Si avverte una strana cacofonia leggendo Il giorno della nutria, romanzo d’esordio di Andrea Zandomeneghi (Tunué, 2019): un ronzio di fondo, un rumore bianco, una sorta di disturbo elettrostatico che procede in sottotraccia alla strana vicenda raccontata, a modo suo, dal protagonista Davide – narratore, dice Zandomeneghi in un’intervista, «ossessivo, minuzioso, cervellotico e camaleontico nel suo imitare i linguaggi specifici (giuridico, filosofico, fenomenologico psichiatrico, farmacologico)» – e la accompagna e non sparisce mai se non, forse, alla fine, quando il mistero si risolve. Il mistero è rappresentato da un cadavere di nutria scorticato e congelato che il protagonista trova una mattina davanti alla porta della sua casa di Capalbio, dopo essersi alzato sfatto e ubriaco. Davide apre la porta e il lettore è proiettato in un microcosmo di personaggi ai limiti del farsesco: una madre allettata e preda di deliri onirici che crede, di volta in volta, di vivere nell’universo di Dune di F. Herbert o in un’opera di Dostoevskij; l’ipercolta badante cubana Dorota e il figlio Esteban, investito dei poteri di un inquietante sciamanismo; l’amico intellettuale Emanuele, dal protagonista corteggiato senza speranza; il misterioso nipote Giulio, dongiovanni incallito; don Stefano, monomaniaco giocatore di Risiko! e vergatore di lettere «infarcite quasi sempre di concettose ampollosità violentemente critiche» indirizzate agli autori dei romanzi che legge, in primis Roberto Calasso (nessuno, o quasi, lo degna di risposta).
Da parte sua, Davide è dedito a un consumo sfrenato di alcool e di qualsiasi (psico)farmaco su cui riesca a mettere le mani e preda di una cefalea tensiva cronica che lo accomuna all’autore del romanzo. E proprio la cefalea, «fida compagna», condizione che «non passa mai, ma proprio mai, nemmeno per una sola settimana, per un giorno, per un’ora, per un minuto, mai e poi mai, a meno di non essere ubriachi», pare assumere un ruolo ben più che accessorio, se non per l’economia del racconto, per la modalità con cui questo è presentato al lettore, tanto che il protagonista, col proprio mal di testa, sembra identificarsi: «la cefalea è mia e mia soltanto. La mia cefalea non è di nessun altro. Semplicemente io sono anche la cefalea». Davide ha rinunciato all’idea che passi e prova, più che a combatterla, a stordirla imbottendosi di alcool e farmaci e, in un certo senso, la riconosce come entità a sé, la rispetta. Il romanzo, allora, pare procedere secondo una modalità che si potrebbe definire ‘cefalgica’, il cui eroe è un coltissimo io monologante e confabulante, talvolta ai limiti del pedantesco, preso senza sosta da «ipertrofici svarioni teorico-stilistici»: divagazioni che sono il vero fulcro del romanzo, espansioni di un pensiero ossessivo che «Quando parte fa tutto da solo. È un continuo autogenerarsi e autonutrirsi».
L’incedere de Il giorno della nutria è pulsante, proprio come ondate di mal di testa: le deviazioni da quel che dovrebbe essere il nucleo centrale si allargano a comprendere qualsiasi argomento, dalle serie tv allo spiritismo, dalla letteratura al poker, dalle controindicazioni dei farmaci a considerazioni sul rapporto tra uomo e spiritualità che ricordano un Caraco meno classico e sessualmente eccitato, per poi restringersi quando Davide prova a ritrovare il filo della vicenda, a scovare l’autore di un gesto tanto estemporaneo e incomprensibile; a tirare, insomma, le redini di un giallo stravolto e in parodia, in cui pare quasi indifferente individuare chi abbia piazzato davanti alla porta del protagonista il cadavere scorticato, perché la nutria è uno specchietto per le allodole, un motore che gira a vuoto e genera, più che una serie di riflessioni logiche che portino all’individuazione di un colpevole, lo stesso, stralunato universo evocato da Zandomeneghi. Se, riflette il protagonista poco prima della metà del romanzo, la nutria «proveniva da una mia colpa», già venti pagine dopo egli comprende che «la nutria era l’avatara non di una colpa ma di un mondo». Un fatto tangibile quanto inesplicabile, nel quale ci si può solo limitare a imbattersi: per quante siano, infatti, le angolazioni da cui proviamo a osservarlo e a decodificarne origine e significati, resterà emanazione opaca e, come conferma il finale della storia, beffarda.
Un esordio, quello di Zandomeneghi, che riflette anche una tendenza ipermoderna, parrebbe, comune a molti autori emergenti che animano blog e riviste letterarie: un salutare e competente giocare coi generi e le influenze personali mettendo, più che lo stile al servizio del fatto raccontato, il fatto raccontato al servizio dello stile, dell’excursus. «Del resto però – ci ricorda l’autore – le due cose vanno di pari passo: aborro i meri esercizi di stile. Qualunque libro sensato non è mai un mero esercizio di stile». L’allontanamento da quello che, fittiziamente, si configura come il nocciolo della questione (chi ha piazzato la nutria morta davanti alla porta di Davide?) sostanzia dunque una storia altra, molto più ambiziosa: prova a raccontarci, dal cefalgico punto di vista dell’autore/narratore, il nostro presente scorticato e incomprensibile.

Andrea Zandomeneghi
Il giorno della nutria
Tunué, 2019
pp. 152