C’è una commedia finalista al Calvino XXVIII: Appalermo, appalermo di Carlo Loforti, esordiente classe ’87 e pubblicato da Baldini & Castoldi.

Il romanzo parla della storia di un uomo, Mimmo Calò, uno qualunque quasi, di quel tipo umano che si vede a volte nei bar famosi di ogni città con la tradizione del bar, uno di quelli che consuma e beve un caffè, senza scontrino, già pagato dai fan, magari in una giacca di pelle di renna. Appunto un uomo quasi comune la cui storia, una volta narrata, diventa importante perché/quando svela. Questa operazione che è uno dei motori della narrativa viene svolta, nello scorrere delle pagine, ridendo. Ciò avviene in una tradizione consolidata e solida e soprattutto siciliana. Parliamo però di un romanzo in cui la sicilianità e la sua commedia tornano innovati e rinnovati.

Come nel romanzo Absalom, Absalom di Faulkner, Carlo Loforti fa muovere il suo protagonista in un sud pericoloso che nel suo caso è Palermo. Così ci sono in entrambi i romanzi ampi momenti di riflessione in cui il protagonista, solo di fronte agli eventi che capitano o che si augura, specula quasi come un filosofo dilettante di tutto ma non della vita. Invertendo il tema del rise and fall, caduto il protagonista ecco che in Appalermo, Appalermo è in scena la sua, turbolenta e tormentata, risalita.

“La fanno le saracinesche chiuse questa città. È lì dentro che succedono veramente le cose.”

Andiamo alla trama. Domenico “Mimmo” Calò è un giornalista quarantenne, sposato, la cui vita sembra andare bene, suocera megera e genitori anziani e strambi separati in casa inclusi nel pacchetto esistenziale. Appalermo Mimmo Calò è una celebrità locale — a Mimmo Calò, quello delle partite, lo conoscono tutti —, conduce un programma televisivo sulle gesta del Palermo Calcio. Il suo grido a ogni gol gli ha garantito una più che decente posizione sociale ma non tutto dura per sempre, ed ecco che arriva l’inghippo. Senza spoiler, tocca comunque dire che i guai, in questo romanzo come fuori dalla finzione letteraria, arrivano tutti insieme; il guaio iniziale è solo il primo anello di una catena e le rogne giungono sempre in branco. Mimmo perde il lavoro e questo sarebbe un problema anche in quei mondi mitici della piena occupazione, figuriamoci appalermo, figuriamoci poi con una bambina in arrivo.

“Aspettare un figlio è un po’ come il calcio mercato. Rimani lì a cuocere nel tuo brodo per tutta l’estate, fai la collezione di giornali, indiscrezioni, fantasie, ma tanto le cose si decidono sempre durante le ultime ore”.

I guai cadono e accadono e appartengono alla gravità, in questa Sicilia che così è sempre stata, anche nell’epoca del superamento interessato del welfare si cade e si cade male. La macchina che produce scene comiche e grottesche, spesso calando la narrazione in una commedia nera siciliana, non rimane in nessun capitolo ferma e garantisce al lettore sia l’intrattenimento che il sorriso amaro.

“Umiliate le parole, ci restano solo gli sguardi.
Da quando la parola si è intorpidita, con questa vasectomia ventennale che le ha aspirato la grinta, lo sguardo si è autoproclamato ultimo baluardo dell’imprevedibilità umana. La parola non sorprende più, solo gli sguardi resistono agli ormai noiosi faccia a faccia mammiferi, solo loro tradiscono vivaci l’imprevedibilità, schegge sincere di sangue e anime.
Io ho sempre preferito la parola; più divertente, più legata all’esercizio, più creativa nella sua manifestazione barocca delle nostre semplicità e pochezze.

La parola è limpida; lo sguardo, invece, si annida”. 

La struttura del romanzo è solo in parte lineare. Si comincia con una prolessi (o flashforward) nelle prime pagine e a seguire una serie di monologhi che precedono le azioni e scene rilevanti del romanzo in una condivisione sincera e smaliziata dei motivi dell’azione stessa del protagonista. Loforti inserisce poi in flashback alcuni dei temi della letteratura siciliana moderna come il successo fuori dalla Sicilia (Il cu niesce arriniesce dell’amico perduto di Mimmo, Jean), la liberazione dei costumi mai arrivata, la doppelmoral sessuale, l’insidioso mondo della burocrazia.

