LA TRILOGIA DELLA FORMA a cura di Giacomo Giuntoli

Prima dissertazione: Il dolore della forma in Tondelli: dall’Attraversamento dell’addio a Camere Separate.

[Parliamo di Tondelli in concomitanza con la nuova pubblicazione di Camere Separate e con il venticinquennale dalla prematura triste dipartita –  una sedie di interventi del critico Giacomo Giuntoli]

tondelli_piervittorio[“Osservate la foto. Altri libertini è appena stato sequestrato dal pretore dell’Aquila. Pier mostra il cartello preparato da Nasi con mani certosine. “Finalmente un libro diverso”, dice la locandina. Quel cartello è creato da Nasi, non c’entra la Feltrinelli. È puro artigianato. Attaccato con ventosa nel mezzo della vetrina campeggia un volumetto di Osho edito da Re Nudo. Mi pare il Seme della Ribellione. Per dire cos’era allora l’antro di Nasi. Pura alternativa quotidiana.”]*

Nel 1984 Pier Vittorio Tondelli, dopo il successo di Altri libertini e Pao Pao, scrive un racconto che sancisce una svolta nella sua produzione. Attraversamento dell’addio, infatti, introduce la Fenomenologia dell’abbandono, poetica che avrà un lungo e sofferto sviluppo formale. Questa nuova stagione artistica dello scrittore è principiata da un evento simbolico, ovvero una conferenza fiorentina intitolata proprio Fenomenologia dell’abbandono. Durante questa occasione l’autore legge, oltre al nuovissimo racconto che all’epoca è ancora intitolato semplicemente L’addio, brani da Roland Barthes (l’autore di Frammenti di un discorso amoroso, quello che all’epoca, insieme al Libro tibetano dei morti e ai Salmi, risultava essere uno dei suoi  libri preferiti), Botho Strauss e Gianni Celati. Nella neonata Fenomenologia si tenta di descrivere “il sentimento dell’abbandono, l’abbandono d’amore, l’abbandono della persona amata, l’abbandono delle cose o forse anche l’abbandono della realtà”. Nell’Attraversamento dell’addio si può leggere, quindi, la prima incarnazione di questo percorso formale. Il racconto culmina con l’addio fra i due amanti Fredo ed Aelred.

“Fredo non capì, non sentì e non si accorse che Aelred se n’era andato. Era sul letto e ondeggiava in preda alla sbronza. Ondeggiava il suo pensiero. Poi ricordò come un lampo la battuta di un vecchio travestito in uno spettacolo parigino, cui aveva assistito in compagnia di Aelred. Ricordava benissimo la scena, gli attori maschi in costume femminile, i siparietti e le battute. Soprattutto quella battuta: “Ma non potevate avere figli carini!”. E lui e Aelred avevano riso come pazzi. Ridendo, e ora anche impazzendo, si portò verso il bagno per rigettare. “Aelred,” fece appena in tempo a borbottare, come se fosse sulla scena del cabaret di Parigi. “Aelred, ma non potevamo avere figli; è tutto così naturale!” Si rivoltò i visceri nella vasca da bagno, si sfogò e svenne sulla moquette gelida.”[1]

La frase che Fredo riferisce al compagno Aelred: “[…] ma non potevamo avere figli; è tutto così naturale” richiama da vicino una frase di Carlo Coccioli tratta dal romanzo-monstre Fabrizio Lupo: “Tu es beau, Laurent, s’ j’avais un fils je voudrais qu’il te ressemble. Ma non vi saranno figli nostri”[2]. Fabrizio Lupo è un opera del 1952 in cui si affronta il tema dell’omosessualità. Il romanzo inizia proprio con l’incontro fra Fabrizio Lupo, un pittore, e lo stesso Carlo Coccioli. Fabrizio ha cercato insistentemente di ottenere un incontro con lo scrittore livornese perché rimasto colpito profondamente dal suo ultimo romanzo, Il cielo e la terra, dove uno dei personaggi principali del romanzo è omosessuale. Fabrizio decide di confidarsi a Coccioli: anche lui è un omosessuale e spera che lo scrittore, così come ha raccontato la storia di Alberto Ortognati, un giorno racconterà anche la sua. Da qui inizierà fra i due un’assidua frequentazione e Coccioli alla fine accetta di esaudire il desiderio di Fabrizio. E man mano che le confidenze susseguono, il lettore vede comporsi pagina dopo pagina la tragica esperienza terrena di Fabrizio che culmina con un doppio suicidio, quello suo e del suo compagno Laurent.

