Cose strane faceva il signor RoooR, cose strane faceva e diceva, strane al punto che col tempo divennero per me assolutamente normali: i suoi comportamenti balzani non mi stupivano più da anni. Ma che mi venisse a citofonare, a casa, la notte di un giorno qualunque, per lasciarmi in custodia le chiavi di casa perché sarebbe partito soldato, proprio non potevo aspettarmelo. Trasecolai. Tralasciando pure la sua età – aveva una settantina di anni – e il fatto che non ci fosse alcuna guerra in corso, che un uomo come il signor Rooor, così dimesso e compassato, flaccido, sedentario, mi dicesse che sarebbe partito soldato, proprio non potevo aspettarmelo. Poi sì, voleva le solite sigarette.

Che mi venisse a citofonare di notte non era la prima volta: RoooR era solito fare lunghe passeggiate notturne intorno al quartiere, e l’unica compagnia che poteva permettersi era quella delle Benson & Hedges blu: quando gli finivano, mi veniva a bussare, io scendevo per aprire il tabacchi solo per lui, poi chiudevo e me ne tornavo a letto. Lui riprendeva a camminare fino al mattino.
Anche quella notte tirai su la saracinesca, aprii la porta, accesi le luci e gli misi il pacchetto da venti sul bancone: «Be’», gli dissi a quel punto, provando a fare l’indiano, «Stanotte fa freddo. Che fa ora, anche lei se ne torna a casa?»
E lui «Non posso», mi disse, «C’è qualcuno dentro casa mia». Stavo per alzare la voce intimando di chiamare immediatamente qualcuno: la polizia, ad esempio; stavo per uscire fuori a guardare la finestra di casa di RoooR che abitava nel palazzo di fronte al mio tabacchi; stavo per fare non sapevo neppure io cosa, quando RoooR mi paralizzò dicendomi «Sono giorni che c’è qualcuno dentro casa mia».

Era una notte, RoooR stava per uscire per una delle sue solite passeggiate quando, la mano sulla maniglia della porta, sentì un rumore provenire da un non meglio precisato punto della casa. Per come me lo descrisse lui, fu come il rumore che fa il cordoncino di una tenda quando sbatte sul vetro della finestra: bom. Esitò giusto un attimo, RoooR, ma poi uscì: «L’unica era pensare di aver lasciato una finestra aperta», mi disse, «Ma avevo appena chiuso tutto, giacché sarei sceso di casa di lì a breve».
Fu quella la prima delle cinque volte in cui avvertì quell’imprevedibile rumore. La seconda volta capitò la notte successiva, identica la scena: RoooR era sul punto di uscire allorché bom. Di nuovo quel rumore. Una volta fuori dal portone, il signor RoooR pensò che forse qualcuno abitasse casa sua quando lui andava via. Ciò non gli creò preoccupazione né fastidio. Alzò giusto lo sguardo verso la finestra del soggiorno che affacciava sulla strada, ma non vide alcuna luce accesa: evidentemente l’ospite sapeva muoversi al buio. Quando rincasò, mi disse RoooR, era quasi l’alba, e, appena entrato, vide sulla scrivania del soggiorno un libro.
«Non ricordo», disse fumando, «se quel libro l’avessi lasciato lì io, se lo avessi letto prima di scendere o nel pomeriggio e poi dimenticato sulla scrivania».
E lì il libro rimase.

Due giorni dopo, sempre di notte, RoooR era seduto alla scrivania: fumava, e mentre annientava nel posacenere la sigaretta consumata fino al filtro… bom. Alzò la testa, RoooR, e tese l’orecchio: il silenzio, disturbato appena dalla voce gutturale del frigorifero. Nessuno in giro, a parte lui. Si alzò, deciso ad andare verso la camera da letto, da dove, quella volta ne fu sicuro, aveva sentito arrivare quel suono, ma si fermò a metà del corridoio: qualcosa in lui gli suggerì che fosse giusto non andare a controllare.
Eppure desiderava che quel suo coinquilino tenebroso si palesasse, lo desiderava davvero: gli avrebbe voluto chiedere, per prima cosa, se non fosse troppo pericoloso entrare dalla finestra in quell’appartamento che era pur sempre al terzo piano.
«Non sarebbe esattamente la prima cosa che mi verrebbe da chiedere», lo interruppi.
«Perché lei è giovane: è abituato a vedere le cose dalla fine. Io sono un vecchio: le cose le guardo dal principio».

