A Gerardo Pio

C’era una volta un usuraio malvagio che tutti odiavano, come solo si può odiare chi rappresenta tutto ciò che vorremmo essere ma che non potremmo mai diventare. Era molto ricco e prestava soldi a tutti gli abitanti della sua città. E se il debitore, dopo un mese esatto, non gli restituiva il doppio del denaro avuto in prestito, lui gli uccideva il figlio, o la figlia, o il padre, o la madre, o il fratello, o la sorella, o la moglie, o il marito. Per questo era l’uomo più temuto di tutta la città.
L’usuraio aveva una figlia, si chiamava Emma. Lui l’amava molto. Tutto quello che faceva, lo faceva solo per lei. Lo faceva solo perché lei fosse felice. Solo perché lei avesse tutto quello che poteva mai desiderare. Perché avesse tutti i giocattoli più belli. Perché avesse tutti i vestiti più nuovi. Perché avesse tutte le caramelle più buone. Perché avesse tutte le scarpe più comode. Perché avesse tutti i cappelli più costosi. Perché avesse tutte le borse più lussuose. Perché avesse il letto più morbido. Perché avesse la scrivania più sofisticata. Perché avesse l’armadio più grande. Perché avesse la televisione più moderna. Perché avesse una vita facile. Perché potesse sempre divertirsi. Perché non potesse mai avere bisogno di soldi. Perché non potesse mai soffrire la fame e la sete. Perché non fosse mai costretta a lavorare. Perché non fosse mai costretta a obbedire a qualcuno. Perché non potesse mai ammalarsi. Perché potesse sempre avere le migliori cure nel caso si fosse ammalata.

L’usuraio portava spesso Emma con sé quando il mese di tempo per un suo debitore era scaduto. Se il debitore si dichiarava insolvente, Emma si trovava ad assistere a una scena triste e raccapricciante.
– Non posso darteli oggi i soldi, – diceva il debitore. – Aspetta qualche altro giorno, ti prego! È troppo poco un mese per mettere da parte tutti quei soldi! Questi che ho mi servono per comprare da mangiare!
– Se non me li dai immediatamente, ucciderò tuo figlio proprio qui davanti a te! – diceva impietoso l’usuraio, estraendo la pistola dalla fondina.
– Ma se adesso ti do tutti i soldi che ho, io e la mia famiglia moriremo di fame! Ti supplico! Aspetta un altro po’! – implorava il debitore piangendo davanti a tutta la sua famiglia.
Ma non c’era verso. L’usuraio non si lasciava mai convincere dalle lacrime. Non si lasciava mai intenerire da nessuna disgrazia. E così l’ennesimo debitore, pur di non perdere il proprio figlio, rimaneva senza cibo.
Il giorno dopo l’usuraio andava da un altro debitore, sempre con sua figlia Emma.
– Aspetta, ti prego! – diceva anche questo debitore. – Devo pagare l’affitto! Se non lo pago oggi, io e mia figlia finiamo in mezzo a una strada!
Ma l’usuraio minacciava subito di uccidergli la figlia, e allora anche questo debitore gli consegnava l’ingiusta e sproporzionata somma di denaro richiesta. E così l’ennesimo debitore, pur di non vedere la propria figlia assassinata, rimaneva senza casa.
