo girone infernale; è di Sandro De Feo: Gli inganni, 1962, e lo scrittore pugliese – era di Modugno – aveva 57 anni quando il libro fu pubblicato: giornalista famoso, sceneggiatore affermato, descrive la giornata stordita di Antonio, un intellettuale in crisi, afflitto da uno scirocco che tormenta lui e la cosiddetta Roma felliniana: tutto è stanco, inutile vuoto. L’ironia di De Feo, in alcune pagine, è di una ferocia dallo sguardo calmo.

Segue la citazione da De Feo: «Perciò io non credo che le cose siano andate come si assicura […]»

E il commento dell’io narrante:

Laica solitudine, il mondo è caos, confusione, bordello senza possibilità di redenzione, è un groppo alla gola che non lascia scampo; la logica di De Feo è lucidissima: un Dio serio non sostituisce il casino con altro casino, ancora più doloroso e insensato; o forse sono stati gli dèi a non mettersi d’accordo tra di loro e allora ecco questo macello è stato generato dalla loro incapacità.

Questo mondo caotico e senza Dio è la Congerie, di cui scrive Giovanni Boine, Il peccato, 1913 (p. 86):

«[…] ma ecco che al di sotto di me contemplante vi è la Congerie vasta, la inesausta conflagrazione del particolare ed il contraddirsi. Dove io incerto mi muovo, dove io annaspo, dove io mi batto»

e che Morganti fa propria:

La Congerie è qualcosa di così confuso, immenso, sterminato in cui ti muovi ma solo per non cadere e che esiste da sempre e Boine prima di me l’aveva vista. E la presenza di libri moltiplica la sua natura e non è detto che Dio sia ordine che voglia ordine.

Ed è l’occasione che fa scattare l’invettiva contro gli Italopitechi, moderni Telchini[3]:

Chi ha mai scritto un libro così? Complesso, denso, pieno di sottotrame e di concetti, di vite precedenti che non a tutti sono piaciute, mica appartiene allo Stiticismo, corrente letteraria di inizio Duemila assai diffusa in Italia, quella dei romanzetti stiracchiati con poche parole e con storielle minime minime che rappresentano il reale, con tanto di mamme e lazzarelle e sfigati e uteri e bambini e cucine mal arredate e tic degli italopitechi e il lavoro da fare e il friendly; […] la loro rivoluzione (quella dei fondatori dello Stiticismo) letteraria ridotta a soggetto predicato e complemento avrebbe sconvolto l’Italia solo molti anni dopo, indottrinati a scrivere da editor capaci di analisi sociologiche, perché l’italopiteco non ci capisce molto se si aggiungono le subordinate e sei sette personaggi in più. Pomilio non scrive su ordinazione, non scrive perché se non lo fai si dimenticano di te e allora vanno bene pure romanzetti stirati a lifting […]

Esisteranno ancora copie di questo libro? Ne dubito, lo Stiticismo avrà preso il volume, controllato i numeri di pagine, 400 ma assai dense, troppe, come fossero quasi il doppio: avrà dunque cominciato a tagliare tutto ciò che risultava incomprensibile […]

Cosa ci fa un libro del genere nella letteratura italiana?[4]

Al di là della Congerie, si aprono gli squarci, le Intermittenze, che “mi lasciano un senso di speranza e di paura”, ma “è difficile distinguerle perché le porte spesso sono rotte o nascoste dalla Congerie” (p. 76). Le Intermittenze sono “vangeli balbuzienti, evanescenti, poco adatti ai molti; sono le parole che mancano ai vangeli, a quelli visibili e invisibili” (p. 87) [5].

Analogamente alle tavole callimachee, il testo di Morganti non è una pura e semplice elencazione di testi ma un oggetto erudito e prezioso che, senza avere la pretesa di fornirne l’intero catalogo, offre una selezione personalissima di autori e scritti della narrativa italiana contemporanea minore. L’interesse dell’opera consiste proprio in questo: è un’operazione di scavo che intende richiamare l’attenzione sull’oblio cui sono stati condannati questi cosiddetti minori dalla letteratura ufficiale, autori che nessun testo, nessun manuale, scolastico o universitario, nessuna biblioteca ha mai saputo accogliere, almeno finora. Ecco, allora, mostrarsi al lettore gli scaffali del cadavere di Nino Sciarra.

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Davide Morganti
Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato
Wojtek, gennaio 2019

 

[1] B. Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa, Torino, 1987.

[2] Callimachos (Suda s.v.); Nita Krevans, “Callimacus and the Pedestrian Muse” in Harder, Regtuit, Wakker, Callimachus II, pp. 173-184, Leuven, 2004.

[3] Callimaco, Aitia, I fr. 1 D’Alessio:

[Da ogni dove(?)] i Telchini gracidano contro il mio canto, | ignari della Musa, cui non nacquero cari, | perché non un unico poema ho concluso | o i re in molte migliaia di versi [celebrando (?)], | [o gli antichi (?)] eroi, ma per breve tratto [volgo] il mio carme, come un bambino e non ho pochi decenni. \ Ma ai Telchini questo io [rispondo]: “Razza (…) | che sa rodere [solo il suo] fegato!

Si rinvia a G.B. D’Alessio, Callimaco. Aitia Giambi e altri frammenti vol. II, Milano, 1996 [2001], note 2 e 3 (pp. 266, 268).

[4] La critica: R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, il Mulino 2014; C. Tirinanzi De Medici, Il romanzo italiano contemporaneo Dalla fine degli anni Settanta a oggi, Carocci, 2018, R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, il Mulino 2014.

[5] Si veda G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, 1971.