A nessuno dirai chi sei: sarebbe d’altronde una spaventosa rivelazione. Ci si conosce meglio nella propria immaginazione.
Così aveva scritto RoooR sul bordo superiore della pagina 65 che strappò via dal libro, quel libro che da due giorni campeggiava sulla scrivania, Il deserto dei Tartari di Buzzati: è la pagina in cui Drogo, di vedetta sulla fortezza, scambia il suono di una cascata d’acqua tra le montagne vicine per una voce umana, una voce che parla della vita, che si è sempre a un filo dal capire e invece mai.
Il signor RoooR usava, in passato, inserire dei pezzi di carta tra le pagine dei libri che leggeva, per ricordare quelle più belle. Mi disse che erano anni, ormai, che non leggeva libri nuovi: rileggeva.
Quella notte, così, maturò un modo per comunicare con l’intruso: se costui gli aveva lasciato quel libro sulla scrivania, era tramite quel libro che poteva parlargli.
Lasciato il foglio sulla scrivania, uscì di casa.

Quando tornò trovò tutto esattamente come prima: sulla scrivania niente, se non il foglio che aveva lasciato lui stesso prima di uscire.
Ne rimase deluso. Credeva d’aver trovato il modo giusto per stabilire un contatto. E invece non accadde più nulla, per molte notti: il signor RoooR continuava a frequentare le sue strade notturne, ma niente più rumori imprevedibili, o libri fuori posto.
«Eppure, mi creda, avvertivo la puntuale sensazione che ci fosse qualcuno. Ogni tanto mi pareva di imbattermi in segni che rivelavano una presenza estranea: un cassetto lasciato aperto e che io ricordavo d’aver chiuso; il posacenere sulla scrivania laddove ricordavo d’averlo lasciato sul davanzale della finestra; una lampada accesa che io pensavo d’aver spento; un pacchetto vuoto dentro cui ricordavo d’aver lasciato un’ultima sigaretta…»

Passò una settimana dall’ultima volta che RoooR aveva sentito il rumore. Esattamente come le altre volte, sul punto di uscire di casa, un Bom si udì dalle parti della camera da letto: il signor RoooR si bloccò con la mano sulla maniglia e decise di riprovarci: prima di uscire tornò alla sua scrivania, e dalla libreria a portata di mano prese un libro su cui rimuginava da qualche giorno.
Ascolterò attentamente tutte le parole che non mi dirai.
Così scrisse, RoooR, sul bordo superiore della pagina 114 che strappò via da Le città invisibili di Calvino: è la pagina in cui Kublai dice a Marco Polo che hanno finalmente dimostrato che se ci fossero, non ci sarebbero.
Lasciò il foglio sulla scrivania e andò via.

«Quella era una notte più o meno come questa: di un freddo senza vento; io potevo camminare senza dovermi tenere con le mani il bavero del cappotto alzato. Sono le camminate migliori, quelle che mi mettono di buon umore. Ci aveva mai pensato che quando le sue mani sono libere di scegliere cosa fare, lei è più felice?»
«No. In realtà no».
«La capisco, la capisco. Lei è giovane. La capisco».
Qualche istante dopo, mi chiese:
«Sa cos’è la cosa che più mi inorridisce dell’essere umano?»
«Mi dica».
«La stanchezza. Noi ci stanchiamo. E quando ci stanchiamo smettiamo di fare tutte le cose più belle che potremmo fare. Anzi: non le iniziamo proprio».
E si azzittì, sensibilmente sconsolato: lo sguardo a terra, il collo proteso in avanti.
In quella pausa di silenzio ammetto di aver tentennato: il sopore mi pervase, e pensai che quello non fosse dopotutto un brutto modo di addormentarsi: il silenzio improvviso, nel tabacchi, nella città, forse nel mondo intero, prese a cullarmi.
«A ogni modo quella volta non tornai a casa fino al mattino inoltrato».