Emma però, mentre assisteva a queste scene strazianti, non provava nessuna compassione per le vittime. Nessuna empatia. Nessun disagio. Nessuna indignazione. Perché il padre le aveva sempre detto che quelle persone che lui torturava così tanto non erano altro che esseri inferiori. Non erano altro che individui inutili e insignificanti. Non erano altro che insetti, incapaci di concepire i grandi sentimenti e le grandi idee degli uomini veri. E allora lei di certo non poteva provare pena per il loro dolore, perché il dolore degli insetti non ci fa mica pena! Quando schiacciamo, feriamo, mutiliamo o uccidiamo tutte quelle vite minuscole e invisibili che brulicano intorno a noi, non ce ne accorgiamo nemmeno! E se pure ce ne accorgiamo, e le vediamo agonizzare tra interminabili convulsioni, immaginiamo che il loro dolore sia piccolo, invisibile e inavvertibile, come piccolo, invisibile e inavvertibile è il loro corpicino. E non ne proviamo pietà. Non ne proviamo dispiacere. Perché il loro dolore non potrà mai essere forte e intenso come il nostro. E allora neanche lei poteva provare pietà e dispiacere nel vedere quegli esseri inferiori a lei soffrire per i soprusi, per le torture, per le ingiustizie, per la rabbia, per la paura, per l’umiliazione, per la vergogna, per la fame, per il freddo, per la morte dei loro cari, e per la propria morte. Perché il loro dolore non poteva mai essere forte e intenso come quello degli uomini veri.
E poi, come avrebbe potuto Emma provare compassione per il dolore di quei debitori così disperati, se il dolore lei non lo conosceva affatto? Se per compatirli il dolore avrebbe dovuto almeno conoscerlo? Avrebbe dovuto almeno sapere quanto potesse essere lacerante? Quanto potesse essere insopportabile? Come poteva immedesimarsi in quei disgraziati se lei non aveva mai provato alcuna sofferenza? Come poteva mettersi nei loro panni se lei aveva conosciuto solo felicità, amore, regali, soddisfazioni, abbondanza, bellezza, comodità, piaceri, sicurezza, protezione? Se lei aveva sempre avuto tutto ciò che potesse mai desiderare dalla vita? Se lei era sempre stata la bambina più fortunata del mondo? Come poteva mai indignarsi assistendo a tutto quel terribile dolore?

Arrivò poi il giorno in cui Emma dovette iniziare la scuola. Quando si svegliò, era allegra e trepidante! Avrebbe finalmente conosciuto altri bambini! Avrebbe finalmente parlato con loro! Avrebbe finalmente giocato con loro! Finora era sempre stata da sola, a casa, con le sue bambole preziose, con la sua televisione supertecnologica, con le sue caramelle pregiate. Ma adesso avrebbe potuto finalmente condividere con altre persone i suoi pensieri, le sue invenzioni, le sue scoperte, le sue fantasie, i suoi desideri, le sue gioie, le sue passioni, i suoi divertimenti, i suoi sorrisi, le sue emozioni, le sue mille strabilianti avventure!
Ma appena fu in classe, Emma si scontrò subito con una realtà dura e ostinata. Si rese conto che niente sarebbe stato così come l’aveva immaginato lei. Nessuno dei suoi compagni di classe infatti le parlava. Nessuno le si avvicinava. Nessuno l’aveva salutata. Forse nessuno nemmeno l’aveva guardata.
– Perché non mi parlate? – chiese Emma avvicinandosi a un bambino a caso.
– Perché sei la figlia dell’usuraio! – le rispose il bambino, duro. – Perché sei la figlia di un uomo cattivo! E quindi sei cattiva anche tu!
E così per tutto il giorno Emma contemplò i bambini della sua classe giocare tra di loro, ridere, urlare di gioia, essere felici, divertirsi, farsi gli scherzi, cantare insieme, leggere insieme, colorare insieme, prestarsi le matite, raccontarsi le storie, regalarsi le figurine, volersi bene, abbracciarsi, scambiarsi carezze, darsi bacetti, tenersi per mano. Mentre lei se ne stava da sola, seduta dietro il suo banco, esclusa e disprezzata da tutti. E allora, per la prima volta in vita sua, Emma soffrì. Per la prima volta provò un dolore terribile e spietato. Un dolore precipitoso. Un dolore incontenibile. Perché era tutto così ingiusto! Perché lei adesso desiderava soltanto stare insieme ai suoi amichetti! Voleva solo essere accettata da loro! Voleva solo essere una di loro! Voleva solo essere come loro! Voleva solo essere amata da loro! Voleva solo avere la possibilità di amarli! Lei adesso solo questo desiderava. Ma non poteva averlo. Questa volta, per la prima volta nella sua vita, Emma non poteva avere ciò che desiderava. Non poteva comprarlo. Non poteva farselo regalare dal padre. Per la prima volta nella sua vita, Emma pianse. E scoprì com’era inaccettabile il mondo attraverso il vetro appannato dei suoi occhi piangenti. E scoprì il solletico che le lacrime erano in grado di fare quando scorrevano vicino agli angoli delle labbra. E scoprì quanto era salato il sapore che quelle lacrime avevano.
