In risposta al pezzo “Pedro Páramo e la maniera quantistica”, pubblicato sul terzo numero di O Metis e recentemente sulla rivista digitale Il Pickwick. Eccovelo di seguito.

 

Pedro Paramo

 

Mi sarebbe difficile dire di Pedro Páramo di Juan Rulfo[1] più di quanto si dice in “Pedro Páramo e la maniera quantistica” di Alfredo Zucchi. Mi sarebbe difficile, perché in fondo non sono un teorico, la teoria mi annoia troppo per quanto è moderna. E inoltre lo sforzo che comporta mi è familiarmente estraneo. E sarebbe anche pleonastico, ammesso che ci riuscissi.
Se dovessi scegliere una posizione nei confronti della scrittura lato sensu, oggi prenderei in prestito le parole del vecchio Borges (una delle poche talpe letterarie che apprezzo) e direi che “la mia lettura è molto più importante della mia scrittura. Questo è un assioma.[2]” E una posizione.
Dunque, ecco che cosa mi è apparso dalla lettura di Pedro Páramo.

Pedro Páramo è un’opera che inizia continuamente. Non smette mai di iniziare e si potrebbe leggere partendo, quasi, da un qualsiasi punto. Il legame con Rayuela di J. Cortázar, vendicatore della letteratura sudamericana in Europa, è di paternità. La frammentazione e la dispersione qui sono già ordinate (costruite e lasciate fluttuare da una zona all’altra della Media Luna), non si chiede al lettore di sforzarsi a tal punto da fare il romanzo come in Rayuela, ma Juan Rulfo obbliga il lettore ad entrare nell’unico circolo possibile, comunque si montino i pezzi.

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 Un amico mi chiede: “Di che cosa parla Pedro Páramo?”. “Di Pedro Páramo, di Juan Preciado, suo figlio, di Abundio, suo figlio e non, di Miguel Páramo, suo figlio, di Fulgor, di padre Rentería, di Susana, di Damiana Cisneros, di Dolores etc. Parla di nomi che designano copri portati a spasso, corpi che sono più aria che carne, bisognosi dell’umidità e della pioggia e della notte per mostrarsi. Nomi di uomini e donne che sfiorano la storia, cioè la realtà (Pancho Villa, la rivoluzione), ma essendo fatti di vento le sfuggono, quasi la rifiutano, perché sono morti. Tutti morti.” E perché lui capisse, gli ho letto questo breve scambio di battute tra Juan Preciado (il primo a parlare) e Abundio (figlio e non, il secondo interlocutore), pag 6 – 7:

– Lei conosce Pedro Páramo? – gli domandai.

Osai farlo perché nei suoi occhi vidi un barlume di confidenza.

– Chi è? – Tornai a chiedergli.

– Un rancore vivente, – mi rispose.

[…]

– Sì lo vedo. Che è successo?

– È passato un correcaminos, signore. Così li chiamano questi uccelli.

– No, io chiedevo del paese, non si vede anima viva, come se fosse abbandonato. Sembra che non ci abiti nessuno.

– Non è che sembra. È così. Qui non ci vive nessuno.

– E Pedro Páramo?

– Pedro Páramo è morto molti anni fa.

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Pedro Páramo e la volontà di potenza.
Chi è Pedro Páramo? Un uomo che comanda. Crudeltà dell’ordine: imporre e mantenere uno stato di terrore sugli altri ad un preciso scopo, rasentando la necessità. Pag. 96 – 97:

– Bisogna che sia così. Lei deve rimanere orfana. Abbiamo l’obbligo di proteggere qualcuno. Non credi.

[…]

– Mi piace com’è tornato ad agire, padrone, sembra quasi ringiovanire.

Pedro Paramo è il mostro.