Quando tornò a casa, mi disse, c’era già il traffico delle auto che si trascinavano a lavoro, o si fermavano davanti alle scuole; le attività commerciali avevano alzato le palpebre pesanti: il giorno si inscenava schiamazzante, e lui, a casa, non ci era mai tornato così tardi. O così presto.
Sedutosi alla scrivania gettò un’occhiata dalla finestra domandandosi dove se ne andasse di mattina quel suo strano coinquilino. Si domandò se anche a lui, prima di lasciare l’appartamento, guardando la strada e incantandosi a osservare le macchine fermarsi e ripartire, altre macchine fermarsi, altre macchine ripartire, e provando a contarle, una per una, per poi moltiplicarle per il numero dei probabili passeggeri, e tra questi quelli che avevano altre macchine in quel momento ferme moltiplicato per il numero dei passeggeri in quel momento potenziali, ipotizzando quindi un numero spropositato di macchine e di passeggeri e di combinazioni possibili fra i numeri e le lettere delle targhe delle macchine in cammino e delle macchine ferme dei passeggeri in moto, ogni combinazione una targa, ogni targa una persona, ogni persona una combinazione diversa, ogni combinazione diversa una coincidenza ordinata di numeri in una successione casuale unica e irripetibile di segmenti di casualità con nomi e cognomi in viaggio verso una vita precisamente diretta al proprio destino: si domandò se anche a lui, guardando tutto questo, non venisse un po’ da piangere.
Chiusa la persiana della finestra, il signor RoooR capì che ancora una volta nella sua vita aveva scambiato il desiderio per l’attesa: e quel giorno, sedutosi alla scrivania, decise che mai si sarebbe mosso da lì.
Si fece sera, e poi notte:
«Ieri notte. Ero sicuro che lui fosse in casa, anche se non c’era stato alcun rumore. Così, per la prima volta, ho provato a parlargli: ho detto “Oggi non scenderò”. E poi, dopo molto tempo, ho avuto sonno: gli occhi mi si sono stretti nello sforzo di tenere su le palpebre, con la mano cercavo di tenere la testa per non farla cadere ciondolante lasciando che si assopisse. Volevo rimanere sveglio, aspettare la risposta. Eppure mi sentivo stanchissimo come se tutte le sere di insonnia si fossero incontrate in quel momento a pagare i loro debiti».
Ma più il suo sforzo per la veglia s’ostinava, più RoooR si sentiva stanco, le forze residue strenuamente schierate a che il sonno non l’avesse vinta, gli occhi aperti in equilibrio precario sul ciglio del sogno, il mento litigato alla calamita del petto; finché: bom… tornò a sentire; e si nascose, RoooR, gli occhi chiusi nel palmo della mano, come stanato da quel rumore, da quel tarlo stillicidioso che paziente s’era scavato una galleria cupa e profonda tra le rocce dell’abitudine. Estenuato, uno scatto di collera: il signor RoooR prese e scagliò contro il muro il posacenere che stava sulla scrivania; si avviò poi ansimante verso la camera da letto attraverso il purgatorio di quel corridoio che la collegava al soggiorno, deciso questa volta che avrebbe acceso la luce e controllato. Arrivato alla soglia della cornice nera della camera scura… RoooR si svegliò.
Si era addormentato, con la testa poggiata sulla scrivania a un palmo dal posacenere ivi ancora intatto.
«Quando ho alzato la testa, aspettavo da un momento all’altro di sentire di nuovo il rumore, come nel sogno, certo che sarebbe arrivato». Silenzio, invece, non un fiato, non un rumore eccetto quello del suo battito cardiaco accelerato.
«A quel punto mi sono girato a guardare dalla finestra, per non pensarci. E lì ho visto: un uomo camminava per la strada, da solo, nella notte, uno e ramingo. Mi sono domandato dove se ne andasse, a quell’ora, tutto solo. Io, proprio io: “Proprio tu ti stupisci?” pensai di me stesso. Ed era vero: perché me ne stupivo? Non ero anche io come lui? Non era forse ciò ch’io pure facevo ormai da anni, ormai quasi ogni notte, camminare da solo, lungo le strade, per tutta la notte? Ho seguito con lo sguardo quel signore sparire in fondo al buio di quella strada, e allora, soltanto allora, ho capito: quell’intruso proprio in quel momento mi aveva parlato. Mi sono dunque girato verso la libreria: mi fu immediatamente chiaro quale libro avrei dovuto prendere».
Lasciami il tempo di mettermi in tasca il mio amore immenso e la mia paura di perdere: quella di morire mi seguirà dappresso.
Così scrisse RoooR sul bordo superiore della pagina 99 che strappò via dal libro Favole al telefono di Rodari: è la favola Il semaforo blu, in cui un semaforo blu guarda gli automobilisti impazziti e dice «Poveretti! Io avevo dato il segnale di “via libera” per il cielo. Se mi avessero capito, ora tutti saprebbero volare. Ma forse gli è mancato il coraggio”.

«Sa, lei, dove portano tutte le strade che cammino di notte?» mi chiese RoooR a quel punto.
«Ai semafori blu?»
Sorrise: «Al contrario: ai semafori gialli; quelli che ti dicono “Attenzione: è meglio che ti fermi”».
E ciò detto, se ne andò, lasciandomi solo in un’alba fredda.

Aspettai un giorno intero, e poi un altro, che il signor RoooR tornasse, come sempre, a comprare le sue Benson & Hedges. Al terzo giorno, di notte, mi decisi: m’alzai dal mio letto, uscii di casa e gingillandomi in tasca le sue chiavi decisi di andarci.
Appena varcai la soglia dell’appartamento, s’aprì il soggiorno: perfettamente in ordine; la libreria, pure. Mi volsi verso il corridoio: in fondo, la cornice scura della camera da letto.
Percorsia passi lenti il corridoio, aprii la porta.
Eccolo, il signor RoooR: steso nel suo letto, le coperte fino al collo.
Mi avvicinai.
Semplicemente dormiva.

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In copertina: Dino Buzzati, Il Babau, 1969, acrilico su tela 40×30 cm.