Ancora a proposito di cassetti, rovistando tra i crapulosi miei ho trovato un frammento di critica radicale, il contrario di un manifesto minimo – senza il quale, tuttavia, oggi non potrei scrivere nè dire parola alcuna. Ahí va:

Epochè

“È un lungo discorso quello sulla scrittura come frammento -ma il termine frammento già tradisce un giudizio negativo, bisognerebbe dire testo come segno-, proponibile in mille vesti cui è sotteso un unico motivo. C’è un aspetto di questo discorso che non è certamente nuovo, che anzi è il leitmotiv di un’intera scuola che , con Artaud, si potrebbe chiamare scienza e coscienza della perdita e della scrittura.
Derrida nel finale di un testo tratto da una conferenza pronunciata negli Stati Uniti (“Come non essere post-moderni”) dimostra come un testo, quel testo lì, sia anche il suo stesso prodursi in fieri, il suo porre e disporre delle proprie condizioni di effettuazione. La questione che pone, seppure in modo restrittivo è una scrittura, un testo, dunque una costruzione, che si vieta dio. Ora, questo vietarsi dio, che è un incipit di trasvalutazione, e un ritorno paradossale al rigore della fatticità, è limitato alla circoscrizione effettuale di un testo, ed è proprio questa limitazione a rappresentare il nodo della questione: non solo l’arte, la scrittura, il testo, è testo, ma ogni singolo aspetto del costruire -e del costruito- è arte, testo, segno, e cioè interpretabile come tale, opera, sul cui sfondo hanno operato, e operano, condizioni imprescindibili. Per essere più chiari, su questa restrizione ad un unico tipo di testo grava quella sorta d’istanza cristiana per cui dio è la verità e la verità è rivelata, ovvero non si deve, non si può interpretare l’intero mondo, fin nei suoi più infimi aspetti, quale segno; bisogna che ci sia un vetitum, un occulto, per citare Antonin Artaud. Derrida, in questo senso ripete l’abito teistico per cui l’uomo, attraverso un trasferimento, delega a dio – un dio qualunque, fosse anche il dio della tecnologia – ciò che più gli è proprio, il suo mondo, la sua diabolica, immorale, abilità tecnica di semplificazione, costruzione, e si vieta quello sguardo totale che implica la necessità del rovescio e del doppio ovunque – necessità che si chiama ateismo. E vengo al punto.

La scrittura frammentaria, intransitiva, dunque, è il confino di dio; il non riuscire a rintracciare un’unità forte, centrale, dio, non più come una malattia, una confutazione, ma come un’esigenza, un arbitrio, una sovrana volontà. Il suo paradigma compositivo, in qualche modo, è la natura: un movimento che ha la sua ragione, il suo ciclo, nell’impronunciabilità della sua legge, nel suo precedere e fondare il codice, la convenzione, il patto, la parola, nell’aver voluto tutto ciò e nel presupporlo ogni volta. La parola stessa, in questo contesto, diviene divinamente successiva, svincolata a forza da ogni verità che non sia la forza stessa che l’ ha voluta, la precede e la dirige. E in qualche modo, come scrive Nietzsche, il pensiero di questa forza, volontà di potenza, potrebbe essere un pensiero divino.
Nella costanza del motivo, c’è unità. Ma essa è tale da negare il diritto a tutto ciò che, prima, si arrogava questo nome, poiché si pone aldilà della categoria dell’unità. Cos’è, in effetti, tale categoria, se non una pratica di ripetizione servile di un abito fin troppo noto? Cosa significa che la scrittura, e l’arte tutta, cessa di essere la creatura di dio?

C’è dunque una differenza tra la scrittura frammentaria dell’erosione mentale (Artaud, Bataillee i loro tanti prodromi fino a Carmelo Bene) e la scrittura frammentaria come descritta sopra; tale differenza è un tentativo di ateismo radicale, una pratica di autocrazia creativa – un’ingenuità, probabilmente. C’è però un precedente illustre di questa particolare unità, la quale è anche una particolare e apparente disorganicità, che si richiama al motivo di tali testi autocratici nella necessità – nell’ingenuità – con cui il testo si presenta uno nella sua reale molteplicità,( che è in ogni caso un sintomo di ricchezza): si potrebbe mai rimproverare ad Omero di distrarsi, di andare e venire ?

L’arte dell’erosione mentale ha fatto dell’espressione di quest’ultima, dell’impossibilità di unità, del frammento, un motivo di riconoscimento, di attualità, di integrazione, un motivo elegiaco; come Nietzsche ha scritto, obbedire è un piacere atavico.
Con ciò, tuttavia, non s’intende togliere nulla alla grandezza, all’intensità -e proprio in ciò, alla verità- delle opere che la caratterizzzano; piuttosto, si vuole sottolineare in quale misura si debba scontare il proprio nutrimento, la propria epoca, per conquistare una voce propria.
Il compito scritto nel rigore del frammento, dunque, più che una celebrazione della perdita , è una trasvalutazione – Nietzsche ci scusi se abusiamo della sua tradizione – dell’intero abitare umano.
Per far questo un testo deve venire a capo di due variabili imprevedivili: trovare orecchi e venire alla luce – nessuna delle due appare scontata.

E per finire: esiste, a rigore di logos, un’unità della scrittura, dell’arte, della costruzione, oppure una persuasione dell’unità, ovvero un’unità interpretativa, restrittiva del segno, del tutto strumentale? Non si è forse frainteso l’effetto desiderato fino a chiamarlo causa e principio?”