La sintassi è spesso quella tipica del siciliano, di fatto, salvo irritazioni o stati d’animo alterati: Mimmo Calò pensa in siciliano ma parla italiano sporco con un lessico particolarmente ricco e insieme molto diverso da quello che il lettore conosce da Camilleri, carico di gergo giovanile e dialettale.

“Il vero grande problema della società moderna occidentale, è la madre. Siamo tutti vittime di una congiura coordinata fra tutte le mamme del mondo, ordita a colpi di anelletti al forno, baci con lo scruscio, premure, e gioia mia con un unico scopo principale: tenerci incollati a loro in un abbraccio lungo tutta la vita.”

Con l’entrata poi in scena di Franco, un italoamericano con un piano ben preciso per Palermo e Mimmo, si aggiunge un uso attento e non molesto del siculish in piena scuola sciasciana ed ecco infatti una variazione dello zio d’America che ci fa riscoprire parole come:

bricchillieri ( = muratore, dall’americano brick, mattone)

bildingu (= palazzo, dall’americano building)

begga (= borsa, dall’americano bag)

In Appalermo, appalermo! emerge un’analisi psicanalitica da strada e la Sicilia e i siciliani sono tratteggiati come ultimo popolo su cui la psicanalisi è presente, effettiva e quotidiana e insieme sabotata. Particolare cura è riservata agli incipit dei capitoli, attraverso cui l’autore fornisce flash veloci e incisivi sulle “filosofie” del personaggio.

“Ci sono un sacco di cose difficili da spiegare a una donna. E per quante liste uno possa provare a fare, ce ne sarà sempre una più completa”.

“Ogni matrimonio riuscito è basato sulla menzogna. È da questo semplicissimo assunto che sono partito per portare avanti la mia relazione con Barbara”.

“Se c’è una cosa che il maschio non sa fare è scegliersi la femmina giusta per lui”.

“È davvero incredibile questa cosa che tutti noi, maschi e femmine, ci andiamo trasformando nei nostri genitori”. 

E non per nulla nella seconda parte del romanzo, ricordando il Woody Allen di Criminali da Strapazzo (2000), la commedia di folklore si trasforma in commedia nera. La metafora calcistica de “il calcio è un bastardo”, non può non ricordare Febbre a 90°, è infatti il regista e scrittore newyorkese il modello creativo di questo romanzo,  strizzando l’occhio anche a Roberto Alajmo e ai suoi romanzi agrodolci ambientati a Palermo.

“Perché, oggi come oggi, niente ti ricorda più della carta da parati in salotto che nella vita non hai concluso una benamata minchia”.

Un segno della commedia riuscita è il far ridere di vicende in cui davvero non c’è nulla da sghignazzare, oltre l’apotropaico. Le vicende di Mimmo Calò sono quelle di un personaggio calato in un tessuto sociale e in un momento economico disastrato, in cui un singolo errore può mettere a repentaglio precario benessere. Siamo oltre la solita storia dell’arrangiarsi al sud; c’è qui la presa di coscienza che il denaro, nella sua rappresentazione di un valore concreto, è inesistente, volatile. C’è un sottotesto non indifferente che descrive con attenzione gli anni della crisi finanziaria e le sue cifre immense e insieme irrilevanti, dannose e irraggiungibili per l’uomo comune e la propria famiglia. La situazione di Mimmo Calò peggiora infatti una volta entrato nel sistema del credito o meglio del debito. “C’è la vita prima dei prestiti” dice il padre a Mimmo, un padre dell’ultima generazione del posto fisso e della produzione di ricchezza tramite il lavoro. Sensibili all’esposizione di un pensiero lo siamo di più a pur necessari spoiler. Basti però ricordare, una volta finito il libro, di una borsa e sì, come metafora, dei tanti, inutili soldi che contiene.

Tocca alla nota negativa e subito si va alla spoilerosissima quarta di copertina. All’ottima trovata del “rapimento social” il lettore dovrebbe arrivare da solo, con la lettura e non di una quarta.

Non indifferente è il tentativo riuscito di creare un romanzo di un realismo nevrotico, il cui intreccio viene svolto con maturità e competenza come da scrittore veterano e in cui i momenti ilari si accompagnano puntualmente a una riflessione anche amara, ma mai davvero disfattista. Mimmo Calò in Appalermo, appalermo ha il suo modo di combattere le avversità e pagine e prosa scorrono, appunto, come su uno schermo, tanto che il testo appare già ben predisposto a mutare, in una futura vita, nella forma di racconto cinematografica.