Kohlhaas, entrando nella sala,
afferrò per il petto un certo Hans von Tronka che gli veniva incontro
e lo scaraventò in un angolo della sala,
così da fargli schizzare le cervella sul muro.
(Heinrich von Kleist)

Guglielmo Galasso omm’ onesto e probo, a cinquant’anni arrivato tutto in ghingheri come un signorotto di provincia con tanto di “don” e cordiale riverenza, inchino, manca solo il baciamano, è uno che s’è fatto da solo come si suole dire: don Guglielmo Galasso già a vent’anni era omm’, e cioè Uomo Maschio con gli Attributi, perché nato dalle saettelle dell’underground della provincia della provincia nel classico quartiere dormitorio in cui a una cert’ora si sentono gli sfrigolii elettrici dei lampioni intermittenti, nato da una famiglia di pescatore con moglie e figli a carico, quarto di quattro masculi secchi come le acciughe e aspri come le acciughe e di poche parole ciancicate e strascicate e tutte collegate ai bisogni elementari e lui, – l’allora Sceccsbirr come lo chiamavano perché la mamma stava auscultando dalla radio l’opera di quel grande e illustre bardo sciosciandosi col ventaglio e così ‘u nomm’, Guglielmo, era stato un obbligo dettato dal prodigium e Guglielmo fu, con tutto che il pater familias strepitasse e bestemmiasse tutti i santi famosi del sud urtato oltremodo dalla scelta sì tanto desueta nelle terre avite; ma così volle la matrona, colei che in casa essa cummanna perché essa ci sta e ci lava, ci corica i figli, ci prepara da magnà, ci prepara ‘o ccafè, ci pulisce le cozze graffiandosi mentre strappa gli struppuni, ci spila il cesso che si appila un giorno sì e un giorno anche, e se fa tutto questo e anche di più allora in casa essa cummanna e don Ciccillo Galasso ‘o piscator’ s’adda sta’ – quindi lui, Sceccsbirr, nomignolo poi per ovvie e naturali ragioni apocopato in ‘o Scecc’ e poi per ovvie e naturali ragioni metamorfosato in ‘o Sceicc’ (è così che la semantica in certe comunità viene ingarbugliata sicché trovare l’origine dei nomi, delle parole e delle cose è impresa impossibile se la storia, come in codesto singolare casus belli degli homines vs. lalangue, non è essa stessa esplicitata da qualcuno che tutto sa) campò di pasta e pane e frutta e frutti di mare e pesci pochi nella casa di don Ciccillo Galasso dominata da ‘onna Filomena finché a diciott’anni compiuti la lettera del militare deviò il corso del destino e lui, ‘o Sceicc’, che per storia, possanza fisica e intelletto prometteva tanto e avrebbe creato un’impresa familiare virtuosa nel mercato del pesce, tutto ciò non lo fece, ci mise un punto e andò a capo.

Don Guglielmo Galasso durante il militare s’è fatto ‘omm. Erano i roboanti anni Ottanta e questo giovine di speme niuna, senza istruzione, con pochi stracci appresso, nessuna intenzione di tornare, aveva fatto pervenire a casa rade pesate parole: “sto bbuon’, ccà fatic’, statem’ bbuon’”, e figurarsi se i Galasso, cinque membri e una barchetta e una vita di merda da scontare, si mettevano a priare la Maronna per far tornare il principino nonostante magari con lui la fame sarebbe stata meno perché il principino, ‘o Sceicc’, pareva c’avesse un certo talento per gli affari, un fascinum tremens quando vendeva il pesce che come lo vendeva lui veramente pochi, che lui alluccava e rideva e gesticolava e piaceva a tutti e però, nel dubbio, meglio una bocca in meno, accussì cchiù magnà per tutti, che si guarda all’oggi e al domani po’ se penz’, o meglio Qualcheduno Primo Motore Immobile Ente Primo lassù ci pensa, ché c’è sempre un disegno, tutto accade con divina ratio, e ‘o Sceicc’ era scritto da qualche parte che doveva stare lontano dai suoi, solo che nessuno, è d’uopo sottolinearlo, in famiglia s’era chiesto addò sta ‘o guaglion’.

