Questa abitudine di infiorare i propri discorsi con parole inglesi si è diffusa un po’ ovunque in Europa e in America latina. I francesi chiamano “franglais” questo modo di esprimersi ed usano l’espressione con una implicazione poco lusinghiera, forse perché in fondo ritengono la loro lingua molto più nobile e importante di quanto gli italiani non stimino la loro. Potremmo suggerire la parola “itang’liano” per indicare l’idioma parlato da quelli che si esprimono in modo simile a quello del Dott. Malvestio, del Dott. Mazza Galanti e del Dott. Bitetto. La gente che parla itangliano è parecchia anche fuori delle società industriali e commerciali: in queste, però, l’impiego dell’itangliano rappresenta una gara continua, un simbolo di status, un gioco di potere, una meta ambita. Naturalmente conoscere bene l’inglese è utile per poter parlare meglio itangliano – ma non è certo necessario.
L’uso di termini inglesi – o stranieri in genere – comporta certi rischi: per questo George Orwell in un suo saggio sentenziava che chi voglia scrivere leggibilmente in una data lingua deve evitare l’impiego di termini stranieri che possiedano un equivalente fedele e accettabile nella lingua usata.
Il primo rischio è quello di non essere capiti. Chi adoperi troppe parole straniere o anche solo dica o scriva in una lingua straniera una o più parole chiave di un certo discorso o di un certo testo, può lasciare nel buio più totale uno o più dei suoi ascoltatori o dei suoi lettori. Potremmo chiamare “sindrome del marziano” la situazione in cui si troverebbe questo tale.
Il secondo rischio che corre chi usi molte parole straniere è quello di essere disapprovato in quanto la cosa sia giudicata di cattivo gusto. Il terzo rischio è, però, sicuramente il più grave ed è quello di essere non soltanto disapprovato ma eventualmente anche corretto in pubblico perché le parole straniere – in genere inglesi – usate vengono impiegate in un senso sbagliato o vengono pronunciate male.

felici-new-weirdITALIAN WEIRD (L) (pron. ɪˈtæljən wɪəd). Si intende, con questa formula di genesi recente, la versione italiana del genere letterario weird, che ha origine nel mondo anglofono tra Ottocento e Novecento, preso nella recente riformulazione new weird (da qui l’uso alternativo di New Italian Weird). È come dire american spaghetti, english pizza e simili. Weird, che in italiano significa “strano”, corrisponde, dal punto di vista letterario, a narrazioni del mistero e del soprannaturale, grottesche anche. In Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899-1932 (ed. Tunué, 2007), Fabrizio Foni – che qui mette a confronto le riviste italiane di genere “con il più noto pulp magazine statunitense a carattere fantastico, il mensile Weird Tales” (cito da p. 8), nato nel 1923, cui si deve la diffusione del termine weird nel senso ivi trattato – ricorre al termine «fantastico» in luogo di weird (riporta, tra l’altro, il titolo del saggio di H.P. Lovecraft Notes on Weird Fiction nell’italiano Osservazioni sulla narrativa fantastica, dal testo Lovecraft, Teoria dell’orrore. Tutti gli scritti critici, Castelvecchi, 2001), e inoltre usa la formula “fantastico popolare italiano”.

In Itangliano possiamo suggerire le frasi tipiche:
“L’opera X va inserita nel canone Italian Weird in quanto evidentemente risponde alle caratteristiche del canone Italian Weird”.
“A cosa serve il canone Italian Weird? A evitare che la produzione fantastica contemporanea italiana sia troppo italiana”.

Firmato: Antonio Russo De Vivo aka Don Ferrante di Commando Interpolazioni e Giacomo Elliot, del quale qui si cita Parliamo itang’liano. Ovvero le 400 parole inglesi che deve sapere chi vuole fare carriera, Rizzoli, 1977.

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Il meme è di Stefano Felici.