Il libro creò scandalo nella Francia benpensante perché Coccioli, all’epoca osannato dal pubblico transalpino dopo il successo di Il cielo e la terra, aveva scritto e deciso di pubblicare un libro in cui si parlava esplicitamente di un argomento all’epoca tabù come l’omosessualità.[3] In questa sede basti ricordare che il libro fu prima pubblicato in Francia nel 1952 e solo nel 1978 Rusconi lo renderà fruibile in lingua italiana attraverso una nuova versione riveduta dell’autore. La frase ripresa da Tondelli è contenuta all’inizio del capitolo 71 nella seconda parte del romanzo. In questo capitolo sono riecheggiati in modo piuttosto evidente il Gran Meaulnes di Alain-Fournier e i Sonetti di Shakespeare. Quest’ultimo testo è di grande importanza per continuare la nostra riflessione. Infatti la radice prima delle dolenti riflessioni vergate dai due scrittori è rintracciabile nei Sonetti. Si ricordi, in particolare, i sonetti matrimoniali (1-17) dove il poeta inglese invita il giovane amato a non defraudare il mondo di una progenie sottraendosi, così, alla distruzione del tempo. Citiamo ad esempio nei primi quattro versi del Sonetto 16: “Ma perché in un più potente modo non fai guerra a questo sanguinario tiranno Tempo e non ti fortifichi nel tuo decadimento con mezzi più benedetti delle mie sterili rime?” Alle sterili rime il poeta antepone la possibilità che il suo amato Master/mistress of his thoughts lasci dietro di sé una dolce prole che rechi la sua dolce forma.[4]

Shakespeare è una presenza costante in Fabrizio Lupo. La prima versione del romanzo aveva addirittura in ex ergo una lunga citazione tratta da Il mercante di Venezia ma non credo che Tondelli ne sia mai venuto a conoscenza poiché è stata rimossa dall’edizione italiana del 1978. Il rapporto fra Coccioli e Fabrizio Lupo è estremamente complesso. Più volte nei suoi scritti autobiografici Coccioli parla di Fabrizio Lupo come di uno dei suoi scritti più importanti, il capolavoro da affiancare a Il cielo e la terra, Davide e Piccolo karma. Ma Coccioli ha alternato momenti di esaltazione a momenti di ripudio per questo romanzo. Confrontiamo per esempio queste due riflessioni dell’autore. La prima è tratta da Piccolo Karma (1987), mentre la seconda invece da Tutta la verità[5] (1995):

“La più bella cosa che io abbia scritto, o per lo meno quella di cui arrossisco meno, è la seconda parte di Fabrizio Lupo nella versione italiana, di moltissimi anni posteriore alla francese, e pubblicata da Rusconi”[6]

 “Coccioli – Amore è la parola più ingannatrice del dizionario.

 Abramson – La sua letteratura […] è fondata sull’amore e su Dio

 Coccioli – Due parole una più ambigua dell’altra. Ma sono parole a tal punto globali che non vi è maniera di evitarle: la fuga non è ammessa. Racchiudono l’Universo.

 Abramson –  Ora però lei chiama pazzia l’amore assoluto…

 Coccioli – Dicendo pazzia penso soprattutto a Fabrizio Lupo che ripudio, sì, ogni volta che posso, benché lo senta come la voce più insoffocabile dei miei libri…”[7]

Questa voce insoffocabile certo deve avere colpito profondamente Tondelli. Anche perché nel Coccioli di Fabrizio Lupo l’amore assoluto è anche amore absolutus poiché, oltre a non prevedere uno sviluppo biologico fra i due amanti, è condannato da Dio. Il rapporto amoroso omosessuale quindi deve eternamente essere confinato in una disperata e angosciosa separazione. Una separazione biologica che si estende fino a diventare metaphysical bug. Potremmo riassumere la questione affrontata dai due scrittori in questi termini: “Perché Dio mi ha fatto nascere in questo modo se, come dice Meister Eckhart, un’anima non può salvarsi se non nel corpo che le è stato assegnato?”. E infatti Tondelli, in un’eulogia appassionata verso colui che definì “lo scrittore assente”, sottolinea come

“ritrovare nell’opera di un autore italiano quei tormenti e quegli entusiasmi per una religiosità pura e incorrotta, per una fede da vivere nella pienezza del proprio corpo e nell’univocità della propria storia (…) fu un’illuminazione.”[8]

L’insopprimibile bisogno di affermazione del proprio corpo e della propria storia è una crociata che entrambi i due scrittori hanno combattuto durante il corso della loro esperienza umana ed artistica. Perciò è proprio la ricerca di questa religione della pienezza, in cui un Dio virilizzato consente al devoto di vivere il proprio corpo senza “cilicio e pena”, ad essere l’anello di congiunzione profondissimo fra Coccioli e Tondelli[9].