La sicumera con cui il giovine pulcherrimo Guglielmo Galasso, nerboruto coi peli sensuali che spuntavano dalla base del collo e la pelle scurissima di chi nel mare s’è bruciato, si muoveva nella grande città era materiale antropologico nuovo. Costui passeggiava sacco in spalla col petto enfio assai, il mondo ai suoi piedi, mondo dai peccati e di fatto ammuntat’ perché ai tempi, è noto, non era nessuno. La città era calda, colorata, danarosa, la gente felice, la moneta circolava, la povertà era poca, l’elemosina era facile, lo strascino eccitante, il sole caldo, il calore sopportabile, il buco dell’ozono e l’aids di moda, gli extracomunitari anche, abbondavano i self-made men e Guglielmo era fra questi, pronto a corrodere il sistema dalle radici per suggere la linfa a costo di inaridire ogni cosa, “’o munn’ m’ ‘o zuc’” diceva tra sé e sé mentre nessuno se lo cagava manco di striscio e il mondo lo schifava perché i miserabili senza niente e senza niente da perdere fanno paura.
‘Sta fetent’ ‘i Città non c’aveva certo la Borsa di Wall Street, ‘sta fetent’ ‘i Città annaspava in se stessa e tutto funzionava con la forza del casino, ‘sta fetent ‘i Città non era Amsterdam né New York né Roma eppure era ‘a Città, tutto il mondo la conosceva, era ‘nu labirint’ ‘ntricat’ dove niuno poteva raccapezzarsi e ragionarci e stilare un piano strutturato, quivi tutto si perdeva, tutto obliava, la memoria andava ad casum e non stava a distinguere tra belli e brutti e buoni e cattivi e la plebe e non solo la plebe si azzeccava al profluvio di idoli che la civiltà produce, e immaginiamoci quanti idoli gli anni Ottanta potevano ficcarci in questo labirinto ingorgato di pieni e vuoti, tutto pronto al crollo e tutto immarcescibile, un labirinto tenuto in piedi da un oscuro demiurgo, da qualcuno che vegliava affinché quello che mai avrebbe potuto resistere continuasse a resistere, e diciamolo che ‘a Città era antica e lo è sempre stata e chissà fino a quando lo sarebbe stata, l’antichità in fieri fa paur’, ‘stu zuppon’ chin’ ‘e rrobb’ fa semp’ paur’, ‘a Città è temuta, in codesto calderone ci vengono, si beano ma non si immergono, poi però piangono lo stesso, quando qualcuno vive ‘a Città per giorni e poi la lascia, la separazione è sempre uno strappo forte, una strizzata nelle viscere, un dolore oscuro e insensato perché quel qualcuno lì magari non c’è nato, ma ‘a Città ti avviluppa e te stregne ‘o cor’, subito, e tu straniero non sei uno straniero, no, vieni accolto in questo grande mondo antico e ne diventi parte e patisci come ogni pret’ ‘i tufo urtata dalle pallonate dei fanciullini, come ogni cazzimbocchjie maculato dallo sputo rasposo ‘i nu viecchje ‘mbambalut’, come ogni cappelletta ‘ndufat’ ‘e ciur’, come ogni parete ecclesiastica azzeffunnat’ di ex voto e quante chiese e chiese e chiese consacrate e sconsacrate, aperte e chiuse, splendenti e cadenti, stanno ‘int ‘a ‘sta fetent’ ‘i Città.
Negli anni Novanta don Guglielmo Galasso era ‘nu piezz’ ruoss’, e stuporosi siate resi edotti del fatto che don Guglielmo a trent’anni passati faceva soldi tali da gaudēre in un appartamento al centro storico da professionista, giacca e cravatta, con studio e moglie appassionata di discipline orientale, Arianna, e figli iperattivi, Michele e Silvio, e servitù e cane e ritratto di famiglia al muro dipinto dal pittore r’ ‘o vic’ e televisione enorme e computer enorme e impianto stereo enorme, e che faceva don Guglielmo Galasso? che faceva? boh.
