Pranzo insieme. Uno è seduto. L’altra arriva. Invito, gesto d’ingresso, piede che accede, sedia si sposta. Piede adiacente al piede del tavolo. Mano che stringe mano, che intreccia dita. Poi si libera, e diventa mano che prende bicchiere e bottiglia, dunque mano che versa in mano che ha preso. E la bocca dell’altra si apre e dice. Poi, la bocca dell’uno si apre e parla.
– Insegnami a insinuare.
– Questo vuoi da me? Il tuo potrebbe essere un ricatto.
– È possibile. Hai pensato a un gioco?
– Sì.
Gli occhi si guardano intorno, evitano di specchiarsi reciprocamente. Allora il piede dell’altra si strofina all’altro suo piede. Accavalla le gambe. Mentre l’uno ticchetta con la forchetta sul tavolo un ritmo storto. Poi accade: la bocca mette in mezzo un dialogo, che gli occhi non sanno sostenere. Prima lei, lui dopo.
– I giochi hanno un lieto fine che profuma.
– Non abbiamo neppure iniziato. La tua curiosità è precoce.
– Come ogni altra. Ora, però, dimmi: sì, ma la tua…
– Sì. La tua è come ogni altra, non c’è dubbio.
– Avevi promesso.
Riposizionato sulla sedia, l’uno guarda il profilo dell’altra. Che fischietta con bocca ad anello. Due dimensioni controluce – se sapesse tracciare linee sui fogli! Un po’ di silenzio. Finché la bocca dell’altra dice qualcosa, e  la bocca dell’uno risponde.
– Questo è assurdo: promettere. Aiutami, scomponi per me la parola.
– No. Non è il gioco che voglio fare. Per questo ci sono già regole.
Ancora altro silenzio. Quindi le mani prendono forchette e coltelli, infilzando e tagliando il cibo, lavorano. I denti tagliano, masticano, e la saliva impasta, il bolo scende. Il meccanismo funziona. Non si guardano l’uno e l’altra, gli occhi agganciati ai piatti o al tovagliolo stretto nella mano che deterge o sul pane che la mano spezza. Va avanti così. Alla resa del conto, l’uno parla per primo all’altra.
– A che cosa vuoi giocare, quindi?
– Io voglio profumare.
Escono. È presto e non piove. I corpi, venuti oltre la porta, nell’aria vibrano come banderuole che indicano la direzione. Dalla testa, dallo stomaco, e infine dalla bocca l’uno dice all’altra.
– Per andare, lo sai, bisogna andare!
– Sì! Non puoi dirmi altro?
– Da dove vuoi che dico?
– Lasciami!
– Sì.
In due direzioni, quattro passi l’uno, tre passi l’altra. Al quarto lei si gira, poi ancora sei passi e lo riafferra. Quindi mano che s’allaccia al braccio, piedi che si incollano all’istante. L’uno parla per secondo, l’altra per prima, bisbigliando in un orecchio.
– Di nuovo, mi tieni.
– Ti lascio, allora.
– Fino a quando?
– Fino a là!
Il marciapiede non brulica come un formicaio. C’è spazio per correre e prendere i vicoli e decidere il là. E andare, per andare a venire. E quando i piedi si stancano, e l’ombra è fresca, nel vicolo dopo altre strettoie che fanno sudare, si fermano. Lei arriva per prima, lui segue e arriva ansimante. E parla, quando i fiati riprendono respiro. L’altra, invece, lo precede e dice.
– A che gioco giochiamo?
– Non vai più via?
– Prima il gioco!
– Hai ragione, in qualche modo ho promesso.
– Iniziamo.
– È già iniziato. Mi scherzi?
– Andiamo là, dove c’è qualcosa.
– E se ci perdiamo? Pensaci: vorresti trovarti dispersa?
– Quindi, restiamo ancora un po’ fermi a dire cose, a fare gesti.
Silenzio. Se si potesse vedere, l’uno e l’altra si vedrebbero in questo momento. Gli occhi però si avvicinano chiusi. Le mani si piantano al muro, altre mani afferrano da dietro e trascinano. L’uno si spinge dentro la bocca dell’altra, il discorso si fa in gola, si parla al canale con lingua muta. L’altra fa le fusa da gatta, e la gamba s’incrocia e strofina la gambe di lui, che strofina la testa del pezzo irrorato e tosto sull’ombelico dell’altra, che dice per prima, scollata la bocca dalla bocca.
– Quando mi chiederai di fare quella cosa?
– Non ti chiederò di cantare.
– Ci speravo.
– Invano.
Ancora bocca che cerca bocca e trova bocca e lingua e saliva. Ancora il pezzo che batte e la mano di lei che cerca e la gamba di lui che spinge sul monte e stimola. Ancora gli occhi chiusi, invisibili. Ancora le mani dell’uno nei capelli dell’altra, attrazione forte, spinta e controspinta. Il gioco delle resistenze che riscalda, si riscaldano, quindi in parte si rilassano, illanguidiscono. E mentre scende, l’altra si lascia sfuggire parola dal recinto dei denti.
– Perché menti?
– Invano!
Silenzio. Il pezzo è tratto. L’altra, da sotto, tutta insinuata e gocciolante, canta. L’uno, occhi al muro, si abbandona a un muggito. Va avanti così. Poi la bocca di lei si stacca e parla. Il muggito di lui s’arresta e, preso fiato, risponde.
– Esci dal tuo corpo, sillaba dopo sillaba.
– Vuoi insegnarmi a dimenticare il mio nome?
– Finiamo!
– Dove?
– Là!