Una delle mie massime preferite viene dall’Amleto di Shakespeare, e recita: Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia (atto I, scena V).
Questa battuta mi piace perché è vera, sotto ogni punto di vista, e perché nella buona letteratura le “cose” aumentano in modo esponenziale. È una questione di approccio, o di visione, o di immaginazione, perché se il mondo è composto da fatti, la vita è la somma dei suddetti fatti con quello che accade nella nostra testa; e più la nostra testa è flessibile, più la vita diventa piena. I fatti sono il materiale primario, ma non l’unico, su cui noi costruiamo la nostra esistenza.

Fino all’alba si sforzò in ogni modo di individuare i confini della propria prigione, di trovare il filo che l’avrebbe guidata verso l’uscita; ma da ogni parte urtava contro un muro. Finì per concludere che i suoi sforzi mentali, invece di aiutarla, non facevano altro che stringerla dentro limiti sempre più angusti. Al contrario, nei momenti di stanchezza, quando l’attenzione veniva meno, aveva a volte l’impressione di essere sulla via della salvezza. Quando, con la testa vuota, era incapace di fissare il proprio pensiero, all’improvviso si trovava sul confine dove Martin perdeva quasi ogni controllo, ogni autorità. Le sembrava di raggiungere un rifugio, si sentiva libera. Subito dopo, un pensiero a malapena formulato ristabiliva una sorta di contatto con la realtà: lo scrittore l’aveva in pugno e le sbarrava le porte della prigione.

Due nomi vengono in mente nel leggere i racconti di Marcel Aymé: Edith Warthon e, ovviamente, Gogol’. Se le somiglianze con il secondo si basano sui caratteri e sulla loro prontezza di reazione all’intrusione fantastica, la somiglianza con la Wharton sta soprattutto nell’opportunità dell’elemento straordinario e nel suo scontro con il convenzionale: nei suoi racconti gotici la scrittrice americana gioca sull’assunto che le consuetudini vorrebbero che una persona morta avesse la buona creanza di rimanere morta o che l’ambito normale e quello favoloso fossero ben distinti, e da qui Aymé spinge sull’acceleratore forzando il quotidiano ad adattarsi all’elemento fantastico, integrandolo, talvolta burocratizzandolo, ma comunque prendendone atto senza mai metterlo il discussione.

Si potrebbe dire che Aymé sposi la definizione del pittore Pìskarëv, creatura di Gogol’, che vede la vita come una perenne zuffa tra fantasia e realtà; ma l’immaginazione di Aymé è talmente grande ed eccentrica da andare oltre: i protagonisti combattono con loro stessi, con i loro pensieri e le loro aspirazioni, con ciò che sono e ciò che pensano di essere, ma sono sempre prontissimi ad allargare la loro percezione delle cose. Ogni elemento si conferma nella sua precarietà e mutevolezza, e il fantastico è solo uno tra i tanti di cui tener conto nella quotidianità.

Spesso i doni di Dio, specie quando appaiono un po’ gratuiti, non vengono tenuti nella giusta considerazione, e la gente vi scorge facilmente un motivo di scandalo. Duperrier si sforzò, per quanto possibile, di passare inosservato in ogni situazione. Rinunciando a malincuore alla bombetta, che considerava attributo necessario della sua professione di contabile, indossò un grande cappello di feltro chiaro le cui larghe falde coprivano del tutto l’aureola, anche se ciò l’obbligava a tirarsi indietro il copricapo con un’apparente disinvoltura. Con indosso quel cappello non c’era nulla, nella sua persona, che sembrasse troppo insolito allo sguardo dei passanti.

Nelle storie di Aymé c’è un gusto per il mero narrare, per l’affabulazione, che da sola fa esplodere la meraviglia; non è solo cura per lo stile, ma si tratta di un divertimento, il piacere del buon raccontare che trascende le vicende in sé e riesce a farsi sguardo e a trasmettersi negli occhi del lettore, che si fanno più lucidi, attenti e ironici.

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Marcel Aymé
Martin il romanziere (selezione di racconti pubblicati tra il 1938 e il 1950)
Trad. it. Carlo Mazza Galanti
Roma, L’orma editore, 2016
pp. 216