Non si sa questo omm’ ruoss’ da tutti rispettato e riverito come fosse giunto a quel gran bel punto, e come avesse mantenuto tutta quella roba per vent’anni, un ventennio felice per lui e per la sua famiglia e sempre meno felice per ‘a Città, che dai gloriosi anni Novanta alla fine terribile degli anni Zero ha conosciuto un inesorabile declino economico e sociale e la perdita di certe certezze del tipo che se fai ‘a famm’ magn’ e ruorm’ ‘u stess’, la casa nessuno te la toglie e il piatto a tavola ci sta sempre; a un certo punto ‘a Città è jut’ sott’ e ‘ngopp ma don Guglielmo Galasso no, lui s’è ingrassato di più e la sua casa ha prosperato e tra le sue mani c’è passata la moneta circolante del labirinto, renar’ a mappat’, quella moneta è finita nella sua sacra domus con croci appese ovunque che non si sa mai, se Lui c’è meglio stare appriparat’.

Don Guglielmo Galasso a final’ è uno strozzino, ha roso le fondamenta di quest’antica civitas, ha preso tutto, e però l’ha fatto da signore. Don Guglielmo Galasso ha imprestato danari, è vero, ma con interessi minimi; ha dato una possibilità a tutti; molti ne hanno beneficiato; diversi ex voto in chiesa si devono a lui; molti hanno perso tutto, ma è fisiologico. ‘Stu vierm’ è stato capace di fare il peggior mestiere nel migliore dei modi, di suggere il sangue della gente che continuava a baciargli le mani a umettargli la pelle e a chiagnere di commozione con la migliore delle intenzioni, questo perché le banche al confronto altro che strozzini, sicché deo gratias la banca buona a un certo punto era lui.
Un giorno però, don Guglielmo Galasso si svegliò e anche lui era ‘nu pezzent’ come quasi tutti in Città. Fu un giorno che destò il giusto clamore nella magione Galasso: giunsero tre raccomandate dall’Agenzia delle Entrate tali da far impallidire qualsiasi re, figurarsi un principino. ‘A chiammat’ er’ ‘a renar’ e di danari don Guglielmo non ne aveva abbastanza, era incredulo, si chiedeva perché pretendessero tutti quei soldi quoque a isso che stava attento a tutto, che le tasse le pagava e pur’ assaje. Don Guglielmo non capiva, vedeva cifre a molteplici zeri apparse ex nihilo, e quando la moglie, non potendo cchiù pagare il maestro di yoga, gli chiese “Guglié, ch’ cazz’ ‘sta succerenn’?”, la risposta fu: “me vonn’ fa for’!”.

Per la prima volta don Guglielmo Galasso si ritrovò solo, senza soldi, evitato dalla gente, additato come uno che non ha rispettato la ‘leggechevalepertutti’, et similia. I muort’ ‘i famm’ ridevano, felicitandosi per la fine di un impero. Si sparse la voce che con la crisi persino don Guglielmo facev’ ‘a famm’, e la plebe da un lato era scossa perché la cosa s’imprestava a tragica esegesi biblica, dall’altro se ne felicitava perché con la miseria ci sta ‘a ‘mmiria, e ‘a ‘mmiria è il sentimento più viscido e schifoso e putrido e marcio che possa albergare nell’animo umano, e però chi lo dice che la plebe è buona?
Frattanto Guglielmo Galasso, che aveva perso il “don” e che già qualcuno ridacchiando cominciava a chiamare ‘o Sceicc’ come non avveniva dalla trista e parca giovinezza, fece ingresso nel Palazzo della Legge per chiedere spiegazioni: ‘o Sceicc’ vulev’ capì che cazz’ è succies’, Qualcuno glielo doveva dire, e quel Qualcuno stava lì, nel Palazzo della Legge.