Il potere puro, cioè capace di sfidare ogni cosa pur di ottenere i suoi scopi; il potere che usa la morte, ordinandola e subendola. La sua (di Pedro Paramo) volontà diventa necessaria perché tutte le cose abbiano una conclusione, solo così la volontà oltrepassa il limite del piacere, della tensione edonistica, del sesso chiavato (la famiglia Paramo è anche legata a una certa maniera di ottenere le donne, tramite lo stupro e la violenza, cui tutti si dedicano. Eppure in questa pratica, che è facile deprecare, si intravede lo strumento, il metodo di comando, la cui immagine perversa si sfoga nel giovane Miguel Paramo, mentre nel nonno (don Lucas) e nel padre essa rappresenta un segno incontrovertibile di dominio. Il piacere stesso diventa atto della volontà di potere, che agisce a sua volta come una costrizione, cui Pedro Paramo obbedisce, allo stesso modo in cui sottostà alla morte e ne regge le ombre.

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 Pag. 89:

– Senti? Sembra che stia per dire qualcosa. Si sente un mormorio.

– No, non è lei. Questo viene da più lontano, da quell’altra parte. Ed è una voce d’uomo. Quello che succede con questi morti vecchi è che quando arriva l’umidità cominciano ad agitarsi. E si svegliano.

Non è il primo punto dove si può rintracciare una certa vicinanza con A. Moresco, Canti del caos. La morte come qualcosa di vivo, che può essere descritta (la vita della morte) e compresa solo e tanto nella finzione letteraria. Che rapporto c’è con il fatto reale, cioè con la possibilità che le cose di cui parlano i morti siano accadute ai vivi? Quasi nessun rapporto diretto interno, dell’io come filtro del dato reale. I giudizi sono spudoratamente immorali, in senso filologico, dal momento che la vita e la morte (vita-morte è un immagine piuttosto europea, legata a “certe cose da dire”) sono i due piani di una stessa superficie, due piani che ruotano intorno ad un solo asse, il cui punto di appoggio è la mano di Pedro Páramo, demiurgo non-platonico.

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Parabola della vita di Pedro Páramo. (Suggestione)

Pericolo e guadagno nel culto del genio.[3] […] si ricordi ad esempio Napoleone, la cui personalità, certo proprio grazie alla sua fede in se stesso e nella sua stella e nel disprezzo degli uomini da essa derivante, crebbe fino alla possente unità che lo innalza al di sopra di tutti gli uomini moderni, e in cui però da ultimo questa stessa fede si trasformò in un fatalismo quasi folle, lo privò del suo sguardo rapido e acuto e divenne la causa della sua rovina.

Pag. 90 – 91

– Si lamenta e nient’altro. Forse Pedro Páramo l’ha fatta soffrire.

– Non credere. Lui le voleva bene. Vorrei dire che non ha mai voluto bene a nessuna donna come a lei. Gliela portarono già sofferente e forse pazza. Le volle tanto bene, che passò il resto dei suoi anni sdraiato su una poltrona, a guardare la strada lungo la quale l’avevano portata al cimitero. Perse l’interesse per tutto. Fece sgomberare le sue terre e fece bruciare gli attrezzi. Alcuni dicono perché ormai era stanco, altri perché venne preso dallo sconforto; di sicuro cacciò via la gente e si sedette sulla sua poltrona, con lo sguardo alla strada. […] Ma passarono anni e anni e lui era sempre vivo, sempre lì, come uno spaventapasseri davanti alle terre della Media Luna.
E tutto per le idee di don Pedro, per i tormenti dell’anima sua. Soltanto perché gli era morta la moglie, quella tal Susanita. Così tu puoi capire quanto le voleva bene.

Non che tra Pedro Páramo e Napoleone ci sia una diretta parentela, è stata la suggestione che deriva talvolta dal leggere più cose. La mente elabora connessioni, e qui il punto di contatto è il crollo. Don Pedro riuscirà a ottenere Susanita, ma la malattia gliela porterà via – e la malattia retroflessa per don Pedro è stata l’ossessione di avere Susanita, di non saper cedere mai, non conoscere resa. Anche l’attesa e il silenzio della morte sono legate a questo suo modo di non arrendersi, fino a frantumarsi come un statua, un idolo, di cui resterà al figlio Juan Preciado (e agli uomini) solo il nome.



[1] Ed. Einaudi, 2004 (A questa edizione si fa riferimento per le pagine citate)

[2] J. L. Borges, Scrivere e sognare. Testi tratti da Una vita di poesia, Spirali nuova ed. 2007

[3] F. Nietzsche, Umano troppo umano. Adelphi, 2013.