Mentre gli altri bambini ridevano, Emma piangeva, e piangeva, e piangeva, senza fine, disperatamente. Aveva tutto un suo modo particolare di piangere. Le si mozzava continuamente il fiato. Procedeva a strattoni. Come se fosse ininterrottamente sorpresa dal proprio dolore. Come se non ci credesse affatto al suo dolore. Come se il suo fosse in ogni istante un nuovo incredibile dolore.

Uscita da scuola, Emma prese una decisione: invece di tornare a casa, si recò da tutti debitori di suo padre e chiese di poter lavorare per loro, e di poter mettere a loro disposizione il denaro che avrebbe così guadagnato, affinché tutti potessero raccogliere il prima possibile i soldi che dovevano servire per estinguere il debito.
Dal giorno dopo Emma si ritrovò a pulire bagni pubblici, ad aggiustare macchine arrugginite, a servire ai tavoli dei bar, a raccogliere pomodori sotto il sole, a traslocare mobili, ad assistere persone anziane, a costruire case, a cucire vestiti, a mungere mucche, a pascolare pecore, a uccidere maiali, a programmare software, a guidare camion, a sturare lavandini, a fotografare matrimoni, a vendere assicurazioni, ad affittare case, a imbiancare muri, a montare scenografie, a consegnare la posta, a stampare fotocopie, a dirigere il traffico, a controllare i biglietti sugli autobus, a infornare biscotti, a scavare nelle miniere, a pescare tonni, a zappare la terra, a potare piante, a distribuire volantini, a domare animali feroci.
Emma faceva tutti i lavori possibili e immaginabili. Tutti i lavori più sporchi e faticosi. Tutti i lavori più pericolosi e inquietanti. Li faceva senza mai lamentarsi, senza mai demoralizzarsi, sempre fiera e fiduciosa. Perché già se li vedeva i suoi compagni di scuola che prima la odiavano, farle le feste ora! Già se li vedeva volerle tanto di quel bene! Già se li vedeva adorarla e considerarla la bambina più buona del mondo, la bambina più altruista, la bambina più caritatevole, la bambina più coraggiosa, la bambina più ammirevole! Già se li vedeva chiederle di giocare con loro, cercare di continuo la sua compagnia, regalarle tutte le loro figurine, raccontarle tutte le loro inesauribili storie! Già se li vedeva voler giocare sempre e solo insieme a lei, voler cantare sempre e solo insieme a lei, voler colorare sempre e solo insieme a lei, voler leggere sempre e solo insieme a lei, voler tenere per mano sempre e solo lei!

Quando tornò a scuola, tutta eccitata e impaziente per la felicità che considerava ormai certa e vicina, Emma si rese conto con stupore che nella sua classe nulla era cambiato. Nonostante tutto quello che aveva fatto, nonostante tutti i lavori pesanti e umili che aveva sopportato, nessuno dei suoi compagni le rivolgeva ancora la parola! E neppure un minimo di attenzione! E si sentì affranta e delusa, come potrebbe sentirsi affranto e deluso uno scrittore che non vede l’ora di pubblicare un libro, pensando che tutti dopo lo avrebbero finalmente amato e osannato, e, invece, una volta pubblicato il libro, si accorge che non è cambiato niente! Che nessuno ne parla del suo libro! Che nessuno manco lo ha letto!