Guglielmo si fermò in portineria, chiese un appuntamento, gli fu negato, insistette, gli fu concesso, “torni qui fra un mese esatto”, gli fu detto, “ma, per questo appuntamento, lei capisce che ci deve dare dei soldi: non possiamo mica scomodare il Legislatore per nulla” “sì, lo capisco, ma mi avete tolto tutto” “non tutto, lei sicuramente avrà con sé dei contanti che forse potremmo farci bastare” “sì, ho questi…”. Guglielmo agiva in trance, posseduto dalla paura della miseria, dai fantasmi di un passato remoto ignorato per oltre tre decenni, appropinquato all’orrore di una vita nova di quelle da preferirvi la fine, ossessionato dalla sparizione della moneta, della casa, di tutto, e fu così che nel turbinio delle inani angosce cacciò fuori il portafoglio baluginante e ne trasse una serie di meravigliose banconote da cento che in toto erano duemila euro addirittura, poi andò via tremebondo, che un mese di miseria sarebbe stato lunghissimo a concludersi. Tornato a casa, con la moglie si fece ospitare da uno dei due figli, Michele, diventato nel frattempo un piccolo commerciante che stentava anche lui a causa dei tempi ‘nfami.

Il mese trascorse, e Guglielmo tornò al Palazzo della Legge. Giunto in portineria, disse di avere un appuntamento col Legislatore, ma gli fu negato il permesso. Guglielmo sbiancò, poi sbottò: “io v’aggio pavat’, facitem’ trasì!” “ma lei che sta dicendo? qui non possiamo accettare soldi per un appuntamento” “io v’aggio rat’ duemila euro, facitem’ trasì!” “non è possibile, esca subito, guardie!”. Le guardie sopraggiunsero, e Guglielmo strepitante-irato-scalciante fu messo alla porta.
Erano i primi di agosto. Il principino era al colmo della disperazione. Dietro di lui si ergeva il Palazzo della Legge, struttura colossale di trenta piani; davanti a lui ‘a Città.
“E mo’ ch’ facc’? che ce ric’ a mia moglie, ai figli mije? comm’ campamm’?”
Quivi giunse una frattura, un tuono che implose nella testa calva e rapidamente invecchiata in quei giorni di assedio subito, un forte calore che rischiava di incendiarlo, l’ira funesta pronta a soverchiare la ragione. Gli occhi di Guglielmo si accesero. Egli si infilò in un vicolo, prese da tasca delle monete e promise ricchezze, alcuni barboni cedettero alle lusinghe e lo seguirono. E fu così che una banda di gentaglia sozza e rude e villana fece ingresso nel Palazzo della Legge.
“Vogl’ ‘i duemila euro miei!”
“Guardie!” urlarono da dietro la portineria.
“Addò sta l’omm ‘e nient’ ch’ s’è futtut’ i sord’ mije?”
Le guardie, due, grasse, poco abituate alla rissa, aduse a Peroni e fast food, furono bloccate dai barboni a loro volta adusi a vita violenta e randagia.
Guglielmo allungò una mano al collo dell’impiegato:
“T’aggio chiest’ addò sta l’omm ‘e nient’ ch’ s’è futtut’ i sord’ mije”.
“Non lo so”.
‘O Sceicc’ a quel punto, con una forza mostruosa, scagliò l’impiegato contro il muro e la testa fece crash e il sangue schizzò ovunque. Le guardie, tenute ferme dai barboni, tremavano. ‘O Sceicc’ sopraggiunse comm’ a nu’ rinoceront’, e con una serie di pugni violentissimi spaccò loro le ossa del cranio facendo zampillare sangue e materia grigia. Poi uscì.

Seguirono tre giorni di rivolte, con proclami affissi ai muri in cui ‘o Sceicc’ chiedeva che si palesasse colui che aveva preso i suoi duemila euro, e intanto, con una masnada puteolente di tossici, accattoni, barboni e altri miserabili, si abbandonava ad atti vandalici inauditi contro le antiche mura della Città, senza torcere un solo capello a nessun essere umano perché gli uomini non si toccano, non c’entrano niente, la colpa è della Lex. Il tufo crollava, le strade crollavano, le mura crollavano, le chiese crollavano, i monumenti crollavano, tutto crollava sotto la violenza cecata e ‘nfame di ‘o Sceicc’. Gli furono offerti soldi, tanti, per sciogliere la banda, ma ‘o Sceicc’ non cedette, voleva quell’uomo che aveva profittato di lui, e però quell’uomo era parente di uno importante, come sempre in quella Città, e allora nun se putev’ tuccà, ‘o Sceicc’ s’aveva sta’!, poteva avere più soldi, ma quell’uomo no. ‘O Sceicc’ non demorse, continuò a sfracellare le strutture fragili della Città, e pareva che il demiurgo che l’aveva tenuta in piedi per secoli e secoli si fosse, d’un tratto, ritirato a vita privata con pensione minima e tanta voglia di fottersene. Frattanto, il Legislatore dovette cedere e chiedere di incontrarlo.