Così, alla luce di quanto detto, questa citazione che Tondelli prende da Fabrizio Lupo nell’articolo dedicato a Coccioli acquista un nuovo senso:

“L’opera d’arte che non odori di sangue (di sperma) non è degna dell’uomo. Ronza il moscone collerico. Collerica giace l’estate giace sulla Toscana, domina aestas, in un ronzare nella stanza in penombra. Oh, il prudente fremere, un fremere appena, della mia mano sul mio ventre. Se si raccoglie una manciata di terra, in estate, si sente odore di sangue. O di sperma: non è lo stesso? La mia mano sul mio ventre odora di sangue. Ma la folla è linfatica. Scalpita un cavallo: dove?, ed è possibile? È possibile tutto. È la signora Carmela… Fiorisco, sto fiorendo, sono fiorito.”[10]

Leggere questo brano porta subito ad una domanda: come poteva Tondelli, uno scrittore postmoderno, apprezzare una dichiarazione di poetica che con il postmoderno è del tutto agli antipodi, ovvero: l’opera d’arte che non odori di sangue (di sperma) non è degna dell’uomo. Questa dimensione biologica che Coccioli attribuisce all’opera d’arte come caratteristica necessaria è quanto di più lontano rispetto alla leggerezza e al distacco ironico che sono i tratti distintivi del modus operandi ascrivibile, in genere, alla postmodernità. Fra il 1987 e il 1988 è noto come Tondelli stesse arrivando a nuove formulazioni poetico-teoriche che certo non potevano limitarlo a essere racchiuso in alcun tipo di genere o qualsivoglia corrente letteraria. Si pensi come lo scrittore correggese sul suo tavolo di lavoro, che poi era il suo letto[11], ad Uno ed altri amori e a Fabrizio Lupo alternasse la fenomenologia della morte trattata da Igor Alexander Caruso in Il problema della separazione e ancora il libro scientifico dal Big bang ai buchi neri. Una promiscuità solo apparentemente disarmonica in cui religione, scienza e psicologia si completano vicendevolmente. In questa fenomenologia non più dell’abbandono, ma della morte, l’attraversamento dell’addio deve essere compiuto fino alle estreme conseguenze. L’addio all’amato si estende ad un altro addio: quello al proprio corpo che si dissolve nella forma del linguaggio, ultima Tule prima della morte biologica. Le cause di morte possono essere molteplici:

“I campi di battaglia, le morti quotidiane, la sopraffazione dell’altro avvengono in forma di “delitti sublimi” negli strati profondi della personalità e del comportamento. Non c’è, all’esterno, spargimento di sangue. Eppure i cadaveri sono fra noi”[12]

Queste parole sono tratte dalla recensione Delitti sublimi che Tondelli dedicò a Il caso Franza di Ingeborg Bachmann. Proprio grazie a questo brano, in cui Tondelli riflette intorno al romanzo incompiuto dell’autrice austriaca, ci rendiamo conto di come la perdita della forma non pertiene solamente alle coppie omosessuali ma è una perdita della forma in cui tutti sono ugualmente coinvolti[13].È l’entropia. Un’entropia che si estende ovunque e comunque:

“La storia di Franza […] è invece un dramma purissimo.[…] Anche nella sua ambientazione – che in gran parte è quella del deserto africano -, Franza, ormai senza più parole né gesti, è accompagnata dal fratello […]. Il paesaggio è caldo, accecante di luce, immobile, fossilizzato. E “Fossile” è il nomignolo del professor Jordan. E Franza stessa ormai è un fossile inspiegabile. Per frammenti poetici, per toccate vertiginose e spezzate, strazianti parti di scrittura più distesa, […] la Bachmann ci offre le tappe di un martirio interiore che è insieme perdita del linguaggio e perdita della personalità, ma anche perdita della forma.”[14]