– Ma perché non mi parlate ancora? Lo sapete tutto quello che ho fatto per i vostri familiari, no? Lo sapete tutto quello che ho sopportato perché loro potessero saldare i debiti che avevano con mio padre, no? Sono buona adesso! Perché ancora non mi volete bene? Perché ancora non volete giocare insieme a me? – chiese Emma a un altro bambino a caso.
– Perché i soldi che hai guadagnato per noi non hanno fatto altro che peggiorare la nostra situazione! – le rispose furioso il bambino. – Tuo padre, quando ha notato che molto prima della scadenza i nostri familiari gli avevano già restituito il doppio del denaro che avevano avuto in prestito da lui, ne ha chiesto il triplo! Entro la stessa scadenza! E adesso noi non sappiamo come fare! Siamo disperati! Adesso dovremmo dargli sempre più soldi! D’ora in poi non si accontenterà più del doppio dei soldi che ci presta! Ne vorrà sempre il triplo!

Emma si mise a lavorare ancora di più. Senza sosta. Lavorava più velocemente possibile, perché potesse guadagnare subito tutti gli altri soldi che servivano ai debitori.
– A quanto pare ce li avete i soldi, eh! Persino il triplo siete riusciti a darmi in tempo! Allora entro mezzanotte voglio il quadruplo! – diceva di conseguenza l’usuraio insaziabile alle sue sciagurate vittime.
– Attento usuraio! – gli dicevano i debitori. – Guarda che facendo del male a noi, facendo del male agli altri, fai del male anche a te stesso!
E così Emma lavorò sempre più forte, sempre di più. E fece sempre più lavori. E fece lavori sempre più faticosi, e a un ritmo sempre più insostenibile. E tanto più lavorava quanto più il padre minacciava i debitori. E tanto più lavorava quanti più soldi il padre chiedeva. E lavorò fino allo stremo delle sue forze. Finché un giorno non si ammalò di cuore. E da allora non poté più lavorare.
Non appena l’usuraio venne a sapere che sua figlia Emma si era ammalata di cuore si disperò, si strappò i capelli, urlò di dolore. Perché pensò che la sua adorata e unica bambina non poteva morire così! Lei non poteva soffrire per colpa di un cuore malato! Lei non poteva vivere per sempre con quei dolori improvvisi e lancinanti al petto! Lei non poteva limitare la sua vita per paura di un infarto! Lei non poteva smettere di giocare con tutti gli altri bambini solo perché il suo cuore non glielo permetteva! Lei non poteva smettere di correre con loro! Lei non poteva smettere di fare sport con loro! Lei non poteva smettere di cantare con loro! Lei non poteva sentirsi inferiore e svantaggiata rispetto ai suoi amichetti a causa di questa malattia! Lei non poteva sentirsi esclusa! Lei non poteva sentirsi sola! Lei non poteva sentirsi infelice! Lei non poteva rinunciare così alla sua gioia! Alla sua spensieratezza! Alla sua serenità! Ai suoi divertimenti! Ai suoi sogni! Non potevano esistere desideri che le fossero preclusi! Non potevano esistere piaceri che le fossero negati! Emma aveva bisogno subito di un trapianto di cuore! Assolutamente!
E così l’usuraio fece fare a tutte le figlie dei suoi debitori l’elettrocardiogramma, il test ergometrico, l’ecocardiogramma, l’ecocolordoppler dei tronchi sovraortici, per scoprire chi di loro avesse il cuore più robusto e sano. Dagli esami risultò che il cuore migliore lo avesse Alice. L’usuraio, allora, si recò immediatamente, insieme a sua figlia Emma, a casa della bambina dal cuore perfetto.
– Il mese è scaduto, e tu non mi hai ancora dato il quintuplo del denaro che ti ho prestato! – disse l’usuraio al padre di Alice.