Luogo deposto all’evento fu il Palazzo della Legge che mai il Legislatore poteva lasciare, e ‘o Sceicc’ ivi si recò solo, senza tema, disarmato.
“Se ripristina l’ordine, le restituiamo tutto, e per lei la vita ricomincerà”.
“Voglio quell’uomo”.
“Preferisce quell’uomo alla sua passata ricchezza? ne è sicuro?”
“Sì”.
“Può avere quell’uomo e i suoi soldi, ma sappia che la Legge poi farà il suo corso. Lei ha da scontare gli assassini e i danni alla Città”.
“Pagherò la pena, ma voglio quell’uomo”.
“Non potrà toccarlo”.
“Va bene”.
Due guardie fecero entrare l’uomo, un impiegatuccio occhialuto e anonimo, con vestiti grigi e sguardo spento, tra i quaranta e i cinquant’anni, e stretta in mano una busta.
‘O Sceicc’ lo fissò, furente, mentre quello gliela porse. La prese, la aprì, contò i soldi, la lasciò cadere ai suoi piedi, si volse all’impiegato, parlò:
“Tu, tu si’ ‘a schifezz’ r’a schifezz’ r’e ll’uommen’. Tu t’e magnat’ ‘a miseria mije, tu m’e schifat’ e scamazzat’, tu t’e pigliat’ ‘i sord’ mije e pur’ l’onor’ mije. Je nun te tocc’, ma te sput’ ‘nfacc’, omm’ ‘e merd’!”
E sputò, e un grumo di saliva corposa, giallognola, atrabiliare, si azzeccò ‘nfacc’ ‘u muss’ appis’ dell’impiegato, dopodiché, questi alzò il capo, fiero, e parlò:
“E tu? Don Guglielmo Galasso, tu che hai fatto? Tutto ciò che hai fatto in questi giorni, la distruzione della Città, lo avevi riservato per più di vent’anni alla plebe, e l’avevi fatto così bene che la plebe si lasciava consumare ringraziandoti. Tu, don Guglielmo Galasso, sei il peggior verme che abbia mai visto, ti sei preso tutto, ti sei preso tutto e più di tutto, e ora che cosa è rimasto? C’è solo questo Palazzo che è intatto, e la tua storia, Don Guglielmo Galasso, finisce qui”.
Don Guglielmo fu preso da uno strano turbamento, qualcosa dentro di lui andava a ferro e fuoco e fumante si spegneva, e lui, proprje iss’, l’omm’ ruoss’, si inchinò e baciò i piedi di colui che gli aveva rivelato la verità.
“Don Guglielmo Galasso, alzati! Con te la Crisi finisce, senza di te la Città rinasce”.
Don Guglielmo Galasso, omm’ onesto e probo, capì, e pianse, perché capì che onesto non era stato mai, e nemmeno probo, e poi fu felice, perché capì pure che avrebbe lasciato il mondo megl’ ‘i primm’.
Allungò le mani verso le guardie per farsi ammanettare, e si fece accompagnare in ascensore. Destinazione: ultimo piano.
Guglielmo Galasso, decaduto in via definitiva, avrebbe visto ‘a Città dall’alto, fino alla fine dei suoi giorni.

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[Una versione leggermente diversa del racconto è presente nell’antologia Una piazza, un racconto. Storie in tempo di crisi, sedicesima edizione del concorso letterario a cura della Comunità Evangelica Luterana di Napoli, Iuppiter Edizioni, 2014]