Allora è il destino dell’uomo la perdita della forma, nessuno escluso. Così l’abbandono o addirittura la morte dell’amato è conditio sine qua non per arrivare all’atto dello scrivere, unico gesto possibile per contrapporsi sebbene parzialmente al meccanico dominio dell’entropia. Nella sua copia personale dell’amatissimo Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes l’autore sottolinea: “Sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che sto per scrivere non mi faranno mai amare da chi io amo, sapere che la scrittura non compensa niente, non sublima niente, che è precisamente là dove tu non sei: è l’inizio della scrittura.” L’assenza, però, come insegna il libro del Tao, è il massimo della presenza. Tondelli nella Fenomenologia ci racconta di come l’uomo, secondo Teilhard de Chardin, darà risposta al bisogno di immortalità con un cambiamento di stato. Allora risulta chiaro come un approssimazione a questo cambiamento di stato può essere rilevata in tre diverse sovrapposizioni e dislocazioni di linguaggio, ovvero Camere separate. Un libro dove la morte dell’autore non è più una poetica ma un dramma concreto e universale. È il libro della perdita della forma, una forma che si dissolve attraverso un viaggio concentrico nel dolore. È noto come Tondelli avesse manifestato l’intenzione di includere un aggiornamento della Fenomenologia in Un weekend postmoderno 2, poi divenuto L’abbandono (1993), in cui dovevano essere inclusi probabilmente altri brani di Ingeborg Bachmann e la new entry Peter Handke. Chi meglio della scuola austriaca era difatti riuscita ad attraversare il tema del dolore. Micaela Latini ha così riassunto il tratto di fondo della letteratura austriaca da cui Tondelli si è ispirato:

“Se c’è un tema di fondo che attraversa, come un filo sotterraneo, questo tracciato letterario è l’impotenza di fronte al dolore, e al contempo l’assunzione del pathos come elemento di rottura delle forme. La sofferenza informa di sé l’esistenza, e la deforma. E pur tuttavia, questa deformazione si attua secondo modalità diverse: il dolore fa urlare, ma anche ammutolisce, fa delirare o irrigidire, straripa dalle forme e pietrifica, se esige di essere espresso, cozza contro i limiti del linguaggio”[15]

In questa sede è necessario menzionare, oltre a Il caso Franza, almeno anche la recensione a Il cinese del dolore di Handke del Settembre 1988, pubblicata solo pochi mesi prima di Camere Separate e dove l’autore riflette su un concetto a lui alquanto caro, quello di soglia. Mentre Tondelli faceva sua la lezione degli scrittori austriaci nel frattempo usava in modo eclettico e contradditorio fonti religiose, come accade, per esempio, alla fine della prima parte di Camere Separate con questo brano ispirato al Libro Tibetano dei morti:

“Si vedeva come un feto abortito sballottato da un utero all’altro attraverso milioni di anni. Non era più Nessuno e Nulla. Era un individualità che soffriva nel divenire. Poi pensò che queste immagini di madri, di grembi e quindi di linguaggi che aveva appreso altro non erano che le figure di un’incarnazione. […] Era accaduto che avesse provato, nella propria sostanza biologica, la solitudine cosmica, la confusione, il Nulla. […] La sua angoscia era quella di miliardi di altri uomini; era, in un certo senso, incarnata in una specie dell’universo. Non si trovava più in un delirio assoluto dell’essere, del vivere o dell’esistere, ma in quello del conoscere dal momento che aveva stabilito, in riva al mare, di non essere affatto morto – come invece credeva alcune ore, o secoli, o ere prima. E la sua discesa a terra avveniva attraverso immagini di donne, di grembi, di linguaggi.”[16]

L’autore postmoderno così non è affatto morto: può fiorire nel gesto solitario e disperato della scrittura, essere forma in dissolvenza prima del ritorno all’Uno. Così nella necessaria e dolorosa perdita della forma l’autore trova una “re-corporeizzazione” vivente nel linguaggio abbandonato dell’oggetto libro, come se esso fosse una fase del ciclo delle rinascite. Infatti leggiamo nella seconda parte di Camere separate: “Sente insomma quel libro, o altri che ha scritto, come il suo corpo spogliato. Non una emanazione di sé, una proiezione, un transfert, ma proprio, realmente, il suo corpo”[17].

Questo concetto viene ampliato e ribadito proprio poche pagine prima della fine del libro in un brano che sembra, una volta per tutte, essere un punto di svolta della lunga meditazione sulla Fenomenologia:

“La sua diversità, quello che lo distingue dagli amici del paese in cui è nato, non è tanto il fatto di non avere un lavoro, né una casa, né un compagno, né figli, ma proprio il suo scrivere, il dire continuamente in termini di scrittura quello che gli altri sono ben contenti di tacere. La sua sessualità, la sua sentimentalità si giocano non con altre persone, come lui ha sempre creduto, finendo ogni volta con il rompersi la testa, ma proprio nell’elaborazione costante, nel corpo a corpo, con un testo che ancora non c’è.”[18]

E se, come dice Tondelli, prendendo le mosse da Peter Bichsel, leggere è un atto corporale[19], allora noi siamo costretti ad attraversare Camere Separate nella consapevolezza che il nostro gesto del leggere è sì un atto solitario, ma anche un atto in cui due corpi, uno in dissolvenza e uno già dissolto di cui è rimasta un’incarnazione sotto forma di linguaggio, si fronteggiano nel dolore del cosmo.

