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Mattie fu automaticamente squalificata quando il medico si rifiutò di farle proseguire la gara. Le disse che se avesse continuato a ballare avrebbe finito per danneggiare qualche organo e non avrebbe mai potuto avere figli. Lei sollevò un gran casino, a sentire Gloria, insultando il medico in tutte le salse e rifiutandosi in ogni modo di ritirarsi. Ma alla fine si ritirò. Fu costretta. Aveva una spada di Damocle sulla testa.

Sebbene la prima associazione che si fa durante la lettura di Non si uccidono così anche i cavalli? sia con l’etica/estetica dei reality show, di fatto la sconcertante modernità del romanzo di Horace McCoy sta nello spento annichilimento che lo permea: il narratore Robert racconta la storia di una maratona di ballo finita in tragedia con un tono talmente abulico da soffocare ogni sdegno da parte del lettore.
Nessuno dei personaggi mette in discussione il gioco al massacro che lo coinvolge; come scrive Victor Hugo: la miseria offre, la società accetta. Dai ballerini lieti di farsi massacrare da un gioco che li spinge ai limiti (fisici, emotivi, psicologici) al pubblico pagante che gode della baracconata, sono tutti complici e corresponsabili di quanto stiamo leggendo. Nessuno riconosce all’altro lo status di essere umano; anche gli scatti di coscienza di Gloria, compagna di danza del narratore, sono falliti in partenza: la ragazza viene tacciata di antipatia, lo stesso Robert cerca di frenarla per paura di perdere il sostegno del pubblico, importantissimo per vincere la competizione, da cui si lascia distruggere sempre con il sorriso sulle labbra.

Quello descritto da McCoy è un mondo di allegro abbrutimento, di umiliazione affabile, e a lettura conclusa ci si scopre scossi da un senso di disagio, di angoscia, di impotenza. È imperativo vincere, ma non si discute mai cosa si vince, o se ha senso annullarsi, si diventa così il momentaneo trastullo di altre persone per la (ridicola) posta in palio; anzi, chiedersi se ne vale la pena risulta devastante, acquisire la cognizione dello stato delle cose significa sprofondare nella disperazione, nella propria incapacità di agire e nell’inevitabile fallimento esistenziale.

Dei tipi di una certa età ci avevano messo sull’avviso, me e Gloria, che il modo di cavarsela in una maratona di ballo era trovare il giusto modo di impiegare quelle pause di dieci minuti; imparare a mangiare un sandwich mentre ti fai la barba, imparare a mangiare mentre vai al gabinetto o mentre ti fai sistemare i piedi, imparare a leggere il giornale mentre balli, a dormire sulla spalla del partner senza smettere di danzare.

Viene da pensare che la società accetta ciò che la miseria offre perché è essa stessa misera, disperata e incapace di evolversi, in grado a malapena di perpetuarsi, in un eterno contesto di maligna spietatezza. Non si capisce se Non si uccidono così anche i cavalli? sia un libro invecchiato magnificamente (è stato pubblicato nel 1935) o se sia il mondo che descrive a essere ormai putrefatto, rivelandosi in tutta la sua ridanciana e addomesticata brutalità; perché forse Horace McCoy, che tra i suoi mille lavori ha fatto anche il buttafuori in una di queste maratone di ballo, non parla di una sua personale esperienza alienante, e nemmeno ci offre una metafora del capitalismo più sfrenato, ma si limita a parlare di come funziona la vita. La vita è come il ballo: si balla anche quando si è sfiniti, se si cerca qualcosa oltre la sala da ballo non si vede niente, che sia per stanchezza o perché la sala da ballo è infinita. E trovare un senso al ballo appare un’impresa improba, viene il sospetto che l’impresa non valga lo sforzo.

Horace McCoy
Non si uccidono così anche i cavalli? (1935)
Trad. it. di Luca Conti
Milano, Terre di Mezzo, 2007
pp. 123