– Il denaro non ce l’ho! È troppo! È ingiusto! E anche se vendessi tutti i miei averi, i soldi ricavati non basterebbero mai per arrivare a quella cifra esagerata! È impossibile darti tutto quello che pretendi! – gli disse angosciato il debitore.
– Mia figlia Emma è malata di cuore! Ha bisogno di un trapianto! Tua figlia Alice ha il cuore più sano e robusto di tutta la città! Stasera verrò a prendermelo! – decretò inesorabile l’usuraio, e lui ed Emma se ne andarono via.
– Noooooooooooooooooooooo! Mia figlia noooooooooooooo! – gli gridò dietro, disperato e piangente, il padre di Alice.
Emma non poteva permettere che ciò accadesse! Non poteva permettere che Alice morisse per colpa sua! Per colpa del suo cuore malato! Tutti i suoi compagni di classe l’avrebbero odiata per sempre! Non gliel’avrebbero mai più perdonato! Se Alice fosse morta non avrebbe più potuto sperare di essere un giorno amata da loro! Non avrebbe più potuto sperare di essere accettata da loro! Non avrebbe più potuto sperare di essere una di loro! Di essere considerata buona da loro! Di ricevere le figurine in regalo da loro! Di sentirsi raccontare le loro storie! Di essere presa per mano da loro! Di essere accarezzata da loro!

Emma decise di fare un gesto eroico. Un gesto degno di lode. Un sacrificio grandioso. Decise che avrebbe fatto consegnare al padre il suo di cuore, al posto di quello di Alice. Così tutti i bambini della sua scuola le avrebbero finalmente voluto bene! E avrebbero pianto per lei! Per la sua bontà! Per il suo coraggio! E l’avrebbero ammirata! E avrebbero sentito la sua mancanza! E avrebbero parlato con tenerezza di lei! E avrebbero disegnato il suo volto su tutti i loro quaderni! E le avrebbero dedicato tutte le loro canzoni! E avrebbero inventato anche un gioco che si chiamasse Emma! Un gioco che consistesse nel morire per salvare un’altra persona! E l’avrebbero ricordata a vita! E l’avrebbero ringraziata per sempre! E avrebbero lasciato sulla sua tomba tutte le loro figurine! E avrebbero accarezzato la sua tomba! E avrebbero baciato la sua tomba!
Emma quella sera si presentò dal padre di Alice e si fece togliere il cuore. L’usuraio andò a prendersi quello che credette essere il cuore forte della figlia del suo debitore, tornò a casa raggiante di gioia e finalmente sollevato. Ma non riuscì a trovare Emma. Da nessuna parte. In nessuna stanza. Sotto nessun letto. Dietro nessun albero del giardino. Lungo nessuna strada. Dentro nessun negozio. All’interno di nessun parco. La cercò per giorni. Ma niente. La sua unica e adorata bambina era scomparsa! Se n’era andata! L’aveva abbandonato! O forse era stata rapita! O forse era stata uccisa!
Allora l’usuraio tornò dal padre di Alice, per riportargli quel cuore ormai inutile.
– Puoi riprenderti il cuore di tua figlia Alice! Non mi serve più! – disse, crudele, l’usuraio al padre di Alice. Buttò a terra il cuore che aveva in mano e lo pestò con i piedi, pensando così di fare un ennesimo torto all’uomo che aveva di fronte.
– Quello non è il cuore di mia figlia Alice. È il cuore di tua figlia Emma. È stata lei stessa a chiedermi di scambiare il suo cuore con quello di mia figlia, – disse l’uomo all’usuraio.
L’usuraio si inginocchiò a terra, prese quello che restava del cuore di sua figlia Emma, se lo portò vicino agli occhi. L’aveva ridotto a nient’altro che a una poltiglia sanguinolenta, ma non ne provò repulsione. Se lo strinse al petto come se stringesse una bambina bisognosa d’affetto. Così.

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In copertina: Pieter Bruegel il Vecchio, Proverbi fiamminghi, 1559.