[Intervento proposto durante la XIV Giornata Tondelli – Centro di documentazione tondelliana di Correggio http://tondelli.comune.correggio.re.it/database/correggio/tondelli.nsf/B4604A8B566CE010C125684D00471E00/3988A65880C1BA1BC1256B7F003A9C8F?OpenDocument]

Crediti:

Immagine copertina – (Nicola Fangareggi) – http://www.24emilia.com/Sezione.jsp?titolo=Tondelli+2.0&idSezione=32239

Immagine* : http://tondelli.comune.correggio.re.it/database/correggio/tondelli.nsf/B4604A8B566CE010C125684D00471E00/3988A65880C1BA1BC1256B7F003A9C8F?OpenDocument



[1] P.V. Tondelli, Attraversamento dell’Addio, in Opere, a cura di Fulvio Panzeri, Bompiani, Milano 2000, Vol.I, p. 741. D’ora in poi P.V.T,Opere.

[2] C.Coccioli, Fabrizio Lupo, Marsilio, Venezia 2012, p.277.

[3] Per l’affascinante e complesso percorso editoriale del libro rimando al saggio di Walter Siti incluso nella nuova edizione di Fabrizio Lupo: W. Siti, Le contraddizioni degli omosessuali, in C. Coccioli, Fabrizio Lupo, Marsilio, Venezia 2012, p.7-21

[4] “But wherefore do not you amightier way – Make war upon this bloody tyrant Time, – and fortify yourself in your decay –  with means more blessed than my barren rhyme”. W.Shakespeare, Sonetti, RCS libri, Milano 2004, p.17. Traduzione e commento di Alessandro Serpieri.

[5] Testo nato da diciotto conversazioni che l’autore tenne con lo studioso Gabriel Abramson nel 1993 e che, a conti fatti, può essere considerato lo Zibaldone, seppur in forma dialogica, dello scrittore toscano.

[6] C. Coccioli, Piccolo karma, Mondadori, Milano 1987, p.190-191

[7] C. Coccioli, Tutta la verità, Rusconi, Milano 1996, p.131

[8] P.V.T., Opere, cit., Vol. II, p.485

[9] “Io vorrei amare la religione della pienezza. Vorrei essere felice nella mia religione, perché  la sto sentendo come un bisogno biologico, come mangiare, come bere, come fare l’amore. ” P.V.T., Opere, cit., Vol. I, p. 998

[10] P.V.T., Opere, cit., Vol. II, p. 488

[11] È lo stesso autore a raccontarci di questo curioso modus operandi  nello scritto Una conferenza emiliana :”Io, per esempio, leggo sempre a letto. O in viaggio. Ma preferisco a letto, con le matite. Il mio letto sembra un ufficio: telefono, matite, temperini, notes….”. P.V.T., Opere, cit., Vol. II, p. 835

[12] P.V.T., Opere, cit., Vol. II, p. 805

[13] Questo non deve stupire perché Tondelli ha affermato in varie interviste che non esiste una letteratura omosessuale. Si veda il colloquio con Enrico Regazzoni originariamente pubblicato sul numero di Linus del Luglio 1985 e poi ristampato nel volume Rimini, il romanzo vent’anni dopo, a cura di Fulvio Panzeri, p. 160: “Sul fatto della scrittura gay, non sono d’accordo. Ho sempre ripetuto, fino alla nausea, che non credevo nell’esistenza di una scrittura omosessuale”.

[14] P.V.T., Opere, cit., Vol. II, p. 806

[15] M. Latini, Un dolore inaudito, modi di patire nella cultura austriaca, in A.A.V.V. Sensibilia 4, Il dolore, Mimesis, Milano 2010, p.1-13. Per doverosi approfondimenti rimando a questo eccellente articolo di Micaela Latini dedicato interamente al concetto di dolore in scrittori come Handke, Bachmann e Bernhardt.

[16] P.V.T., Opere, cit., Vol. I, p. 952

[17] P.V.T., Opere, cit., Vol. I, p. 994

[18] Ibidem, p.1102

[19]Pier Vittorio Tondelli cita questa espressione del critico svizzero nello scritto Una conferenza emiliana (P.V.T., Opere, cit., Vol. I, p. 835).