Oggi, a Crapula, una vecchia conoscenza. Ha cambiato nome, sì, prima diceva di voler avere a che fare con la luce, poi però addentratosi nella Foresta Nera ha deciso di darsi nuovo nome, altro. Che volete che sia, non siamo mica dei platonici nostagici, qui. Eccolo dunque, M Zyklus – conoscitore di Martin Heidegger come ancora pochi. E proprio riguardo al filosofo tedesco che si pose il compito di ritrovare l’Essere perduto o obliato (interrotto), così scrive.

Mi ritrovai per la Foresta Nera, ché la via era finita

“L’arte non riproduce la verità, bensì la istituisce, la ‘mette in opera’ ”. L’opera d’arte non pecca mai di umiltà, se lo fa non ha niente da dire. Ed invece l’arte parla. Chi parla? L’artista? La sua epoca? Il suo mondo? Non esattamente. O meglio, l’effetto non è da confondere con la causa: se dai versi di Shakespeare è possibile comprendere anche il tempo di Shakespeare, non è per vincolo causale ordinario. Il mondo che vide Omero, non interessa a nessuno: letteralmente. Ovvio che nell’Iliade si possano rintracciare tracce dell’Omero visibile, mortale, l’uomo – il popolo – che vide: non il Poeta, insomma. Ma anche questo non importa. Anche ad Heidegger tutto questo non sembrava importare granché, almeno fino a quel fatidico 1927 che vide la pubblicazione di Essere e Tempo. Poi, invece, la cosiddetta Kehre, e la scoperta di qualcosa fino a quel momento ignorato, o sottovalutato, messo fuori scena dal tentativo di fondare una ontologia alla fine della storia, ambizione eterna di fare della filosofia un sapere metastorico. Dovette rivedere i suoi propositi.
L’ultimo paragrafo di Essere e Tempo recita nel titolo “L’Analitica esistenziale-temporale dell’Esserci e il problema ontologico-fondamentale del senso dell’essere in generale”. Acquisita e data come imprescindibile la conquista definitoria della “struttura originaria della totalità dell’essere dell’esserci” come “Temporalità”, Essere e Tempo terminava con un inizio: un inizio impossibile, un salto che gli strumenti potentissimi del testo non permettevano di compiere. Come passare dalla comprensione dell’Esserci a quella dell’Essere? Nel volume tradotto da Chiodi, dopo 500 pagine densissime, il problema dell’Esserci pare soluto, quello dell’Essere riproposto e sospeso, poiché dopo il chiarimento “della costituzione dell’essere dell’Esserci” resta da elaborare il “problema dell’essere in generale” verso il quale in ogni caso l’analitica esistenziale costituiva nelle intenzioni di Heidegger una via di accesso. Se vogliamo, uno dei capolavori della filosofia contemporanea si concludeva per il suo Autore con un nulla di fatto, ed una esigenza di ripensamento e comprensione del perché fosse giunto ad un punto morto. La comprensione dell’Uomo, quale Esserci, non sembrava dare più un accesso diretto alla comprensione dell’Essere in quanto tale.

Dopo più di vent’anni da Essere e Tempo, dopo una guerra mondiale, esce nel 1950 Sentieri Interrotti, ed il problema dell’Essere è affrontato nuovamente, in modo nuovo, salvando in ogni caso la scoperta della temporalità quale fondamento dell’Essere al mondo dell’uomo. L’Esserci è un essere che lascia tracce, di sé, del proprio passaggio sulla terra. L’Essere crea un mondo con la sua presenza, e “l’intera sfera della presenza è presenza nel dire”. Dopo Eraclito, dopo qualche millennio insomma, dopo il predominio della vista, dell’ho-visto-dunque-so platonico erettosi a destino della scienza moderna nella sua forma ultima razionalistico-cartesiana, che Heidegger vede realizzarsi in pieno dell’epoca della Tecnica, l’Idea viene detronizzata in favore del Logos. Il linguaggio umano viene individuato quale tempio, “casa dell’essere”, là dove l’Essere da sempre abita, là dove pure si nasconde e viene ciononostante tirato fuori. La scienza moderna si è sviluppata grazie a “tà mathémata”, ovvero a quelle cose che “nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo”, e le conosce in anticipo poiché le pone, le crea.
Lo stesso esperimento scientifico altro non è che un “procedimento che, nella sua impostazione e nella sua esecuzione, è sorretto e guidato dalla legge ipotizzata e mira al reperimento di fatti che verifichino tale legge o ne neghino la verifica”: il trionfo della Matematica insomma. E la Matematica è creazione, anzi di più, azione dell’Uomo, per cui, grazie ad essa, da Cartesio in poi “l’ente è determinato come oggettività del rappresentare e la verità come certezza del rappresentare stesso”. Il soggetto pone il suo oggetto e il mondo si fa immagine vista da un soggetto: “la cosa sta come noi la vediamo”, l’idealismo platonico è diventato la forma più efferata di realismo. È in quest’epoca che la domanda sull’Essere scompare, ma la sua scomparsa è nascondimento e velamento, ovvero condizione preliminare ad ogni svelamento. Anche la moderna estetica non fa altro che contribuire a questo stato di oggettivizzazione dell’ente: l’arte divenuta oggetto, si fa “bene culturale”, si fa fruibile, ha un soggetto consumatore, il pubblico, il “lettore”. Si fa distaccata, visione, figurata idea a sua volta, parete accessibile come quella Sistina gremita di gretti visitanti. Questo mondo siffatto non parla, fa ciance, ma è muto: è il nascondimento linguistico dell’Essere: è la notte del mondo di cui parla Holderlin e che Heidegger tanto bene analizza in Perché i poeti. Ma, appunto, nel silenzio della notte qualche voce si sente, e la voce che parla è dell’uomo che presta parole proprie, nuove, alla profondità del suo Essere, che cerca casa, che vuole abitare il luogo che da sempre in vero abita. Filosofia è una forma di nostalgia, dopotutto. E la voce nostalgica è la voce della verità, la voce che toglie il velo alle immagini, che scolpisce sotto le forme di un Cristo velato il sangue del Dio morto che s’era fatto carne. Siamo nell’”età che nasconde l’essere mentre lo custodisce”. Siamo nell’età dell’immagine che soffoca la parola viva, ma ciononostante vi sono voci che parlano: anche in quest’epoca in cui la Filosofia cede il passo alla scienza, il linguaggio “non si esaurisce nel significare” né può essere ridotto esclusivamente “a segni e cifre”. Il linguaggio è “la casa dell’essere”, la casa da scalfire per ottenere risposte che non siano segni e cifre, casa rischiosa cui si abbandonò la pazzia di Holderlin. Ma il rischio va voluto! L’arte è questo rischio: la solitudine estrema e la morte provata in vita, veleno greve per vene solide, ma mortali, destinate a soffocare. I poeti, ma solo i più grandi, non certo quelli “laureati”, per dirla con Montale, sono voci vere in questo tempo e stringono la mano fuori dalla storia a quegli altri già morti figli di Cronos, ad Omero, a Dante, a Shakespeare, a Leopardi: solo essi “arrischiano il linguaggio”, aprendo l’Essere a nuove regioni, Autocoscienze semplici, inconsapevoli, di un Dio che non tuona più, che è fuggito in non luoghi, e, mentre firma autografi a troie eccitate da aure che non capiscono, che riconoscono dagli indici, non salverà forse mai nessuno.”